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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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Alleluia» è dizione ebraica, e secondo alcuni è «interiectio laetantis»; ma Papia dice che «alleluia» in latino vuol dire «laude di Dio»; o vero che ella abbia ad espriemere «laudate Iddio»; e oltre a ciò, questa dizione s’interpetra in due modi, de’ quali è l’uno: «cantate a colui il quale è», e cosí c’invita alla laude di questo Iddio il quale è, percioché per addietro cantavamo, essendo gentili, a quegli iddii li quali non erano: e l’altro modo è: «Iddio, benedicci tutti in uno»; e questo percioché tutti siamo insieme in uno per fede e umanitá, e cosí siam degni d’essere benedetti da Dio. Altri ne fanno loro interpretazioni, le quali sarebbon molto lunghe, volendole tutte mostrare.]

«Che mi commise quest’ufficio nuovo», e disusato, cioè d’accompagnare uom vivo per lo ’nferno. E, déttogli questo, risponde alla domanda poco avanti fatta da Nesso, quando domandò «a qual martíro venite voi», mostrandogli che essi non discendono ad alcun martíro, e però dice: «Non è ladron», costui il qual io guido; e dice «ladrone», percioché nell’ottavo cerchio si puniscono i ladroni; «né io anima fuia», quasi dica: né io altresí son ladrone; percioché noi quelle femmine, le quali son fure, noi chiamiam «fuie». E, poiché egli gli ha discoverta la lor condizione, ed egli il priega gli dea alcun pedoto al cammino, e che trapassi l’autore al valico del fossato, e dice: «Ma per quella virtú, per cui io muovo Li passi miei per sí selvaggia strada», cioè per la virtú di Dio, «Danne un de’ tuoi», centauri, «a cui noi siamo a provo», cioè allato; accioché da alcuno altro non possiamo essere impediti, e «Che ne dimostri lá dove si guada», questo fiume, «E che porti costui in su la groppa», accioché al passar non si cuoca, «Che non è spirto che per l’aer vada», – come fo io e gli altri.

«Chíron si volse in su la destra poppa», udito il priego di Virgilio, «E disse a Nesso: – Torna, e si gli guida, E fa’ cansar», cioè cessare, «s’altra schiera v’intoppa», – cioè vi si scontra, di centauri.

«Noi ci movemmo». Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella quale, avendo Virgilio certificati i centauri della lor qualitá, dice l’autore come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni e de’ rubatori. E comincia: «Noi ci movemmo con la scorta fida», cioè con Nesso, «Lungo la proda del bollor vermiglio», cioè del sangue il quale in quella fossa bolliva, «Ove i bolliti faceano alte strida», per lo dolore il qual sentivano. «Io vidi», in quel sangue bogliente, «gente sotto infino al ciglio», cioè infino a tutti gli occhi, «E’ l gran centauro», cioè Nesso, «disse: – E’ son tiranni», quegli che bollono e che fanno cosí alte strida, per ciò «Che dier nel sangue», uccidendo ingiustamente il prossimo, «e nell’aver», del prossimo, «di piglio», rubando e occupando come non dovevano. «Quivi si piangon gli spietati danni», da questi cotali tiranni dati nelle persone e nell’avere del prossimo; «Quivi», tra questi tiranni che io ti dico che piangono, «è Alessandro».

Non dice l’autore quale, conciosiacosaché assai tiranni stati sieno, li quali questo nome hanno avuto; e, peroché nel maggiore si contengono tutti i mali fatti da’ minori, credo sia da intendere che egli abbia voluto dire d’Alessandro re di Macedonia; e perciò, di lui sentendo, chi el fosse e delle sue opere succintamente diremo.

