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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2
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Giovanni Boccaccio

Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

CANTO QUARTO


I

Senso Letterale

«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente canto, sí come usato è lʼautore, alle cose dette nella fine del precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto come un vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento, il fece cadere, come lʼuomo il quale è preso dal sonno; per che, nel principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto. E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto gli fosse il sonno e come nello ʼnferno si ritrovasse; nella seconda, procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti veduti, pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».



Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona violenza, volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione, la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza aʼ comandamenti e aʼ piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia daʼ ministri della giustizia punito nellʼaltra.



«Lʼalto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un costrignimento del caldo interiore e una quiete diffusa per li membri indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual, volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio cosí:





Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,

pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris

fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc.



E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo,

in tragedia Herculis furentis

, dove dice:





…tuque o domitor,

somne, malorum, requies animi,

pars humanae melior vitae,

volucer, matris genus Astreae,

frater durae languidae Mortis,

veris miscens falsa, futuri

certus et idem pessimus auctor:

pater o rerum, portus vitae,

lucis requies noctisque comes,

qui par regi famuloque venis,

placidus, fessum lenisque fovens:

pavidum Leti genus humanum

cogis longam discere mortem, ecc.



Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la camera e il letto e la sua famiglia, se quella per avventura alcun disiderasse.



«Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso, la qual noi chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo; e cosí in questo luogo intende lʼautore, percioché nel capo dimora il sonno causato daʼ vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per lʼarterie al cerebro.



«Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce daʼ nuvoli, quando sono per violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni della terra fredde e umide e da esalazioni calde e secche, sí come Aristotile mostra nel terzo libro della sua

Meteora

; percioché, essendo lʼesalazioni calde e secche dalle fredde e umide circundate, sforzandosi quelle dʼuscir fuori e queste di ritenerle, avviene che, per lo violento moto delle calde e secche, elle sʼaccendono, e, per quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá, chʼella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo. Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual cosa intervenir non può in quello luogo dove lʼautore disegna che era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che possano tuono causare: per che assai chiaro puote apparere lʼautore per questo «tuono» intendere altro che quello che la lettera suona, sí come giá è stato mostrato nellʼallegoria del precedente canto.



«Sí, chʼio mi riscossi, Come persona chʼè per forza desta». E in queste parole mostra ancor lʼautore gli atti infernali tutti essere violenti. «E lʼocchio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché non solamente lʼocchio, ma ciascun altro senso nʼè incerto di sé divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra lʼautore il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le parti circustanti: ed a questo segue la cagione perché ciò fece, cioè «Per conoscer lo loco, dovʼio fossi», percioché quello non gli pareva dove il sonno lʼavea preso.



«Vero è»: qui dimostra dʼaver conosciuto il luogo nel quale era, e dimostra qual fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai», cosí desto, «Della valle dʼabisso dolorosa», sopra la quale come esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente canto mostrato: «Che tuono accoglie dʼinfiniti guai», cioè un romore tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», allʼapparenza, «profonda era», allʼesistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre allʼoscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo, «a fondo», cioè verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza delle tenebre e della nebbia.



– «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte del presente canto dimostra lʼautore per una medesima colpa, cioè per non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere deʼ predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda quivi: «Non lasciavam lʼandar», ecc. Nella prima parte lʼautore fa due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti di sopra dette, e pone delle due, delle quali lʼuna dice essere stati infanti, cioè piccioli fanciulli, lʼaltra dice essere stati uomini e femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio gli solve. E comincia questa seconda quivi: – «Dimmi maestro mio», ecc.



Dice adunque cosí: – «Or discendiam», percioché in quel luogo sempre infino al centro si diclina; «quaggiú nel cieco mondo», – cioè in inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural luce non vʼè: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto», cioè pallido oltre lʼusato. È il vero che lʼuomo impallidisce per lʼuna delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono le diminuzioni del sangue, le diete e lʼaltre evacuazioni, le quali vanno a tôrre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú, impallidí per compassione. – «Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai secondo», – cioè mi seguirai; volendo, per questo ordine dellʼandare, renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va davanti, trova prima ogni ostacolo, il quale lʼandare impedisce, e quello rimuove, se egli è buono e valoroso duca.



«Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto», riguardandolo nel viso, «Dissi: – Come verrò», io appresso, «se tu», che vai avanti ed haʼ mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi», cioè hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel secondo canto, dove tu dellʼanimo cacciasti la viltá sopravvenutavi. —



«Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse: – «Lʼangoscia delle genti», onorevoli e dʼalta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio dello ʼnferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá», cioè compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.



«Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché la via lunga ne sospigne» – a dover andare. «Cosí si mise», procedendo, «e cosí mi feʼ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel limbo, «che lʼAbisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.



«Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea comprendere, «Non avea pianto mai», cioè dʼaltro, «che di sospiri». È il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato, il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se cosí non facesse, potrebbe lʼangoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi e tanto gonfiare dʼintorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá dellʼangoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che lʼaura eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura» un soave movimento dʼaere: per questa cagione non credo voglia dire il testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi vʼè ogni moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»), «facevan», glʼimpeti deʼ sospiri, «tremare», cioè avere un movimento non maggiore che il tremare.



«E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè moltitudini, «chʼeran grandi, Dʼinfanti», cioè di pargoli, li quali «infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che perfettamente potesson parlare (e questa è lʼuna delle due maniere di genti, delle quali dissi che lʼautor trattava in questa parte), «e di femmine e di viri», cioè dʼuomini (e questa è lʼaltra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta).

 



«Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare; percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non grave fosse a Virgilio lʼessere domandato, per che poi dʼalcuna cosa domandato non lʼavea) «a me» disse: – «Tu non dimandi, Che spiriti son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col farlo chiaro di ciò che lʼuditore addomandar dovea, e dice: «Or voʼ che sappi, avanti che piú andi, Chʼeʼ non peccâro», questi spiriti che tu vedi qui; «e sʼegli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione è, «perchʼeʼ non ebber battesmo». E questo nʼè assai manifesto per lo Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «

Amen, amen, dico tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest intrare in regnum Dei

». È adunque il battesimo una regenerazion nuova, per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti, nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio, dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza esso son tutte perdute, sí come qui afferma lʼautore. «Chʼè parte della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, deʼ quali dodici è il battesimo uno.



Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro deʼ quali noi parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna; perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto non lʼadoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono deʼ comandamenti dati da lui al popol suo, neʼ quali, ben intesi, stava la salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io medesmo»: percioché Virgilio, si come in

libro Temporum

 dʼEusebio si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il battesimo da lui introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone

Della nativitá di Cristo

, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata neʼ versi scritti nella quarta egloga della sua

Buccolica

, dove dice:





Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:

magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.

Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:

iam nova progenies caelo delabitur alto.



Deʼ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere santo Augustino; e, se pure son di quegli che ʼl sentono (e per avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti al cristianesmo salvarsi.]



«Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme vivemo in disio»: – il quale disio non è altro che di vedere Iddio, nel quale consiste la gloria deʼ beati. E come che molto faticosa cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e noia importabile lʼardentemente disiderare e non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e perciò, quantunque

prima facie

 paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io credo chʼella sia gravissima; e ancora piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna intermissione. «Gran duol mi prese al cuor quando lʼintesi», sí per Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando coʼ cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato dʼalte mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran sospesi», dallʼardore del lor desiderio.



– «Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella della prima parte della seconda division principale, nella quale lʼautore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore». – Assai lʼonora lʼautore per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. «Cominciaʼ io, per volere esser certo Di quella fede, che vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che per la nostra fede nʼè porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene i santi padri. . – «Uscicci mai», di questo luogo, «alcuno, o per suo merto», cioè per lʼavere con intera pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per lʼavere sí nella mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse salute: «O per lʼaltrui», opera, «che poi fosse beato?» – uscendo di qui e sagliendo in vita eterna.



«Ed eʼ», cioè Virgilio, «che ʼntese il mio parlar coverto», cioè intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva la domanda generale, «Rispose: – Io era nuovo in questo stato». Dice «nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia dʼanni vʼerano stati, dovʼegli stato non vʼera oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo, nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice «possente», percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era, questo possente, «Con segno di vittoria incoronato». Non mi ricorda dʼavere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto, che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce: donde si scrive che «

habitantibus in umbra mortis lux orta est eis

».



«Trasseci lʼombra del primo parente», cioè dʼAdamo.



 



«DʼAbél, suo figlio», cioè dʼAdam. Questi si crede che fosse il primiero uomo che morí, ucciso da Cain suo fratello per invidia. Leggesi nel

Genesi

 Caino, il quale fu il primo figliuolo dʼAdam, essersi dato allʼagricoltura, e Abél, similmente figliuol dʼAdam e che appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due cominciato a far, prima che alcuni altri, deʼ frutti delle loro fatiche sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per far sacrificio, dʼeleggere le piú cattive biade, o che avessero le spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello sacrificava: di che seguiva che, essendo il sacrificio dʼAbél accetto a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il ciclo. La qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al fratello; e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non prendendosene Abél guardia, Caino il ferí in su la testa dʼun bastone ed ucciselo.



«E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio lʼopere degli uomini sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio, conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse unʼarca e come dentro vʼentrasse, e similemente quanti e quali animali vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale sopra ogni altezza di monte, e tra ʼl crescere e scemare perseverò nel torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta lʼarca, la qual notava sopra lʼacque, sopra le montagne dʼErmenia, e non movendosi piú per lʼacque che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra lʼarca, mandò fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò con un ramo dʼulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il diluvio era cessato, e, uscito fuori dellʼarca, fece sacrificio a Dio. E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto de