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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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Appresso dice che questa statua dalla ’nforcatura in giú è tutta di ferro eletto, volendo per questo s’intenda esser, successivamente alle predette, venuta una qualitá di tempo, nella quale quasi universalmente tutta l’umana generazione si diede all’arme e alle guerre, con la forza di quelle occupando violentamente l’uno la possessione dell’altro. E di questi, secondo che noi abbiam per l’antiche istorie, il primo fu Nino, re degli assiri, il quale tutta Asia si sottomise, e quinci discesero l’arme a’ medi e a’ persi, e da questi a’ greci e a’ macedoni e a’ cartaginesi e a’ romani, li quali con quelle l’universale imperio del mondo si sottomisero. E similmente, essendosi questa pestilenza appiccata a’ re e a’ popoli e alle persone singulari, quantunque alcuno principal dominio oggi non sia, persevera nondimeno nelle predette particulari la rabbia bellica, intanto che regione alcuna sopra la terra non si sa, che da guerra e da tribulazione infestata non sia. E, percioché gl’istrumenti della guerra il piú sono di ferro, figura l’autore questa qualitá di tempo esser di ferro: volendo, oltre a ciò, sentire che, sí come il ferro è metallo che ogni altro rode, cosí la guerra essere cosa la quale ogni mondana sustanza rode e diminuisce.

Ultimamente dice il piè destro di questa statua esser di terracotta, volendone primieramente per questo mostrare esser tempo venuto, la cui qualitá è, oltre ad ogni altra di sopra discritta, vile, e tanto piú quanto i metalli predetti sono d’alcun prezzo, e la terracotta è vilissima; e, oltre a questo, che, essendo ne’ metalli detti alcuna fermezza, alcuna natural forza, e la terracotta sia fragile, e con poca difficultá si rompa e schianti e spezzi: cosí le cose di questo ultimo tempo sian fragili, non solo naturalmente, ma ancora per la fede venuta meno, la quale soleva esser vincolo e legame, che teneva unite e serrate insieme le compagnie degli uomini. E, a dimostrarne le cose temporali esser propinque al fine suo, primieramente ne dice il piè esser di questa vil materia; il quale è l’ultimo membro del corpo, percioché, oltre a quello, alcuno inferiore non abbiamo; e, come esso è quello sopra il quale tutto il nostro corpo si ferma, cosí sopra questa vii materia tutto il lungo corso del tempo si termina; e perciò dice che il piè di questa statua, il quale è di terracotta, è il destro, e che questa statua sopra quello, piú che sopra l’altro, sta eretta, cioè fermata. Vuole adunque questo piede essere il destro, a dimostrarne che ogni cosa naturalmente si ferma sopra quella cosa, sopra la qual crede piú perseverare in essere; e perciò questa statua si ferma piú in sul destro piè, percioché nel destro piè, e in ciascuno altro membro destro, è piú di forza che ne’ membri sinistri, come di sopra è dimostrato. Ma questa fermezza non può molto durare, percioché, quantunque la terracotta sostenga alcun tempo alcuna gravezza, nondimeno, perseverando pure il peso, ella scoppia e dividesi e rompesi, e cosí cade e spezzasi ciò che sopra v’era fermato: e cosí ne dimostra il corso del tempo. fermato sopra cosí fragile materia, non dovere omai lungamente perseverare, ma, vegnendo il dí novissimo, appresso il quale Domeneddio dee, secondo che nell’Apocalissi si legge, fare il ciel nuovo e la terra nuova, né piú si produceranno uomini né altri animali, verrá la fine di questo tempo. Il qual tempo percioché è stato comune ad ogni nazione, l’ha voluto in questa statua l’autore dimostrare in luogo ad ogni nazion comune, come davanti è dimostrato.