Fu adunque questo Alessandro figliuolo di Filippo, re di Macedonia, e d’Olimpia, sua moglie, comeché alcuni voglian credere che egli non fosse figliuolo di Filippo, ma piú tosto di Nettabo, re d’Egitto, il qual, cacciato del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella dimestichezza d’Olimpia, e di lei generò Alessandro; e come che questo non fosse subitamente saputo, in processo di tempo, essendo giá Alessandro grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli addicò Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra; né guari tempo visse, poiché, per quello che si credesse, per opera di Olimpia egli fu da Pausania ucciso. Dopo la morte del quale, rimaso Alessandro, sí come suo figliuolo, re di Macedonia, essendo giovane di grande e d’ardente animo, primieramente i greci ribellantisi si sottomise, e, disfatta la cittá di Tebe, a dare compimento alla guerra contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata, diede opera; e, fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui suspicava non movessero in Macedonia alcuna novitá, essendo egli lontano, con quattromiladugento cavalieri e con trentadue migliaia di pedoni, non solamente Asia, ma tutto il mondo ardí d’assalire. E, pervenuto in Frigia, ed entrato in una cittá chiamata Gordia, e quivi nel tempio di Giove domandato il giogo del carro di Gordio, s’ingegnò di sciogliere i legami di quello, percioché udito avea che gli oracoli antichi avevan detto che, chi quegli sciogliesse, sarebbe signor d’Asia; e, non trovando il modo da scioglierli, messo mano ad un coltello, li tagliò, e cosí li sciolse. Quindi, passato il monte Tauro, in piú parti con infinita moltitudine di gente di Dario, e con Dario medesimo piú volte combatté, e fu sempre vincitore, e, avendo presa la moglie e’ figliuoli, e ultimamente sentendo Dario da’ suoi medesimi essere stato ucciso, prese Persia; e quindi, ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in Libia al tempio di Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi reputare figliuolo del detto Giove, vinte molte altre nazioni, trapassò in India. Quivi vinto Poro re e molte nazioni, e piú cittá edificate in testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette opportuno, andò ad Agisine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale si discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune nazioni, navicò agli ambri e a’ sicambri, li quali non senza suo gran pericolo vinti, messi nelle sue navi molti de’ suoi, li quali estimò piú valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo esercito ne mandò in Babilonia, ed esso pervenuto alla cittá d’un re chiamato Ambigeri, lui, ancora che molti con saette avvelenate n’uccidesse, vinse; e di quindi venendo alla seconda del fiotto del mare, pervenne alla foce del fiume chiamato Indo; e quindi per terra venendone, se ne tornò a Babilonia, dove sposò Rosanne, l’una delle figliuole del re Dario. E, mentre che esso tornava, gli fu nel cammino nunziato come gli ambasciadori de’ cartaginesi e degli altri popoli d’Affrica, e di piú cittá di Spagna, di Gallia, d’Italia, di Sardigna e di Cicilia, lui attendevano in Babilonia, li quali, spaventati dalle gran cose che da lui fatte si dicevano, disideravano la grazia e l’amistá sua. I romani non vi mandarono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo Ab urbe condita quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i romani avessero potuto resistere alle sue forze o no; e per piú ragioni mostra che i romani e si sarebber da lui difesi, e forse l’avrebber cacciato. Quivi in Babilonia, da Cassandro, figliuolo d’Antipatro, si crede gli fosse dato veleno, del quale infra pochi dí morí, e lasciò che il corpo suo ne fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e quivi seppellito.

Fu costui, quantunque vittorioso e magnifico signore, come assai appare nelle sue opere, occupatore non solamente delle piccole fortune degli uomini, ma de’ regni e delle libertá degli uomini, violentissimo; e, oltre a ciò, crudelissimo ucciditore non solamente de’ nemici, ma ancora degli amici, de’ quali giá caldo di vino e di vivanda, ne’ conviti e altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote assai convenientemente credere l’autore aver voluto s’intenda lui in questo ardentissimo sangue esser dannato.

