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Decameron

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NOVELLA SETTIMA

Il re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, lei conforta e appresso a un gentil giovane la marita; e lei nella fronte basciata, sempre poi si dice suo cavaliere.

Venuta era la Fiammetta al fin della sua novella, e commendata era stata molto la virile magnificenzia del re Carlo, quantunque alcuna, che quivi era ghibellina, commendar nol volesse; quando Pampinea, avendogliele il re imposto, incominciò.

Niun discreto, raguardevoli donne, sarebbe che non dicesse ciò che voi dite del buon re Carlo, se non costei che gli vuol mal per altro; ma per ciò che a me va per la memoria una cosa non meno commendevole forse che questa, fatta da un suo avversario in una nostra giovane fiorentina, quella mi piace di raccontarvi.

Nel tempo che i franceschi di Cicilia furori cacciati, era in Palermo un nostro fiorentino speziale, chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d’una sua donna, senza più, aveva una figliuola bellissima e già da marito. E essendo il re Pietro di Raona signor della isola divenuto, faceva in Palermo maravigliosa festa co’ suoi baroni; nella qual festa, armeggiando egli alla catalana, avvenne che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove ella era con altre donne, il vide correndo egli e sì maravigliosamente le piacque, che, una volta e altra poi riguardandolo di lui ferventemente s’innamorò.

E cessata la festa e ella in casa del padre standosi, a niun’altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico e alto amore; e quello che intorno a ciò più l’offendeva era il cognoscimento della sua infima condizione, il quale niuna speranza appena le lasciava pigliare di lieto fine: ma non per tanto da amare il re indietro si voleva tirare e per paura di maggior noia a manifestar non l’ardiva. Il re di questa cosa non s’era accorto né si curava: di che ella, oltre a quello che si potesse estimare, portava intollerabile dolore. Per la qual cosa avvenne che, crescendo in lei amor continuamente e una malinconia sopr’altra agiugnendosi, la bella giovane più non potendo infermò, e evidentemente di giorno in giorno come la neve al sole si consumava. Il padre di lei e la madre, dolorosi di questo accidente, con conforti continui e con medici e con medicine in ciò che si poteva l’atavano; ma niente era, per ciò che ella, sì come del suo amore disperata, aveva eletto di più non volere vivere.

Ora avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere, le venne in pensiero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore e il suo proponimento, prima che morisse, fare al re sentire; e per ciò un dì il pregò che egli le facesse venire Minuccio d’Arezzo. Era in que’ tempi Minuccio tenuto un finissimo cantatore e sonatore e volentieri dal re Pietro veduto, il quale Bernardo avvisò che la Lisa volesse per udirlo alquanto e sonare e cantare: per che fattogliele dire, egli, che piacevole uomo era, incontanente a lei venne e, poi che alquanto con amorevoli parole confortata l’ebbe, con una sua viuola dolcemente sonò alcuna stampita e cantò appresso alcuna canzone, le quali allo amor della giovane erano fuoco e fiamma là dove egli la credea consolare.

Appresso questo disse la giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per che partitosi ciascun altro, ella gli disse: «Minuccio, io ho eletto te per fidissimo guardatore d’un mio segreto, sperando primieramente che tu quello a niuna persona, se non a colui che io ti dirò, debbi manifestar già mai, e appresso che in quello che per te si possa tu mi debbi aiutare: così ti priego. Dei adunque sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro signore re Pietro fece la gran festa della sua essaltazione, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto, che dello amor di lui mi s’accese un fuoco nell’anima che al partito m’ha recata che tu mi vedi; e conoscendo io quanto male il mio amore a un re si convenga e non potendolo non che cacciare ma diminuire e egli essendomi oltre modo grave a comportare, ho per minor doglia eletto di voler morire; e così farò. È il vero che io fieramente n’andrei sconsolata, se prima egli nol sapesse: e non sappiendo per cui potergli questa mia disposizion fargli sentire più acconciamente che per te, a te commettere la voglio e priegoti che non rifiuti di farlo; e quando fatto l’avrai, assapere mel facci, acciò che io consolata morendo mi sviluppi da queste pene»; e questo detto piagnendo si tacque.