Poi, deducendosi l’autore alla intenzion sua finale, dice che ogni parte di questa statua, fuori che quella la quale è d’oro, è rotta d’una fessura, della quale gocciano lagrime, intendendo per questo mostrarne perché tutto questo, che poetando ha discritto, abbia detto, cioè per farne chiari da qual cagione nata sia l’abbondanza delle miserie infernali. La qual cagione accioché non si creda pur ne’ presenti secoli avere avuto origine, dice che incominciò infino a quella qualitá di tempo, la quale appresso della testa dell’oro di questa statua è disegnata, cioè dopo l’esser cacciati i primi parenti di paradiso; volendo per questa rottura intendersi la rottura della integritá della innocenza o della virtuosa e santa vita, le quali, col malvagio adoperare e col trapassare i comandamenti di Dio, son rotte e viziate: e da queste eccettua l’autore la parte dell’oro, mostrando in quella non essere alcuna rottura, percioché fu tutta santa e obbediente al comandamento divino. E cosí dobbiam comprendere che le malvagie operazioni e inique degli uomini, di qualunque paese o regione, sono state cagione e sono delle lagrime, le quali caggiono delle dette rotture, cioè de’ dolori e delle afflizioni, le quali per le commesse colpe dalla divina giustizia ricevono i dannati in inferno; mostrandone appresso queste cotali lagrime, cioè mortali colpe, dal presente mondo discendere nella misera valle dello ’nferno, con coloro insieme li quali commesse l’hanno; e in inferno, cioè nella dannazion perpetua, fare quattro fiumi, cioè quattro cose, per le quali si comprende l’universale stato de’ dannati. E nomina questi quattro fiumi, il primo Acheronte, il secondo Stige, il terzo Flegetonte, il quarto e ultimo Cocíto: volendo per Acheronte intendere la prima cosa, la quale avviene a’ dannati.

È Acheronte, come di sopra alcuna volta è stato detto, interpetrato «senza allegrezza»: per la quale interpetrazione, assai chiaro si conosce colui, il quale per lo suo peccato discende in perdizione, avanti ad ogni altra cosa perdere l’allegrezza dell’eterna beatitudine, la quale gli era apparecchiata, se voluto avesse seguire i comandamenti di Dio. Appresso intende l’autore per Istige, il quale è interpetrato «tristizia», quello che il misero peccatore, avendo per le sue iniquitá perduta l’allegrezza di vita eterna, abbia acquistato, che è tristizia perpetua; percioché, come l’uom si vede perdere, dove estimava o dove gli bisognava di guadagnare, incontanente s’attrista. Ma, percioché la tristizia non è termine finale della miseria del dannato, séguita il terzo fiume chiamato Flegetonte, il quale è interpetrato «ardente»; volendo per questo ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente diviene nell’ardore della gravitá de’ supplici, li quali con tanta angoscia il cuocono e cruciano e faticano, che esso incontanente diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocíto. Il quale è interpetrato «pianto», percioché, trafiggendo l’ardore delle pene eternali alcuno, esso incontanente comincia a piangersi e a dolersi e a rammaricarsi: e questo pianto non è a tempo, anzi, sí come lo stagno mai non si muove, cosí questo pianto infernale mai non si muove, sí come quello che dee in perpetuo perseverare. E cosí, dal cominciamento del mondo insino a questo dí, dalle malvagie operazion degli uomini si cominciarono questi quattro miseri accidenti, li quali in forma di quattro fiumi discrive, per li quali l’abbondanza delle miserie delle pene infernali e de’ ricevitori di quelle sono non solamente perseverate, ma aumentate, e continuamente s’aumentano, e stanno e staranno infino a tanto che la presente vita persevererá.

CANTO DECIMOQUINTO

«Ora cen porta l’un de’ duri margini», ecc. Continuasi l’autore al precedente canto, in quanto nella fine d’esso mostra che gli argini di quel ruscelletto, il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi vuole giú discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l’uno delli detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due parti: nella prima discrive l’autore la qualitá del luogo, e massimamente degli argini sopra li quali andava, la qualitá di quegli dando, con alcuna dimostrazion d’esempli, ad intendere; nella seconda dimostra come da una schiera d’anime dannate in quel luogo guatato fosse, e riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui della sua fortuna futura lungamente parlasse. E comincia questa seconda quivi: «Giá eravam dalla selva».

