Il Vero E Il Verosimile

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"Era sui giornali: non li leggevi, allora?" aveva concluso lo zio.

Bruno ricordava quel caso, ma non l'aveva collegato al Fringuella. Il cavaliere l'aveva invece ben in memoria perché, in un lontano passato, il dottore, incaricato di controllare le denunce dei redditi di artigiani, gli era stato potente avversario faccia a faccia negli uffici delle imposte.

Era per la trascorsa professione, dunque, che il direttore amministrativo godeva di vaste conoscenze e, grazie ai suoi antichi colleghi, aveva saputo rintracciare in fretta quel dirigente romano.

Dopo abboccamenti telefonici, contatti epistolari e l'invio di campioni, s'era destato l'interesse della controparte, grazie pure all'opera d'un amico del Pittò e suo agente di commercio per la zona Lazio-Umbria. In un tempo straordinariamente breve, era venuto l'assenso alla stipula del contratto e l'imprenditore, con Bruno al seguito come segretario portaborse, era partito per Roma a concludere l'affare.

Come nelle abitudini del parsimonioso industriale, ma solo quando nessuno poteva saperlo, la spesa era stata contenuta: viaggio notturno in ferrovia in vagone-cuccette di seconda classe. All'arrivo però, preso per il braccio il nipote, lo zio l'aveva trainato, senza che lui ne comprendesse la ragione, nella carrozza adiacente, una vettura-letto, dalla quale, con una strizzatina d'occhio, l'aveva autorizzato a scendere. C'era, e finalmente Bruno aveva compreso, l'amico di Roma ad attenderli.

Questi s'era incaricato d'accompagnarli all'ufficio della controparte e aveva poi atteso con pazienza che il contratto fosse firmato; quindi, li aveva condotti all'aeroporto. Il cavaliere aveva infatti in programma di tornare in aereo, nonostante il maggior costo, sia perché non era certo di poter sopportare la fatica d'un nuovo viaggio in treno, sia in quanto, la sera stessa, avrebbe avuto ospite in villa un importante cliente grossista.

Quel volo, sebbene in sé tranquillo, sarebbe stato per l'industriale estremamente sofferto, tutto vissuto con una mano stretta attorno al suo chiodo portafortuna.

Paura dell'aereo? Normalmente no, ma sì in quell'occasione: era infatti accaduto che l'amico, nel portarlo con Bruno all'aeroporto si fosse lasciato sfuggire, sottolineando divertito che a quelle cose lui per niente credeva, che il dirigente cinematografico aveva nera fama di iettatore potentissimo. Era a lui che i maligni attribuivano, per il solo fatto d'aver partecipato al viaggio inaugurale, il sinistro della modernissima Andrea Doria, affondata nell'oceano pochi anni dopo quella prima crociera. Il Pittò aveva tremato all'idea del pericolo che, senza saperlo, aveva corso durante quell'ormai lontana navigazione; ma era gelato addirittura all'immediato successivo pensiero del rischiosissimo, iellato volo che stava per intraprendere. Sceso dunque dall'auto dell'amico e congedatosi, aveva pensato per un poco, e seriamente, di prendere un taxi e tornarsene alla stazione ferroviaria, nonostante i biglietti aerei già pagati.

Bruno, che nessuna voglia aveva di altre lunghe ore in treno, e per di più di giorno, gli aveva allora insinuato, riuscendo a rimanere serio: "Ho letto le statistiche, ci sono moltissimi incidenti ferroviari; pensa che sono enormemente più numerosi di quelli aerei. Non parliamo poi neanche di quelli stradali, se si viaggia in pullman!"

Il cavaliere aveva immediatamente toccato chiodo e, poiché fare a piedi quelle centinaia di chilometri non si poteva proprio, dopo lunga riflessione aveva, infine, subìto di volare.

Solo all'arrivo avrebbe aperto bocca: "Siamo a terra e fermi, no?" e, all'assenso del nipote, avrebbe concluso: "Hai visto che erano tutte stupidaggini?" come se il superstizioso dei due fosse stato il giovane.

Vi sono persone, avrebbe ragionato anni dopo Bruno tornando con la mente all’episodio, che come il cavaliere si dichiarano atee perché, così affermano, esse sono concrete, positive o, addirittura, scientifiche; ma poi son quelle stesse, tante volte, che leggono ogni mattina l'oroscopo, non passano mai sotto una scala, sfuggono gatti neri e fiori bianchi e hanno almeno un portafortuna in tasca. Sovente questi esseri umani s’attirano guai proprio a causa della loro superstizione.

Giunto in ditta, il viso nuovamente rabbuiato, il Pittò aveva rinchiuso, tenendolo per due dita, il contratto in cassaforte.

"Allora, iniziamo a produrre?" gli aveva chiesto il perito Tirlotti.

"Un…m... un momento, domani ne riparliamo", era stata l'incertissima risposta del principale. Sceso sano e salvo dall'aeroplano, pur non temendo più per la propria pelle, era infatti nato nell'imprenditore un novello timore, che la fornitura al menagramo romano portasse disgrazia all’azienda.

Passavano i giorni e l'ordine di produrre non veniva.

"Cavaliere, cominciamo? Roma aspetta", interrogava lo stupito direttore tecnico.

"Hmm... non c'è fretta".

"Cavaliere", interveniva allora il direttore amministrativo, "scusi ma bisogna iniziare! Ci sarà certo un termine di consegna, no? e poi, i soldi ci servono!"

"Aah!" e il principale, allargando la bocca nel gemito, prendeva a battere alla sua maniera le palme delle mani fra di loro, più e più volte, e si allontanava con l'aria indignata.

Solo Bruno aveva intuito il motivo di quell'incertezza e, ben comprendendo il danno che alla ditta stava venendone, l'aveva confidato al Fringuella.

I rapporti fra i due s'erano, nel frattempo, guastati, il dottore aveva perso molto dell'iniziale rispetto per lui e lo chiamava ormai, intenzionalmente, Bruno invece di signor Seta. La causa? Certamente quell'infelice frase del Pittò sulla nomina dell'erede al suo posto e, ben probabilmente, anche le sopraggiunte difficoltà economiche della ditta. Il giovane, per reazione, aveva ricambiato l'antipatia; inoltre, conosciuto il suo passato, aveva perso la stima per lui. Tuttavia, il dottore restava pur sempre l'unica persona cui affidarsi per salvare la situazione. Infatti, nonostante il suo precedente penale, l'uomo riusciva non poco, unico fra tutti, a intimidire il principale, forse in memoria della fiscale carica censoria che aveva a suo tempo esercitato contro di lui; e non era da escludere che soprattutto per questo il cavaliere, inconsciamente, volesse liberarsene non appena possibile.

"Bruno, perché non m’ha avvertito immediatamente?" lo aveva, per prima cosa, rimproverato.

"Era solo un sospetto; e mi pareva talmente assurdo! Eppure, è l'unica spiegazione logica"; e gli aveva raccontato del viaggio in aereo.

"Non c'è più alcun dubbio", aveva sentenziato il direttore; poi, scuotendo la testa: "Son cose da non credere! e non sappiamo nemmeno come sia 'sto benedetto contratto! L'ha predisposto la controparte a Roma; io non ho neanche avuto l'onore di leggerne la bozza; e vuole che non ci siano penali per eventuali consegne in ritardo? È un'azienda a direzione pubblica, chi sa che ghigliottine!" e s'era seduto sconsolato. Poi, con un balzo d'orgoglio: "…ma lo sa che suo zio è proprio un incosciente? Glielo dica pure, e se non lo fa lei, lo farò io; anzi, ci vado subito!" S'era alzato e, alla bersagliera, aveva preso a girare corrucciato per tutto lo stabilimento alla ricerca del principale.

Per fortuna del Pittò, questi era assente.

Aspetta un giorno, aspettane due, il cavaliere non veniva. Allora il Fringuella gli aveva telefonato. In casa, soltanto la domestica: "I signori sono partiti per una vacanza."

"Una vacanza! Con tutto quello che c'è per aria?"