«E Dionisio fèro, Che fe’ Cicilia aver dolorosi anni». Furono, secondo che Giustino scrive, due Dionisi, l’un padre e l’altro figliuolo, e ciascun fu pessimo uomo; né appar qui di quale l’autor si voglia dire: e però direm di ciascuno quello che scritto se ne truova. Fu adunque, secondo che Tullio scrive nel quinto libro De quaestionibus Tusculanis, il primo Dionisio nato di buoni e d’onesti parenti, e similmente d’onesto luogo di Seragusa di Cicilia, del quale essendo la madre gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco; per che ricorsa al consiglio degl’interpetratori de’ sogni, le fu risposto che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo uomo, oltre a ciascun altro del sangue greco. E avanti che costui, nato e giá d’etá di venticinque anni, occupasse il dominio di Siragusa e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna siragusana, chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le fossero quivi mostrate tutte le stanze degl’iddii, le quali mentre riguardando andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo di pelo rosso e litiginoso, legato con fortissime catene. Per la qual cosa ella domandò un giovane, il quale le pareva aver per dimostratore delle cose celestiali, chi colui fosse; dal quale le parve le fosse risposto colui essere crudelissima morte di Cicilia e d’Italia, e, come egli fosse sciolto, sarebbe disfacimento di molte cittá. Il qual sogno la donna il di seguente in publico disse a molte persone. Ma poi in processo di tempo, quasi come se liberato fosse dalle catene, e ricevuto Dionisio in signore de’ siracusani, e tutti i cittadini a vederlo nella cittá venir corressono, come si suole a cosí fatti avvenimenti; Imera similmente v’andò, e tantosto che ella il vide, altamente disse: – Questi è colui, il quale io vidi legato a’ piedi di Giove; – il che poi, da Dionisio risaputo, le fu cagione di morte. E cosí avendo per la pestilenzia, la quale aveva gli eserciti dei cartaginesi del tutto consumati, e da loro liberata l’isola, Dionisio occupata, secondo che scrive Giustino, la signoria di quella, primieramente mosse guerra a tutti i greci, li quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con grandissimo esercito; e, fatti molti danni, e vinti i locresi, e guerreggiando que’ di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in compagnia quelle reliquie de’ galli, li quali avevano Roma guasta. Ma da questa guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di cartaginesi venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti debilitato assai, da’ suoi medesimi fu ucciso, avendo giá trentotto anni regnato.

 

Il quale, secondo che scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel modo del suo vivere temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo e industrioso; e con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna giustizia, e crudelissimo occupatore dell’altrui sustanze, vago del sangue degli uomini e disprezzator degl’iddii. Ed essendo allevato con certi giovanetti greci, l’usanza de’ quali il dovea trarre ad amarli, mai d’alcuno non si fidò, ma solo in quegli, li quali eleggeva in servi, ogni sua fede pose. Ed essendo divenuto signore, in ferocissimi barbari commise la guardia del corpo suo. Della qual fu tanto sollecito, che, non volendo, per téma, nelle mani d’alcun barbiere rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a radere, e a loro rader si faceva; e, poi che crebbero, sospettando, fece loro lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiande e di noci o di castagne, e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i peli della barba e quegli del capo. E, avendo due mogli, delle quali l’una ebbe nome Aristomaten siragusana, e l’altra Dorida della cittá di Locri, ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse che alcun ferro o altro nocivo non vi fosse. E, avendo circundata la camera nella qual dormia, d’una larghissima fossa, e sopra quella fatto un ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato l’uscio, cosí levava il ponte; e, non avendo ardire di fidarsi nelle comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire, tante, salito sopra un’alta torre, diceva quel che voleva a coloro che di sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e approvatori di ciò che diceva, conciosiacosaché uno, nominato Damocle, alcuna volta, parlando della felicitá di lui, raccontasse la copia delle sue ricchezze, la signoria e la maestá e l’abbondanza delle cose e la magnificenza delle case reali, e negasse alcuno esserne piú beato di lui; gli disse Dionisio una volta: – O Damocle, percioché io m’accorgo che la vita mia ti piace e diléttati, vuogli provare chente sia la mia fortuna? – Al quale avendo Damocle risposto sé sommamente disiderarlo, comandò Dionisio che esso fosse posto sopra un letto di preziosissimi ornamenti coperto, e quindi comandò gli fosse apparecchiata una ricchissima mensa, e preposto per servidori fanciulli bellissimi, li quali sollecitamente ad ogni suo comandamento il servissero; e quindi gli fece apporre preziosissimi unguenti e corone, e intendere soavissimi odori, e apportare esquisite vivande: per le quali cose a Damocle pareva essere fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di cosí ricco apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato con una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra la testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle pendesse: per la qual cosa Damocle, veduto quello, né a’ bellissimi servidori, né al reale apparecchiamento riguardava, né stendeva la mano alle dilicate vivande, e giá gli cominciavano a cadere di testa le preziose ghirlande. Laonde egli caramente pregò Dionisio che egli, con sua licenza, si potesse quindi partire, percioché piú non volea quella beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente fosse la sua beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran con lui.