Dice adunque primieramente: «Ora cen porta l’un de’ duri margini». E in quanto dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono, ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi, se medesimi portando, andavano su per l’uno de’ detti margini. E dice «l’uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere due. E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti mostrato, che ambo le pendici, cioè gli argini o margini del predetto fiumicello, erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un dubbio, il quale alcun potrebbe muovere, dicendo: come andavan costoro sotto lo ’ncendio delle fiamme, le quali continuamente in quel luogo cadevano? segue e dice: «E ’l fummo del ruscel», cioè che surgea del ruscello, come veggiamo di molti fiumi e altre acque fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo fa uggia, la quale, come nel precedente canto ha detto, ammorta le dette fiamme che sopra esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l’acqua e gli argini», infra li quali s’inchiude. E sono questi argini grotte fatte per forza alle rive de’ fiumi, accioché, crescendo essi, l’acqua non allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá, primieramente dicendo:

«Quale i fiamminghi tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra poste sopra il mare Oceano, il quale è tra Fiandra e l’isola d’Inghilterra; «Temendo ’l fiotto», del mare, «che ver’ lor s’avventa», sospinto dall’impeto del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo schermo», cioè il riparo, il quale è gli argini altissimi e forti, «perché ’l mar si fúggia», cioè, poi che percosso ha ne’ detti margini, senza piú venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che il mare Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il moto della luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí naturale, si muove due volte di levante inver’ ponente, e altrettante si torna di ponente inver’ levante; e quando di ver’ levante viene inver’ ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle marine a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni luoghi per molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle terre espedite, le quali aveva occupate. E questo suo movimento entra con tanta forza nel mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e massimamente nella cittá di Vinegia, si pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»: e questo è quello del quale l’autore intende qui, e contro al quale dice che i fiamminghi fanno riparo.

 

Appresso dimostra l’autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli argini del detto fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la Brenta». Padova è una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il qual fu cittadino di quella, e Virgilio e altri molti dicono che, dopo la distruzione di Troia, fu composta da Anténore troiano, il quale, partitosi da Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di Paflagonia, quivi dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della contrada gli antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose la detta cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una gran provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova infino al Friuli, e quella da’ suoi eneti, aggiunta una lettera al nome loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il qual si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale è una regione posta nell’Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La qual contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali non si risolvono infino a tanto che l’aere non riscalda, del mese di maggio o all’uscita d’aprile; e allora, risolvendosi, cascano l’acque di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del quale v’ha grandissima quantitá. E perciò dice l’autore che i padovani, cioè quegli del distretto di Paùova, fanno simiglianti schermi che i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e lor castelli», cioè i campi e’ lavorii delle villate e delle castella, le quali per lo piano di Padova sono; e questo fanno «Anziché Chiarentana», cioè la neve la quale è in Chiarentana, «il caldo senta», della state, la quale s’appropinqua. E, questi due esempli posti, dice che «A tale immagine», cioè similitudine, «eran fatti quelli», li quali lungo questo fiumicello erano, «Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí grossi», come quegli che fanno i fiamminghi e’ padovani, «Qual che si fosse, lo maestro félli», cioè gli fece.