Maravigliossi Minuccio dell’altezza dello animo di costei e del suo fiero proponimento e increbbenegli forte; e subitamente nello animo corsogli come onestamente la poteva servire, le disse: «Lisa, io t’obligo la mia fede, della quale vivi sicura che mai ingannata non ti troverrai: e appresso commendandoti di sì alta impresa, come è aver l’animo posto a così gran re, t’offero il mio aiuto, col quale io spero, dove tu confortar ti vogli, sì adoperare, che avanti che passi il terzo giorno ti credo recar novelle che sommamente ti saran care; e per non perder tempo, voglio andare a cominciare.» La Lisa, di ciò da capo pregatol molto e promessogli di confortarsi, disse che s’andasse con Dio.

Minuccio partitosi, ritrovò un Mico da Siena, assai buon dicitore in rima a quei tempi, e con prieghi lo strinse a far la canzonetta che segue:

 
Muoviti, Amore, e vattene a Messere,
e contagli le pene ch’io sostegno;
digli ch’a morte vegno,
celando per temenza il mio volere.
Merzede, Amore, a man giunte ti chiamo,
ch’a Messer vadi là dove dimora.
Di’ che sovente lui disio e amo,
sì dolcemente lo cor m’innamora;
e per lo foco ond’io tutta m’infiamo
temo morire, e già non saccio l’ora
ch’i’ parta da sì grave pena dura,
la qual sostegno per lui disiando,
temendo e vergognando:
deh! il mal mio, per Dio, fagli assapere.
Poi che di lui, Amor, fu’ innamorata,
non mi donasti ardir quanto temenza
che io potessi sola una fiata
lo mio voler dimostrare in parvenza
a quegli che mi tien tanto affannata;
così morendo, il morir m’è gravenza!
Forse che non gli saria spiacenza,
se ei sapesse quanta pena i’ sento,
s’a me dato ardimento
avesse in fargli mio stato sapere.
Poi che ’n piacere non ti fu, Amore,
ch’a me donassi tanta sicuranza,
ch’a Messer far savessi lo mio core,
lasso, per messo mai o per sembianza,
mercé ti chero, dolce mio signore,
che vadi a lui e donagli membranza
del giorno ch’io il vidi a scudo e lanza
con altri cavalieri arme portare:
presilo a riguardare
innamorata sì, che ’l mio cor pere.
 

Le quali parole Minuccio prestamente intonò d’un suono soave e pietoso sì come la materia di quelle richiedeva, e il terzo dì se n’andò a corte, essendo ancora il re Pietro a mangiare; dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse con la sua viuola. Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala, n’erano parevano uomini adombrati, sì tutti stavano taciti e sospesi a ascoltare, e il re per poco più che gli altri. E avendo Minuccio il suo canto fornito, il re il domandò donde questo venisse che mai più non gliele pareva avere udito.

«Monsignore,» rispose Minuccio «e’ non sono ancora tre giorni che le parole si fecero e ’l suono»; il quale, avendo il re domandato per cui, rispose: «Io non l’oso scovrir se non a voi.»

Il re, disideroso d’udirlo, levate le tavole nella camera sel fé venire, dove Minuccio ordinatamente ogni cosa udita gli raccontò; di che il re fece gran festa e commendò la giovane assa’ e disse che di sì valorosa giovane si voleva aver compassione; e per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse e le dicesse che senza fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare.

Minuccio, lietissimo di portare così piacevole novella, alla giovane senza ristare con la sua viuola n’andò; e con lei sola parlando ogni cosa stata raccontò e poi la canzon cantò con la sua viuola. Di questo fu la giovane tanto lieta e tanto contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver segni grandissimi della sua sanità; e con disidero, senza sapere o presummere alcun della casa che ciò si fosse, cominciò a aspettare il vespro nel quale il suo signor veder dovea. Il re, il quale liberale e benigno signore era, avendo poi più volte pensato alle cose udite da Minuccio e conoscendo ottimamente la giovane e la sua bellezza, divenne ancora più che non era pietoso; e in su l’ora del vespro montato a cavallo, sembiante faccendo d’andare a suo diporto, pervenne là dov’era la casa dello speziale: e quivi, fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo giardino il quale lo speziale avea, in quello smontò e dopo alquanto domandò Bernardo che fosse della figliuola, se egli ancora maritata l’avesse.

Rispose Bernardo: «Monsignore, ella non è maritata, anzi è stata e ancora è forte malata: è il vero che da nona in qua ella è maravigliosamente migliorata.»