Fu, oltre a questo, costui non solamente occupatore e violento de’ beni del prossimo, ma ancora sprezzatore degl’iddii e sacrilego. Esso, secondo che Valerio Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e rubato il tempio di Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e avendo al suo navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi, li quali con lui erano: – Vedete voi come buon navicare sia conceduto dagl’iddii a’ sacrilegi? – E, avendo tratto alla statua di Giove Olimpio un mantello d’oro, il quale era di grandissimo peso, e messonele uno di lana, disse che quello dell’oro era la state troppo grave e ’l verno troppo freddo; ma, quello che messo l’avea, era a ciascun de’ detti tempi piú atto; e cosí, levata la barba dell’oro alla statua d’Esculapio, affermò non convenirsi vedere il figliuolo con barba, ove si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de’ templi piú mense d’oro e d’ariento, nelle quali, secondo il costume greco, era scritto quelle essere de’ beni degl’iddii; dicendo, quando le prendeva, sé usare de’ beni degl’iddii. E, oltre a ciò, molti doni d’oro e care cose, le quali le statue degl’iddii con le braccia sportate innanzi sosteneano, poste sopra quelle da coloro li quali li lor boti mandavano ad esecuzione, prese piú volte, dicendo sé non rubarle, ma prenderle; stolta cosa affermando, non prender quei beni, per li quali sempre gli preghiamo, quando gli si porgono. E questo del primo Dionisio basti aver detto.