«Giá eravam dalla selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra ha detto nel canto decimoterzo; «Tanto, ch’ io non avrei visto», cioè veduto, «dov’era, Per ch’io ’ndietro rivolto mi fossi», a riguardare; e ciò fu «Quando incontrammo d’anime», dannate, «una schiera», cioè molte, «Che venien lungo l’argine», sopra’l quale andavamo, «e ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè nel crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè essendo la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora avere o dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera conoscenza delle cose bisognerebbe; «E si», cioè e cosí, «ver’ noi aguzzavan le ciglia. Come vecchio sartor fa nella oruna», dell’ago, quando il vuole infilare. Questo avviene per difetto degli spiriti visivi, li quali, o da grossezza o da altra cagione impediti, quando non posson ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad aguzzar le ciglia, percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo in minor luogo la virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú acuta e piú forte al suo uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle anime per lo luogo nel quale era poca luce. «Cosí», come di sopra è dimostrato, «adocchiato», cioè riguardato, «da cotal famiglia», quale era quella che quivi passava, «Fui conosciuto da un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del vestimento (è il lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte inferiore), «e gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: _-«Qual maraviglia?» – (supple), è questa che io ti veggio qui.

«Ed io, quando ’l suo braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi ficcai», cioè fiso mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato dall’incendio, il quale continuamente cadea; «Si» gli occhi ficcai, «che’l viso abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese», cioè non tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto; E», perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi: – Siete voi qui, ser Brunetto?» – quasi parlando admirative. «E quegli» (supple) pregò dicendo: – «O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia grave, «Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d’aver me alquanto teco.

Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in alcune delle liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá fu notaria, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare d’avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato Il tesoretto, se n’andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi un libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale e naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò Il tesoro; e ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra l’autore il conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte il discrive, dove gli altri pone che contro a natura bestialmente adoperarono.

Séguita adunque il priego suo, il quale ancora nelle parole superiori non era compiuto, e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura alquanto innanzi l’autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia andar la traccia», – di queste anime, le quali tutte ti riguardano, le qual forse l’autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne alcuna, e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.

«Io dissi lui: – Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto insieme; «E se volete che con voi m’asseggia», cioè ristea, «Faròl, se piace a costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e maestro.

– «O figliuol – disse» ser Brunetto – «qual di questa greggia», cioè di questa brigata, «S’arresta punto, giace poi cent’anni Senza arrostarsi, quando» (supple) avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca. «Però va’ oltre: io ti verrò a’ panni», cioè appresso, «E poi», che io avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè questa brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo i suoi eterni danni», – cioè il suo perpetuo tormento.

«Io non osava scender della strada», cioè dell’argine, «Per andar par di lui»; e la ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di lui fosse disceso; «ma ’l capo chino Tenea», verso di lui, «com’», il tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile uomo.

«El cominciò: – Qual fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino» sia alcuna cosa previsa e inevitabile; «Anzi l’ultimo di», cioè anzi la morte, «quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che mostra ’l cammino?» —

Alla qual domanda l’autor risponde: – «Lassú di sopra in la vita serena», – cioè nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo luogo, «Rispuos’io lui, – mi smarri’ in una valle».

Di questa valle è assai detto davanti nel primo canto del presente libro, e perciò qui non bisogna di replicare. E qui notantemente dice «mi smarri’», non dice mi «perde’», per darne a sentire che le cose perdute non si ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili sieno alle perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro, li quali hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion perpetua, mai piú in quella non rientrano; coloro, che l’hanno smarrita per li peccati commessi, avendo spazio di potersi pêentere e ravvedere, la posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l’autore, che non era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice «mi smarrí’ in una valle».

E dice che vi si smarrí: «Avanti che l’etá mia fosse piena».

Mostrato è stato, nel primo canto di questo libro, gli anni degli uomini stendersi infino al settantesimo, e che infino al trentesimo quinto continuamente, o alla statura dell’uomo, o alle forze corporali s’aggiugne, e perciò in quello tempo si dice essere l’etá dell’uomo «piena». Dice adunque l’autore che esso, avanti che egli a questa etá pervenisse, si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende nel predetto canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena pervenuto, si ravvedesse d’avere smarrita la via diritta e ritornasse in quella.

«Pur iermattina le volsi le spalle», partendomi d’essa: e qui dimostra esser giá stato un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.