"Io non so cos'è per aria", aveva replicato la sconcertata fantesca mentre il dottore, senza neppur salutare, abbassava la cornetta.

"Ecco, adesso siamo proprio a posto. Bel parente che ha lei!" s'era sfogato con Bruno, come se la colpa fosse stata del giovane.

Finalmente, d'accordo col Tirlotti e testimone l'erede, era stata assunta l'ammutinata decisione di chiamare un fabbro a scassinare la cassaforte; intanto, senza più indugi, si sarebbe cominciato a produrre per Roma.

Uno dei principali compiti del giovane Seta era divenuto, intanto, quello di passare freneticamente da debitori dell'azienda a sollecitare pagamenti e, raramente, a incassare fatture, e molte volte pure villanie, correndo poi da notai a pagare cambiali del cavaliere prossime al protesto; infatti la crisi, o addirittura la bancarotta, di molti clienti per la congiuntura negativa ormai gravissima, aveva ridotto a un bicchierino la liquidità dell'industria Pittò.

Perciò, quando il ladro Dialzi era nuovamente venuto a elemosinare, l'ultima volta solo due giorni prima della spensierata vacanza del cavaliere, era stato finalmente allontanato e senza un soldo. Prima d'andarsene, aveva però detto al suo antico principale: "Ricòrdati quello che solo tu ed io sappiamo!" e il dottore e Bruno avevano sentito. "Si dànno del tu?!" s'era stupito il giovane.

Scassinata la cassaforte, dove peraltro il denaro era del tutto assente, e prelevato il contratto, mentre il Fringuella e il Tirlotti andavano a leggerselo in ufficio e il fabbro ripristinava i meccanismi della porta, l'erede era rimasto di guardia; e, nell'attesa, il suo sguardo era stato attratto da un pacchetto di lettere. Erano indirizzate allo zio e, come avrebbe poi capito, tutte di mano del Dialzi. Non vincendo la curiosità, dopo aver esitato per un minuto buono, le aveva prese e, un poco discosto, s'era seduto a leggerne una.

Iniziava così: Caro padre...

Il mittente preannunciava una sua prossima visita e invitava il cavaliere a preparare il denaro.

Bruno, visto che l'artigiano stava per terminare, s'era tenute le lettere per leggerle tutte e con comodo dopo il lavoro, sperando che lo zio rimanesse in vacanza ancora per qualche tempo. S'era fatto consegnare una delle due nuove chiavi, mentre aveva lasciato l'altra al Fringuella; il giorno dopo, avrebbe riposto le missive nella cassa blindata.

 

La sera, a casa, prima di cena, senza nulla dire al papà per timore d'esserne rimproverato, aveva letto. Le lettere cominciavano tutte col Caro padre e annunciavano una prossima visita in fabbrica del Dialzi; c'erano poi, diverse da missiva a missiva, considerazioni varie: rimembranze, l'ammissione d'avere l'invincibile passione del gioco, lamentazioni di miseria e richieste di perdono; in una, sottolineata, l'accusa al Pittò d’essere stato irriconoscente, ché molto della bellissima posizione che aveva raggiunto era da attribuirsi a lui, il sottopagato collaboratore tuttofare.

Era venuto in chiaro che il Dialzi era figlio naturale dell'industriale, avuto, prima del matrimonio con la prozia, da una donna che non era nominata, morta subito dopo il parto, e affidato immediatamente dal padre a un orfanotrofio, ma seguito poi sempre da lui che, alla giusta età, l'aveva preso con sé in azienda. Mai, però, l'aveva voluto riconoscere, perché troppo temeva il parere della gente: in quegli anni cose del genere potevano infatti chiudere l'accesso all'ambiente borghese, perché erano considerate colpe vergognosissime; non si pensava che, semmai, colpa era l’abbandonare un figlio come orfano.

Il cavaliere pagava il Dialzi per timore che rivelasse la sua origine? No, era invece per affetto e il figlio stesso lo riconosceva in quegli scritti. Semmai, doveva essere lui a non provare affatto amore per il padre naturale; anzi, tra le righe s'insinuavano disprezzo e rabbia. A suo tempo il Pittò, com'era chiaramente scritto, aveva fatto al figlio la promessa di lasciarlo erede. Poi, disgustato dai furti, scacciandolo, l'aveva ritirata; ma non col cuore di non più rivederlo. Neppure aveva resistito all'impulso di dargli denaro, almeno fin a quando ciò era stato possibile, e ufficialmente con la scusa d’un prestito da restituire non appena l'altro avesse trovato un nuovo lavoro.

Il Dialzi sarebbe morto tre mesi dopo lo scasso della cassaforte, sfracellato in un burrone sulla sua fuoriserie acquistata a cambiali, dopo aver perso gli ultimi liquidi in una bisca.

Bruno aveva riposto le lettere in cassaforte prima che il Fringuella, il quale aveva portato il contratto a fotografare, lo rimettesse a posto: a quei tempi, le comode macchine fotocopiatrici erano ancora un bel sogno.

Nulla mai Bruno avrebbe detto allo zio; si sarebbe confidato col padre, ma solo alla notizia della morte del Dialzi pubblicata dai giornali.

Il cavaliere era tornato al lavoro una settimana dopo l'apertura della cassa blindata e, trovatosi di fronte al fatto compiuto, era stato contento che gli altri avessero deciso per lui, perché la iella, come aveva detto al nipote fingendo di scherzare, sarebbe caduta su di loro.

Sebbene la produzione fosse ormai iniziata da giorni, forte era il timore di non riuscire a consegnare puntualmente; a suo tempo il principale avrebbe fatto meglio a recarsi a Roma col perito, invece che col nipote portaborse. Il Tirlotti avrebbe potuto manifestare alla controparte che il tempo fissato per la consegna era imprudentemente vicino e chiedere una scadenza un po' più distante; e se non fosse stato possibile, almeno non si sarebbe firmato il contratto. Peggio, s'era poi perso tal tempo all'inizio, che non era ormai probabile una spedizione puntuale.

Purtroppo l'accordo, come temuto dal dottor Fringuella, prevedeva, anche solo per un lieve ritardo, il mancato ritiro della merce, nessun pagamento e il diritto a una grossa cifra a titolo di risarcimento; e s'era riusciti a spedire a tempo soltanto un piccolo acconto di merce. Invano il direttore amministrativo aveva cercato d’ottenere dilazioni: il materiale doveva servire per un film storico colossal, coproduzione italo americana, qualche miliardo di lire d'allora di spesa2 , attori provenienti da mezzo mondo, e non si poteva ritardare neppure d'un giorno l'inizio delle riprese. Stavano usando la solita cartapesta al posto della polvere per costruire montagne, avevano sentenziato al telefono contro il dottore; quanto all'acconto, era loro pieno diritto contrattuale di trattenerselo, a titolo di prima rata del risarcimento. Proprio un bell'accordo ghigliottina aveva firmato il cavaliere! Insomma, era stato un disastro; e pensare che, con una sola settimana in più, lavorando a pieno ritmo si sarebbe riusciti. Colpa del Pittò, senza dubbio, per la sua maledetta superstizione.

Cosa fare? Un bel niente; erano stati gli altri che avevano fatto, e immediatamente: una severissima lettera del loro avvocato che domandava, perentorio, il saldo della penale.

Il cavaliere aveva impulsivamente accusato il dottor Fringuella d'aver dato ordine di produrre senza il suo consenso: "...e adesso potrei chiedere io i danni a lei, per la merce trattenuta dal cliente e quella invenduta nei magazzini!"

"Lei è un imbecille!" gli aveva sparato in risposta, insultandolo per la prima e non ultima volta, l'inviperito direttore amministrativo, con la bocca a pochi centimetri da quella del principale e spruzzandogliela di saliva e fiele.