E, venendo al secondo, scrive Giustino che, essendo il predetto Dionisio stato ucciso da’ suoi, essi medesimi, che ucciso avevano il padre, sostituirono a lui questo secondo Dionisio, il quale di tempo era maggiore che alcun altro suo figliuolo; il quale, come la signoria ebbe presa, per potere aver piú ampio luogo alle crudeltá giá pensate, in quanto poté si fece favorevole il popolo con piú benefici facendogli; e parendoli giá quello avere assai, avanti ogni altra cosa tutti i parenti de’ fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a pezzi, per levarsi ogni sospetto d’alcuno che al regno potesse aver l’animo con titolo alcuno. E, levatisi questi davanti, quasi sicuro si diede tutto all’ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e ancora in gravissima infermitá degli occhi, intanto che né sole, né polvere, né alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere da’ suoi avuto in dispregio; e perciò, non come il padre aveva giá fatto, cioè di mettere in prigione quegli di cui sospettava, ma, uccidendo e facendo uccidere or questi e or quegli altri, tutta la cittá riempie’ d’uccisioni e di sangue. Per la qual cosa avendo i siracusani diliberato di muovergli guerra, lungamente stette intra due, se egli dovesse piú tosto o por giú la signoria o resistere con guerra a’ siracusani; ma ultimamente fu costretto dalla sua gente d’arme, sperante d’arricchire della preda e della ruberia della cittá, di prender la guerra e di discender alla battaglia. Nella quale essendo stato vinto, e avendo infelicemente un’altra volta tentata la fortuna della battaglia, mandò ambasciadori a’ siracusani, promettendo che esso diporrebbe la signoria, se essi gli mandassero uomini con li quali esso potesse trattare le convenzioni della pace; e, avendo i siracusani mandatigli a questo fare de’ migliori della cittá, esso, ritenutigli in prigione, non prendendosi di ciò guardia i siracusani, mandò subitamente la gente sua a guastare e a rubar la cittá: per la qual cosa i cittadini difendendosi e combattendosi per tutto, e vincendo la moltitudine dei cittadini la gente di Dionisio, e perciò esso temendo di non essere nella ròcca assediato, se ne fuggí con ogni suo reale arnese in Italia. E sí come sbandito ricevuto da’ locrensi come compagno, sí come se giustamente in quella regnasse, occupò la ròcca della cittá; e sí come in Siragusa era usato di fare, cosí quivi incominciò ad esercitare la crudeltá; e alla sua libidine faceva rapire le nobili donne de’ maggiori della cittá, e facevasi per forza menare le vergini avanti il giorno delle nozze, e quando quanto a lui piaceva tenute l’avea, le faceva rendere a’ parenti loro; oltre a ciò li piú ricchi della cittá scacciava e rubava, o gli faceva uccidere, e facendo cose ancora assai piú inique. Poi che sei anni ebbe tenuta la signoria di Locri, non avendovi piú che rubare, occultamente e per segreto trattato se ne tornò in Siragusa; dove essendo piú crudele che mai, e peggio adoperando, fatta da tutti i cittadini congiurazione contro a lui, fu nella ròcca della cittá assediato, dove costretto per patti fatti co’ siracusani, lasciata la signoria, povero e misero n’andò in esilio a Corinto; e quivi, per sicurtá della vita sua, datosi alle piú infime e misere cose che poté, ne’ vilissimi luoghi e con vilissimi uomini dimorava, male e vilmente vestito; e ultimamente si diede a insegnar giucare alla palla a’ fanciulli; e in cosí fatta guisa vilmente adoperando e vivendo, pervenne al fine incognito della sua vita. Per le quali malvagitá e violenze, cosí nel sangue come nell’aver del prossimo, o del padre o del figliuolo che intender vogliamo; e percioché non come re ma come tiranni signoreggiarono: meritamente l’autore qui, nel sangue bogliente, tra la prima spezie de’ violenti nel dimostra.

«E quella fronte, c’ha il pel cosí nero, È Azzolino». Costui chiama Musatto padovano in una sua tragedia Ecerino, ed è quello Azzolino, il quale noi chiamiamo Azzolino «di Romano», e cosí similmente il cognomina il predetto Musatto; e, secondo scrive Giovanni Villani, egli fu gentile uomo di legnaggio. Fu adunque costui potentissimo tiranno nella Marca trivigiana, e, per quello che si sappia, egli tenne la signoria di Padova, di Vicenza, di Verona e di Brescia, e molti uomini e femmine uccise, o fece andare tapinando per lo mondo, e massimamente de’ padovani, de’ quali ad un’ora avendone nel prato di Padova rinchiusi in un palancato undicimila, tutti gli fece ardere. E di questa arsione si dice questa novella: che, avendo egli un suo notaio, o cancelliere che fosse, chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo segreto sapea, e avendo preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo far morire, il domandò se egli sapeva chi si fossero quegli che nel palancato erano legati. Gli rispose ser Aldobrandino che di tutti aveva ordinatamente il nome in un suo quaderno, il quale aveva appresso di sé. – Adunque – disse Azzolino, – avendomi il diavolo fatte molte grazie, io intendo di fargli un bello e un grande presente di tutte l’anime di costoro che legati sono; né so chi questo si possa far meglio di te, poiché di tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro, e nominatamente da mia parte gliele presenta. – E, fattolo menar lá col suo quaderno, insieme con gli altri il fece ardere. Ultimamente, avendo molte crudeltá operate, andando con molta gente per prendere Melano, trovò al fiume d’Adda il marchese Palavicino con gente essergli venuto all’incontro, e aver preso il ponte donde Azzolino credeva poter passare: per la qual cosa egli con la sua gente mettendosi a nuoto per lo fiume, furono dai nemici ricevuti con loro grande svantaggio, e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso Azzolino, e menatone in Casciano, un castello ivi vicino, dove mai né mangiar volle, né bere, né lasciarsi curare; e cosí si morí nel 1260, e fu onorevolmente seppellito nel castello di Solcino. E percioché violentissimo fu, come mostrato è, il pone l’autore qui in quel sangue bollire e esser dannato.