«Questi», del quale voi mi domandate chi egli è, «m’apparve, ritornando», io, «in quella», valle, si come uomo spaventato dalle tre bestie che davanti mi s’erano parate, «E riducemi a ca’», cioè a casa; e ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e noi siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l’anime nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto, furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci siamo si come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione, è quella la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena, mostrandoci il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per questo calle», – cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci alla chiarezza della veritá.

«Ed egli a me: – Se tu segui tua stella». Tocca in queste parole l’autore l’opinione degli astrologhi, li quali sogliono talvolta nella nativitá d’alcuni fare certe loro elevazioni, e per quelle vedere qual sia la disposizion del cielo in quel punto che colui nasce, per cui fanno la elevazione. E tra l’altre cose che essi piú puntalmente riguardano, è l’ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá predetta sale sopra l’orizzonte orientale della regione; e, avuto questo grado, considerano qual de’ sette pianeti è piú potente in esso; e quello che truovano essere di piú potenzia in quello, quel dicono essere signore dell’ascendente e significatore della nativitá. E secondo la natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia, la quale allora v’ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per luogo, giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è stata fatta. E però vuol qui l’autore mostrare che la sua stella, cioè il pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di signori e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu séguiti gli effetti della tua stella, cioè quello adoperando che essa mostra che tu déi adoperare, senza storti da ciò per caso che t’avvegna, tu «Non puoi fallire al glorioso porto», cioè di pervenire in gloriosa fama. Il che assai bene gli è avvenuto, percioché non solamente nella nostra cittá, ma per gran parte del mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini e grandissimi prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa grazia e in fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto dovergli avvenire: «Se ben m’accorsi nella vita bella», cioè nella presente.

E puossi per queste parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare che esso fosse astrolago, e per quell’arte comprendesse ne’ corpi superiori ciò che egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser Brunetto, si come uomo accorto, aver compreso in questa vita gli costumi e gli studi dell’autore esser tali, che di lui si dovesse quello sperare che esso gli dice; percioché, quando un valente uomo vede un giovane continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con gli uomini scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover divenire eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle, quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.

 

«E s’io non fossi si per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di quella vita passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno», intorno alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale per la scienza si perviene. «Dato t’avrei all’opera conforto», sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per te non potevi cognoscere.

E, poi che ser Brunetto gli ha detto questo, accioché il conforti al ben perseverare nel bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli quello che la fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché esso con minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la cagione, mostrando quella essere tale, che la ’ngiuria della fortuna, la quale gli s’apparecchia, non gli avverá per suo difetto, come a molti avviene, ma per difetto di coloro li quali gliele faranno. E dice: «Ma quello ’ngrato popolo e maligno», il quale è oggi divenuto fiorentino; e chiamalo «ingrato», per certe operazioni precedenti, da esso fatte verso coloro li quali l’avevano servito e onorato, e quasi trattolo di servitudine e di miseria; e percioché il popolo, secondo il romano costume, è universalmente tutta la cittadinanza di qualunque cittá, accioché di tutti i fiorentini non s’intenda esser questa infamia d’ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo maligno, «Che discese di Fiesole ab antico».

Fiesole, secondo che alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella dicono essere stata edificata da non so quale Atalante de’ discendenti di Iafet, figliuol di Noé, prima che altra cittá d’Europa: la qual cosa creder non posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse l’edificatore, o quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai notabile. E, secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la parte di Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma, fu per li romani disfatta, e parte de’ suoi cittadini ne vennero ad abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che, in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e la detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che in Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell’antica lor cittá. Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano Firenze essere stata contro al piacere de’ fiesolani reedificata, e abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si trovarono de’ discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu disfatta, l’abitavano.