Intimidito, girati i tacchi, l’altro se l'era svignata, battendo come al solito le mani tra di loro, ma debolmente e solo sospirando: "Schifoso, schifoso..."; però, non appena l'imprenditore era svoltato nel vicino corridoio, il rumore dei suoi passi, improvvisamente, era stato coperto da un altro inequivocabile suono, il rintronare d'una formidabile, intrattenuta scoreggia e a questa era seguito, quasi altrettanto potente, un disperato: "Dottore delle palle!"

Il Fringuella era corso verso la voce, ma giunto al corridoio non aveva più trovato nessuno, talmente il cavaliere era stato lesto nell’eclissarsi.

Negli ultimissimi tempi il direttore aveva preso, o ripreso, a bere smodatamente, non solo a pranzo ma, come si capiva dall'alito al suo arrivo, fin dalla prima colazione. Era quindi divenuto, a poco a poco, nient’affatto utile alla ditta, per non dire dannoso; e aveva preso l'abitudine d'aggredire, a parole, non solo il Pittò ma pure l'erede. Bruno si chiedeva se l'uomo, sotto spirito alcolico, vedesse per caso riflessa su di lui parente l'immagine dello zio e lo colpisse per toccare indirettamente l'ormai spregiato principale. Forse sì, ma non era solo quel pensiero a muovere il dottore alla villania. Un giorno l'uomo s'era scoperto, scoccando contro il giovane, freddo, freddo e fissandolo negli occhi: "Son due mesi che i dipendenti non vengono pagati, me compreso. Perché suo padre non finanzia la nostra azienda? Non le pare che sarebbe doveroso?"

"…ma cosa dice?!" s'era allarmato Bruno.

"Dico, caro mio, che la vostra posizione è dovuta al Pittò, ed è ora che ricambiate."

"La nostra pos..."

"Sì, parlo turco? La vostra posizione. Lo sanno tutti che fu lo zio a finanziare a fondo perduto l'ufficio del dottor Seta" – Bruno era a bocca aperta – "e che fu lui a regalarvi l'alloggio dove abitate, per affetto verso la sua defunta mamma, che trattava come la figlia che non aveva potuto avere dalla moglie."

"La figlia, la moglie, la mamma... Si riferisce forse a mia madre?"

"Sì; perché, lei non ha avuto forse una mamma?" l'aveva dileggiato con un ghigno.

"…ma se il cavaliere ha conosciuto mia zia quando mia madre era già morta!"

Il Fringuella stava per replicare, ma il giovane: "Lo studio era già addirittura di mio nonno e così pure l'appartamento. È chiaro o no?"

Il dottore l'aveva fissato, storcendo di più la bocca in un peggiore sogghigno, come a dirgli: "A chi la racconti?"

Bruno s'era irrimediabilmente adirato: "La pianti di guardarmi in ‘sto modo, deficiente!"

L'altro allora, ad alta voce come lui, ma senza alzarsi dalla sedia dov'era stravaccato: "Bugiardo! Sono anzi convinto che, in questo momento, il Pittò stia nascondendo dei soldi presso suo padre, in attesa del fallimento."

"È pazzo?" e, preso lo schienale con le due mani, aveva rovesciato a terra il Fringuella. Poi, era corso a cercare lo zio. In verità, s'era subito dispiaciuto di quell'aggressione: in fondo, l'uomo era di certo brillo e non era più un ragazzo. Non poteva, però, tornare a scusarsi: sarebbe stato come far intendere al direttore ch'egli avesse avuto ragione in tutto. Il rimorso gli sarebbe rimasto.

Trovato il cavaliere, mentre già stava per riferirgli l'accaduto, Bruno s'era ricordato tuttavia, improvvisamente, della prima volta che il Fringuella aveva accennato all'argomento, quando gli aveva detto che era al Pittò che la famiglia Seta doveva la propria posizione, e lui aveva ingenuamente capito che si riferisse solo alla promessa d’associarlo nell'azienda. Così non era stato delirio alcolico? No: aveva sentito a quel punto, con assoluta certezza, che non s'era affatto trattato di un'invenzione del dottore, ma ch’era stato il parente a far correre quella voce. Perciò, invece di riferire, gli aveva chiesto secco, a voce alta e viso buio: "Come ti sei permesso d'inventarti una cosa simile? Quando mai hai regalato soldi a mio padre? Quando mai ci hai fatto una posizione? Come hai osato sporcarci così?"