«E quell’altro, ch’ è biondo, È Opizzo da Esti, il qual per vero Fu spento dal figliastro sú nel mondo». Questo Opizzo da Esti dice alcuno che fu dei marchesi da Esti, li quali noi chiamiamo da Ferrara, e fu fatto per la Chiesa marchese della Marca d’Ancona, nella quale, piú la violenza che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e con l’aiuto di suoi amici occupò la cittá di Ferrara, e cacciò di quella la famiglia de’ Vinciguerre con altri seguaci di parte imperiale; e, appresso questo, per piú sicuramente signoreggiare, similmente ne cacciò de’ suoi congiunti; ultimamente dice lui una notte esser costui stato, da Azzo suo figliuolo, con un piumaccio affogato. Ma l’autor mostra di voler seguire quello che giá da molti si disse, cioè questo Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo, non essere stato suo figliuolo; volendo questi cotali la marchesana moglie d’Opizzo averlo conceputo d’altrui, e dato a vedere ad Opizzo che di lui conceputo l’avesse: e perciò dice l’autore «Fu spento», cioè morto, «dal figliastro». E, percioché violento uom fu, quivi tra’ tiranni e omicide e rubatori il dimostra esser dannato.

«Allor mi volsi al poeta», per veder quello che gli paresse di ciò che il centauro diceva, e se esso gli dovesse dar fede, «e que’ disse: – Questi ti sia or primo», cioè dimostratore, «ed io secondo». – E vuole in questo affermar Virgilio che al centauro sia da dar fede a quel che dice.

«Poco piú oltre il centauro s’affisse Sovr’una gente che ’nfino alla gola Parca che di quel bullicame uscisse», tenendo tutto l’altro corpo nascoso sotto il bogliente sangue. E chiamalo «bullicame» da un lago il quale è vicino di Viterbo, il qual dicono continuamente bollire; e da quello bollire o bollichío esser dinominato «bullicame»: e perdoché, in questo bollire, quel sangue è somigliante a quell’acqua, per lo nome di quella, o pur per lo suo bollir medesimo, il nomina «bullicame».

 

«Mostrocci un’ombra dall’un canto sola. Dicendo: – Colei fesse in grembo a Dio, Lo cor, che ’n su Tamigi ancor si cola». A dichiarazion di questa parte è da sapere che, essendo tornati da Tunisi in Barberia il re Filippo di Francia e il re Carlo di Cicilia e Adoardo e Arrigo, fratelli, e figliuoli del re Riccardo d’Inghilterra, e pervenuti a Viterbo, dove la corte di Roma era allora nel 1270, e attendendo a riposarsi e a dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon pastore la Sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che, essendo il sopradetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad udire in una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il corpo di Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte; e, senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio o al re Carlo suo signore, essendo venuto bene accompagnato d’uomini d’arme, quivi crudelmente uccise Arrigo predetto. Ed essendo giá della chiesa uscito per andarsene, il domandò un de’ suoi cavalieri ciò che fatto avea; il quale rispose che egli aveva fatta la vendetta del conte Simone, suo padre (il quale era stato ucciso in Inghilterra, e, secondo che alcuni voglion dire, a sua gran colpa). A cui il cavaliere disse: – Monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa, percioché vostro padre fu strascinato. – Per le quali parole il conte, tornato indietro, prese per li capelli il morto corpo d’ Arrigo, e quello villanamente strascinò infin fuori della chiesa; e, ciò fatto, montato a cavallo, senza alcuno impedimento se n’andò in Maremma nelle terre del conte Rosso, suo suocero: per lo quale omicidio l’autore il dimostra essere in questo cerchio dannato. E in quanto l’autor dicesse «fesse», intende: aperse violentemente col coltello; «in grembo a Dio», cioè nella chiesa, percioché la chiesa è abitazion di Dio, e, chiunque è in quella, dee casi essere da ogni secular violenza sicuro, o ancora legge o podestá, come se nel grembo di Dio fosse; e séguita l’autore essere stato fesso «in grembo a Dio», da questo conte Guido, «Lo cuor, che ’n su Tamigi ancor si cola», cioè d’Arrigo, ucciso dal detto conte. Il quale Aduardo, suo fratello, seppellito tutto l’altro corpo con molte lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a Londra, fece mettere in un calice d’oro; e, fatta fare una statua di pietra o di marmo che sia, o vero, secondo che alcuni altri dicono, una colonna sopra ’l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume chiamato Tamigi, pose nella mano della detta statua, o vero sopra la colonna, questo calice, a perpetua memoria della ingiuria e violenza fatta al detto Arrigo e alla real casa d’Inghilterra. E quegli che dicono questa essere statua, vi aggiungono essere nel vestimento della detta statua scritto, o vero intagliato, un verso il quale dice cosí: «Cor gladio scissum do cui sanguineus sum»; cioè: «io do il cuor fesso col coltello a qualunque è colui di cui io sono consanguineo», cioè d’un medesimo sangue: e in questo pareva e al padre e al fratello e agli altri suoi domandar della violente morte vendetta. E dice l’autore che questo cuore d’ Arrigo, ancora in quel luogo dove posto fu, «si cola», cioè onora; e viene da colo, colis; e pertanto dice che egli s’onora, in quanto con reverenza e compassione, avendo riguardo alla benignitá e alla virtú di colui di cui fu, è da tutti quegli, che per quella parte passano, riguardato.

«Poi vidi gente, che di fuor del rio», cioè a quel fiume bogliente, «tenean la testa, ed ancor tutto il casso», cioè tutta quella parte del corpo che è di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per istanza del ventre e delle budella, la quale da quella è divisa da una pellicula, la quale igualmente si muove da ogni parte, cioè dalla destra e dalla sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo digesto discende alle parti inferiori; e chiamasi «casso», percioché in quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sé l’aere, e mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la virtú vitale nel cuore. E puossi in queste parole, e ancora in alcune altre che seguono, comprendere, secondo il piú e ’l meno avere violentemente ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia piú o meno pena in quel sangue bogliente. Poi séguita: «E di costoro», li quali eran tanto fuori del bollore, «assai riconobb’io», ma pur non ne nomina alcuno.

«Cosí», procedendo noi, «a piú a piú si facea basso», cioè con minor fondo, «Quel sangue sí», in tanto «che copria pure i piedi:, a quegli che dentro v’erano: «E quivi», dove egli era cosí basso, «fu del fosso», cioè di quel fiume, «il nostro passo», cioè per quel luogo passammo in un bosco, il quale nel seguente canto discrive.

E, passati che furono: – «Sí come tu da questa parte», dalla qual venuti siamo, «vedi, Lo bullicame, che sempre si scema», tanto che, come tu vedi, non cuopre piú su che i piedi: « – Disse ’l centauro, – voglio che tu credi, Che da quest’altra», parte, lungo la quale noi non siam venuti, «a piú a piú giú priema Lo fondo suo», e cosí si fa piú cupo, «infin ch’e’ si raggiugne, Ove la tirannia convien che gema», cioè a quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio. E, accioché egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti coperti del sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo: «La divina giustizia di qua», cioè da questa parte da te non veduta, «pugne», cioè tormenta, «Quell’Attila, che fu flagello in terra».