Appresso dicono essere state lunghe guerre e dannose tra’ fiesolani e’ fiorentini, le quali all’una parte e all’altra rincrescendo, vennero a lunghissime triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e sicuramente usavano l’uno nella cittá dell’altro. Sotto la qual sicurtá i fiorentini, non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono Fiesole, fuori che la ròcca; e, patteggiati si i fiesolani con loro di dovere abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole disfatta al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze si tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme raccomunarono gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto poterono, insieme s’unirono. Nondimeno mostra qui l’autore, quella acerbezza antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di discendente in discendente de’ fiesolani, e ancora stare; e per questo dice che quel popolo fiesolano, che in Firenze venne ad abitare. «E tiene ancor del monte e del macigno»: «del monte», in quanto rustico e salvatico, e «del macigno», in quanto duro e non pieghevole ad alcuno liberale e civil costume. E, dice, questo cotal popolo disceso di Fiesole, «Ti si fará, per tuo ben far, nemico», si come quello al quale è in odio la vertú e l’operazioni degne di laude; e, di questo fartisi nimico, seguirá che tu sarai cacciato di Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor sia cacciato, per ciò «che tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè non è convenevole, «fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol sotto questa metafora l’autore intendere non esser convenevole che tra uomini rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un uom valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.

Poi segue: «Vecchia fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi. Della qual fama si dice esser cagione questo: che, andando i pisani al conquisto dell’isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e a ciò andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor cittá quasi vòta d’abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono di lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi erano a que’ tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di partire col detto comune la preda che dell’acquisto recassono. E, avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i pisani tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido vermiglio bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che fossero, di legno, ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero due parti, che posero dall’una parte le porti e dall’altra le due colonne coperte di scarlatto, e diedero le prese a’ fiorentini, li quali, senza troppo avanti guardare, presono le colonne. Le quali venutene in Firenze, e spogliate di quella veste scarlatta, si trovarono essere rotte, come oggi le veggiamo davanti alla porta di San Giovanni. Or voglion dire alcuni che i pisani, essendo certi che i fiorentini prenderebbono le colonne, accioché essi non avesser netto cosí fatto guiderdone, quelle abbronzarono, e in quello abbronzare, quelle esser cosí scoppiate, e, accioché i fiorentini di ciò non s’ accorgessono, le vestirono di scarlatto: e perciò, per questo poco accorgimento de’ fiorentini, esser loro stato allora imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai poi non ci cadde. Ma, quanto è a me, non va all’animo questa essere stata la cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono, appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si verificassero ne’ nostri costumi, piú che si verifichi il sopradetto!

Dice adunque: «Gente avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere avarissimi appare ne’ lor processi. E, se ad altro non apparisse, appare al male osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che con difficultá alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo consentimento ha a prestare a confermazion di quella, non al comun bene, ma alla sua particularitá; se pur si ferma, adoperando la innata cupiditá, della quale tutti siam fieramente maculati, per li componitor medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e modo che il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men possenti non si stendesse. Appresso, ne’ publici offici si fa prima la ragion del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della onorevole e leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie, le baratterie, le simonie e l’altre disonestá moventi da quella; e, perché troppo sarebbe lungo il ragionamento, dell’usure, delle falsitá, de’ tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre a ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si comprende ne’ nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver avuta la mala ventura o essere per averla. Parsi ne’ nostri ragionamenti, ne’ quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i costumi e l’opere laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i vitupèri e le vergogne e’ danni di ciascheduno; parsi nelle operazioni, nelle quali noi siamo, troppo piú che nelle parole, nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini siamo, in ogni cosa ci pare esser degni di dovere avanti ad ogni altro esser preposti, facendo di noi maravigliose stime, non credendo che alcuno altro vaglia, sappia o possa, se non noi. Andiamo con la testa levata, nel parlare altieri e presuntuosi nelle ’mprese, e tanto di noi medesimi ingannati, che sofferir non possiamo né pari né compagnone; teneri piú che ’l vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam furiosi, e in tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le nostre forze a Dio, di bestemmiarlo e d’avvilirlo. De’ quali vizi, esso permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente che non siam noi, ci troviamo sgannati.