"Uh!" era stata la sola risposta dello sbiancato industriale, ch’era quasi corso via e, montato al posto di guida della propria macchina presidenziale, nonostante la pessima vista aveva avviato il motore ed era partito a tutto gas.

Bruno, dietro a lui ma non all'inseguimento, se n’era andato a sua volta, senza avvertire nessuno e per non tornare mai più.

Appena due mesi dopo, il Pittò era fallito

Il male, che ha per massimo strumento la menzogna, anzi è tale esso stesso, raggiunge il suo colmo quando il falso è completamente mascherato di verità e la verità ha la verosimile apparenza di bugia. Di ciò nessuno può dubitare, perché ogni persona ne è, prima o poi, la vittima. Cambiano solo i nomi, coincidenza sfortunata, diffamazione, diavoleria... che alla menzogna che addosso ci cola, dovuta alle circostanze o alla cattiveria altrui, usiamo conferire. Era questo il male che già aveva toccato la famiglia Seta e che Bruno, col tempo, ancor più perseguitato, scherzandone amaramente con la moglie avrebbe battezzato il Diavolo Verosimile.

Alcuni credono inoltre, e qui ognuno la pensi come preferisce, che vaghino nel mondo anche alquanti demoni inferiori, detti baronti, la cui funzione, nella lotta di libertà fra il Bene e il suo nemico, sarebbe d'umiliare con scherzi feroci la volontà degli esseri umani già colpiti da altre sofferenze. Se non c'è prova alcuna dell'esistenza di quegl’infimi spiriti, spontaneamente verrebbe di pensare ch’essi esistano davvero, tanto sono frequenti quei casi nella vita d'un pover'uomo, cioè di tutti.

Forse per il divertimento d'uno di quei demoni, e sicuramente per l'ormai lontano interessamento nella capitale dell'amico romano, l'unico vero e il solo che gli sarebbe rimasto, giusto il giorno dopo la dichiarazione di fallimento era giunta al Pittò la promozione a Cavaliere Ufficiale3 al Merito della Repubblica.

Come Bruno aveva saputo dalla zia, ormai non più donna Tilde, il novello ufficiale, ricevuta la notizia della nomina, s'era messo a urlare come un matto: "Che presa in giro, che presa in giro!" e aveva buttato dalla finestra le insegne della precedente investitura a cavaliere semplice: per la verità, dopo la sfuriata era corso giù a recuperarsele.

In realtà, un merito il prozio l'aveva avuto: contrariamente alle illazioni maligne del Fringuella e all'esempio di tanti colleghi industriali finiti come lui nel pelago fallimentare di quegli anni di crisi, egli non aveva occultato neppure una lira, rimanendo povero come San Francesco. Se, infatti, non aveva mai sentito come colpa l'approfittare di dipendenti e del nipote, aveva sempre avuto, e fermissimo, il principio che il proprio nome dev’essere onorato pagando i debiti ai fornitori e non toccando i soldi altrui. Purtroppo, considerava denaro solo quello che immediatamente, proprio in tutta evidenza, tale appare, come la banconota, l'assegno, la fattura a credito o debito: perciò aveva cacciato dalla fabbrica il figlio che, materialmente, aveva sottratto moneta, senza pensare che anche lui, datore di lavoro, aveva fatto la stessa cosa contro l'altro, sottopagandolo per quindici anni. Bisogna però riconoscere, per amor d’esattezza e inimicizia verso l'apparenza, che dai risparmi sui salari, e pure da altri assolutamente leciti, nulla era immediatamente venuto in tasca all'industriale. Erano infatti tutti serviti a tener bassi i prezzi di vendita e, così, a sviluppare la ditta, aumentandone i posti di lavoro. Semmai, involontari ladri erano stati i consumatori dei prodotti Pittò, che grazie alle sue economie giuste e ingiuste, avevano pagato alquanto di meno le sue merci.