Il re intese prestamente quello che questo miglioramento voleva dire e disse: «In buona fé, danno sarebbe che ancora fosse tolta al mondo sì bella cosa: noi la vogliamo venire a visitare.»

E con due compagni solamente e con Bernardo nella camera di lei poco appresso se n’andò e, come là entro fu, s’accostò al letto dove la giovane alquanto sollevata con disio l’aspettava e lei per la man prese dicendo: «Madonna, che vuol dir questo? voi siete giovane e dovreste l’altre confortare, e voi vi lasciate aver male? Noi vi vogliam pregare che vi piaccia per amor di noi di confortarvi in maniera che voi siate tosto guerita.»

La giovane, sentendosi toccare alle mani di colui il quale ella sopra tutte le cose amava, come che ella alquanto si vergognasse, pur sentiva tanto piacere nell’animo quanto se stata fosse in Paradiso; e come poté gli rispose: «Signor mio, il volere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi m’è di questa infermità stata cagione, dalla quale voi, vostra buona mercé, tosto libera mi vedrete.»

 

Solo il re intendeva il coperto parlare della giovane e da più ogn’ora la reputava, e più volte seco stesso maladisse la fortuna che di tale uomo l’aveva fatta figliuola; e poi che alquanto fu con lei dimorato e più ancora confortatala, si partì. Questa umanità del re fu commendata assai e in grande onor fu attribuita allo speziale e alla figliuola; la quale tanto contenta rimase quanto altra donna di suo amante fosse già mai; e da migliore speranza aiutata in pochi giorni guerita, più bella diventò che mai fosse.

Ma poi che guerita fu, avendo il re con la reina diliberato qual merito di tanto amore le volesse rendere, montato un dì a cavallo con molti de’ suoi baroni a casa dello spezial se n’andò, e nel giardino entratosene fece lo spezial chiamare e la sua figliuola: e in questo venuta la reina con molte donne e la giovane tra lor ricevuta, cominciarono maravigliosa festa. E dopo alquanto il re insieme con la reina chiamata la Lisa, le disse il re: «Valorosa giovane, il grande amor che portato n’avete v’ha grande onore da noi impetrato, del quale noi vogliamo che per amor di noi siate contenta: e l’onore è questo, che, con ciò sia cosa che voi da marito siate, vogliamo che colui prendiate per marito che noi vi daremo, intendendo sempre, non obstante questo, vostro cavaliere appellarci senza più di tanto amor voler da voi che un sol bascio.»

La giovane, che di vergogna tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo il piacer del re, con bassa voce così rispose: «Signor mio, io son molto certa che, se egli si sapese che io di voi innamorata mi fossi, la più della gente me ne reputerebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi uscita di mente e che io la mia condizione e oltre a questo la vostra non conoscessi; ma come Idio sa, che solo i cuori de’ mortali vede, io nell’ora che voi prima mi piaceste conobbi voi essere re e me figliuola di Bernardo speziale, e male a me convenirsi in sì alto luogo l’ardore dello animo dirizzare. Ma sì come voi molto meglio di me conoscete, niuno secondo debita elezione ci s’innamora ma secondo l’appetito e il piacere: alla qual legge più volte s’opposero le forze mie, e, più non potendo, v’amai e amo e amerò sempre. È il vero che, com’io a amore di voi mi senti’ prendere, così mi disposi di far sempre del vostro voler mio; e per ciò, non che io faccia questo di prender volentier marito e d’aver caro quello il quale vi piacerà di donarmi, che mio onore e stato sarà, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco, credendovi io piacere, mi sarebbe diletto. Aver voi re per cavaliere sapete quanto mi si conviene, e per ciò più a ciò non rispondo; né il bascio che solo del mio amor volete senza licenzia di madama la reina vi sarà conceduto. Nondimeno di tanta benignità verso me quanta è la vostra e quella di madama la reina che è qui, Idio per me vi renda e grazie e merito, ché io da render non l’ho»; e qui si tacque.

Alla reina piacque molto la risposta della giovane, e parvele così savia come il re l’aveva detto. Il re fece chiamare il padre della giovane e la madre: e sentendogli contenti di ciò che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era gentile uomo ma povero, ch’avea nome Perdicone, e postegli certe anella in mano a lui non recusante di farlo fece sposare la Lisa.