Attila, secondo che scrive Paolo Diacono nelle sue Croniche, fu re de’ goti al tempo di Marziano imperadore. Ed essendo egli, e un suo fratello chiamato Bela, potentissimi signori, sí come quegli che per la lor forza s’avevano molti reami sottomessi; accioché solo possedesse cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela. E quindi, venutogli in animo di levar di terra il nome romano, con grandissima moltitudine de’ suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i romani incontro, con loro molti popoli e re occidentali combatteron con lui; nella qual battaglia furono uccise tante genti dell’una parte e dell’altra, che quasi ciascun rimase come sconfitto; e, secondo che scrive Paolo predetto, e’ vi furono uccisi centottanta migliaia d’uomini. Per la qual cosa Attila, tornato nel regno, inanimato piú che prima contro al romano imperio, restaurato nuovo esercito, passò di qua la seconda volta, e, dopo lungo assedio, prese Aquileia, e poi piú altre cittá e terre di Frigoli, e tutte le disolò: e passato in Lombadia, similmente molte ne prese e disfece: ma quasi tutte, fuori che Modona, per la quale passò col suo esercito, e per i meriti de’ prieghi di san Gimignano, il quale allora era vescovo di quella, non la vide infino a tanto che fuori ne fu, né egli né alcun de’ suoi; per la qual cosa, avendo riguardo al miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia farle. Similmente passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra esse, scrive alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece. Scrive nondimeno Paolo Diacono che, avendo Attila rubate e guaste piú cittá in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il Mencio mette in Po, e quivi stesse intra due, se egli dovesse andare verso Roma, o se egli se ne dovesse astenere (non giá per amore né per reverenza della cittá, la quale egli aveva in odio, ma per paura dello esempio del re Alarico, il quale, andatovi e presa la cittá, poco appresso morí): avvenne che Leone papa, santissimo uomo, il quale in que’ tempi presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che egli addomandò, ottenne. Di che maravigliandosi i baroni d’Attila, il domandarono perché, oltre al costume suo usato, gli avea tanta reverenza fatta, e, oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato avea; a’ quali Attila rispuose sé non avere la persona del papa temuta, ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale avea veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in mano un coltello ignudo, e minacciavalo d’ucciderlo se egli non facesse quello che’l papa gli domandasse. Cosí adunque repressa la rabbia e l’impeto d’Attila, senza appressarsi a Roma, se ne tornò in Pannonia; e quivi, oltre a piú altre mogli le quali aveva, ne prese una chiamata Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze di questa nuova moglie un convito grandissimo, bevé tanto vino in quello, che la notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il sangue del naso, come altra volta soleva fare, e fu in tanta quantitá, che egli l’affogò, e cosí miseramente morí. La cui morte per sogno fu manifestata a Marziano imperadore, il quale essendo in Costantinopoli, quella notte medesima nella quale morí Attila, gli parve in sogno vedere l’arco d’Atti a esser rotto; per la qual cosa comprese Attila dovere esser morto, e la mattina seguente a piú de’ suoi amici il disse; e poi si ritrovò esser vero che propriamente quella notte Attila era morto. Fu costui cognominato «flagellum Dei», e veramente egli fu flagello di Dio in Italia: e ciò fu estimato, percioché, essendo ancora le forze degl’italiani grandi, dalla prima battaglia fatta con lui, nella quale igualmente ciascuna delle parti fu vinta, non ardirono piú a levare il capo contro di lui: laonde apparve, alle crudeli cose da Attila fatte in Italia, lui essere stato un flagello mandato da Dio a gastigare e punire le iniquitá degl’ italiani, le quali in tanto ogni dovere eccedevano, che esse erano divenute importabili.