 

Se, dunque, il fallito imprenditore aveva tal grande considerazione del proprio nome che giammai l'avrebbe infangato sottraendo volutamente denari ai creditori, e ciò gli sarebbe rimasto a soddisfazione dell'anima, mai però ne avrebbe avuto riconoscimento dai terzi, tanto meno da quegl'industriali suoi fornitori che, fino a poco tempo prima, aveva creduto amici. La vita applicava così, contro di lui, la legge del contrappasso, per essersi falsamente vantato d'aver fatto la posizione ai Seta, frase che gli altri avevano inteso, infine, come aver occultato denaro nelle tasche dei parenti: un contrappasso non perfetto, dato che toccava innocenti; ma, come recita il luogo comune, così è la vita.

Vista cadere per sempre la speranza che sopravvivesse nei secoli il suo nome e umiliato dalle calunnie e dalla nuova sofferta condizione di proletario, il cavaliere era caduto in profonda depressione, che s'era aggravata, come il nipote aveva constatato solo al vederne l'espressione, alla notizia, pochissimo tempo dopo la dichiarazione di fallimento, della morte violenta del figlio. Oltretutto, il poveretto non aveva creduto di potersene confidare con chicchessia, ritenendo segreta per tutti la sua naturale parentela e mai e poi mai desiderando di svelarla. Neppure da Bruno aveva potuto avere conforto: il nipote, pur tentato, aveva pensato miglior partito di non dirgli nulla; non per celargli di avere letto quelle missive, ma sicurissimo che il sapere non più ignota l'origine del Dialzi avrebbe, ancor peggio, umiliato il prozio.

Nel frattempo il dottor Seta, impietosito, aveva deciso di provvedere, vita natural durante, al mantenimento dei coniugi Pittò. Il papà era uomo generoso. Alla sua morte, Bruno avrebbe trovato in più cassetti mucchi, letteralmente, di ricevute di donazioni a enti morali civili e religiosi, e queste ultime, nonostante la sua professione di laicismo liberale, ben più numerose e di maggiore importo.

Il padre, dunque, aveva acquistato, vendendo titoli, un bilocale per alloggiarvi gratuitamente i prozii di Bruno e aveva iniziato a pagar loro una rendita mensile decorosa: "Per onorare la memoria di tua madre", aveva detto al figlio, quasi a giustificarsi; ma il giovane era stato sicuro che, magnanimo, l'aveva fatto per naturale compassione verso quei parenti.

Papà Seta doveva essersi arrovellato inoltre su come essere anche di maggiore aiuto. Non molto tempo dopo, convinto di avere trovato una via, aveva chiesto retoricamente al figlio: "Non m’avevi detto, una volta, che tuo zio non aveva mai brevettato quella famosa polvere?"

"Sì, perché?"

"Che ne diresti se gli suggerissimo di farlo adesso, d'accordo col curatore fallimentare?"

"Ah! Direi che i diritti di produzione potrebbero essere venduti, aumentando l'attivo!" aveva risposto Bruno, un po' meravigliato di non averci pensato egli stesso.

"Appunto" e il padre, allargando con un mezzo sorriso le braccia, ma appena un poco, aveva comicamente alzato gli occhi verso il soffitto come a indicare grazia richiesta a un qualche supremo architetto dell’universo. Poi, senza indugiare, aveva telefonato al Pittò.

Questi, appena udito il suggerimento, e dopo un "Giàa!" d’enorme sollievo: "Non saremmo più nella vergogna, non è vero?!" aveva esclamato emozionato usando, come sua abitudine, il plurale della maestà; poi, con ottimismo veramente eccessivo e una voce che indicava, amplissimo, un sorriso: "Pagati i debiti, potrebbero venirci addirittura guadagni; potremmo ricominciare!"

"Non so se potresti ricominciare" aveva commentato il dottor Seta, calcando su quel singolare che, per le false voci ch’erano girate in fabbrica, gli premeva, "ma certo, sarebbe un miglioramento."

Il diavolo baronte guardava e sogghignava.

Alla telefonata immediata del Pittò al curatore fallimentare... doccia gelata! L'altro, seccato perché, probabilmente, era stato interrotto in qualcos'altro che gli premeva, aveva infatti risposto: "Niente da fare! Cosa crede, che non ci avessi già pensato io?!" – il cavaliere non fiatava –: "Il prodotto era già stato brevettato da anni dal suo inventore, il perito Tirlotti. Anzi, con l'occasione le comunico che quel signore, tramite il proprio avvocato, ha richiesto il pagamento dei diritti su tutta la passata produzione di polvere, ed è stato ammesso fra i creditori fallimentari in via cautelativa. Ergo, il potenziale passivo aumenta. La saluto."

"Schifoso! Schifoso!" era scoppiato, non appena chiusa la comunicazione, il delusissimo fallito; e non sembrava più volere smettere: "Tirlotti delle palle! Curatore delle palle! Schifosi delle palle!" Infine, esausto, s'era accasciato muto su di una sedia, lo sguardo nel vuoto.

Invano zia Tilde aveva cercato di consolare il marito. Aveva dunque telefonato ai Seta, raccontando e pregandoli di aiutarla.

Così, da allora, i Pittò, quasi tutte le domeniche e in altre occasioni, sarebbero stati ospiti alla mensa del dottore e di suo figlio e, grazie però più al tempo che a quegli inviti e consolazioni, lo spirito del cavaliere si sarebbe, piano piano, risollevato.

Bruno, nonostante provasse spontanea animosità contro il prozio, aveva tentato di mascherare tal cattivo sentire, grazie al buon esempio del padre che si mostrava col fallito – "Pietà per i vinti!" – cordialissimo e comprensivo; e il giovane era riuscito a regalare al cavaliere molte frasi di conforto; ma l’espressione del suo viso non doveva essere stata, sempre, intonata alle parole; una volta, infatti, il Pittò gli aveva detto con un sorriso triste: "Purtroppo ce l'hai con me, non è vero?"

Naturalmente lui aveva negato.

Intanto, mentre lo spirito baronte si stava ancora sganasciando per la riuscita beffa, il diavolo principe, quello del falso verosimilmente vero, aveva terminato di confortare un suo disegno maestro e si accingeva a metterlo in atto: per esso, il malanimo che Bruno covava in cuore verso lo zio si sarebbe, purtroppo, aggravato.

La convinzione del dottor Fringuella che il benessere dei Seta venisse da donazioni antiche e nuovissime del Pittò era di pubblico dominio fra i creditori del fallimento, corroborata dal gesto altruistico del padre di Bruno, talmente oneroso da non parere ad alcuno di quei signori un frutto di pura misericordia. Tutti pensavano ch'esso fosse il compenso pattuito col fallito, una sorta di rendita vitalizia derivante da capitali imboscati presso i parenti.

Quell'idea era talmente forte che, a un certo punto, era stata accolta per vera persino dal curatore fallimentare. Un giorno, cinque mesi dopo la sentenza, mentre i Seta erano tranquillamente a tavola per il pranzo, il commercialista s'era presentato a casa loro con un ufficiale giudiziario, pretendendo di vedere gli atti d'acquisto di tutti gli immobili di famiglia. Per legge non ne avrebbe avuto diritto, dovendo, semmai, indagare prima dietro le quinte; ma, per farla breve, il dottor Seta aveva esibito i documenti. L'altro allora, senza ringraziare, s'era buttato con gli occhi sulla data di quei negozi giuridici.

Che figuraccia!

Per chi? Intanto per i Seta, e a lungo perché i portinai, assai lesti, avevano divulgato la notizia per tutto il palazzo e solo dopo parecchio tempo, constatando che padre e figlio continuavano indisturbati a vivere a casa loro invece di fallire e finire in manette, i condòmini non avrebbero più guardato i due calunniati con malizia e irrisione; anzi, sarebbero tornati a essere pieni di rispetto. Ciò che, purtroppo, più importa per la stima di molti, purché gli stessi non pensino d’essere tra le vittime, è che una persona abbia i soldi, non come li abbia fatti.

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