A’ quali incontanente il re, oltre a molte gioie e care che egli e la reina alla giovane donarono, gli donò Cefalù e Calatabellotta, due bonissime terre e di gran frutto, dicendo: «Queste ti doniam noi per dote della donna: quello che noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo avvenire»; e questo detto, rivolto alla giovane disse: «Ora vogliam noi prender quel frutto che noi del vostro amore aver dobbiamo»; e presole con amenduni le mani il capo le basciò la fronte.

Perdicone e ’l padre e la madre della Lisa, e ella altressì, contenti grandissima festa fecero e liete nozze; e secondo che molti affermano, il re molto bene servò alla giovane il convenente, per ciò che mentre visse sempre s’appellò suo cavaliere né mai in alcun fatto d’arme andò che egli altra sopransegna portasse che quella che dalla giovane mandata gli fosse.

Così adunque operando si pigliano gli animi de’ subgetti, dassi altrui materia di bene operare e le fame eterne s’acquistano: alla qual cosa oggi pochi o niuno ha l’arco teso dello ’ntelletto, essendo li più de’ signori divenuti crudeli e tiranni.

NOVELLA OTTAVA

Sofronia, credendosi esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo e con lui se ne va a Roma, dove Gisippo in povero stato arriva; e credendo da Tito esser disprezzato sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma; Tito, riconosciutolo, per iscamparlo dice sé averlo morto; il che colui che fatto l’avea vedendo se stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene.

Filomena, per comandamento del re, essendo Pampinea di parlar ristata e già avendo ciascuna commendato il re Pietro, e più la ghibellina che l’altre, incominciò.

Magnifiche donne, chi non sa li re poter, quando vogliono, ogni gran cosa fare e loro altressì spezialissimamente richiedersi l’esser magnifico? Chi adunque, possendo, fa quello che a lui s’appartiene, fa bene; ma non se ne dee l’uomo tanto maravigliare né alto con somme lode levarlo, come un altro si converria che il facesse, a cui per poca possa meno si richiedesse. E per ciò, se voi con tante parole l’opere del re essaltate e paionvi belle, io non dubito punto che molto più non vi debbian piacere e esser da voi commendate quelle de’ nostri pari, quando sono a quelle de’ re simiglianti o maggiori; per che una laudevole opera e magnifica usata tra due cittadini amici ho proposto in una novella di raccontarvi.

Nel tempo adunque che Ottavian Cesare, non ancora chiamato Augusto ma nello uficio chiamato triumvirato, lo ’mperio di Roma reggeva, fu in Roma un gentile uomo chiamato Publio Quinzio Fulvo; il quale avendo un suo figliuolo, Tito Quinzio Fulvo nominato, di maraviglioso ingegno, a imprender filosofia il mandò a Atene e quantunque più poté il raccomandò a un nobile uomo chiamato Cremete, il quale era antichissimo suo amico. Dal quale Tito nelle propie case di lui fu allogato in compagnia d’un suo figliuolo nominato Gisippo, e sotto la dottrina d’un filosofo, chiamato Aristippo, e Tito e Gisippo furon parimente da Cremete posti a imprendere.

E venendo i due giovani usando insieme, tanto si trovarono i costumi loro esser conformi, che una fratellanza e una amicizia sì grande ne nacque tra loro, che mai poi da altro caso che da morte non fu separata: niun di loro aveva né ben né riposo se non tanto quanto erano insieme. Essi avevano cominciati gli studii, e parimente ciascuno d’altissimo ingegno dotato saliva alla gloriosa altezza della filosofia con pari passo e con maravigliosa laude: e in cotal vita con grandissimo piacer di Cremete, che quasi l’un più che l’altro non avea per figliuolo, perseveraron ben tre anni. Nella fine de’ quali, sì come di tutte le cose addiviene, addivenne che Cremete già vecchio di questa vita passò: di che essi pari compassione, sì come di comun padre, portarono, né si discernea per gli amici né per gli parenti di Cremete qual più fosse per lo sopravvenuto caso da racconsolar di lor due.

Avvenne, dopo alquanti mesi, che gli amici di Gisippo e i parenti furon con lui e insieme con Tito il confortarono a tor moglie: e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi parenti discesa e cittadina d’Atene, il cui nome era Sofronia, d’età forse di quindici anni. E appressandosi il termine delle future nozze, Gisippo pregò un dì Tito che con lui andasse a vederla, ché veduta ancora non l’avea; e nella casa di lei venuti e essa sedendo in mezzo d’amenduni, Tito, quasi consideratore della bellezza della sposa del suo amico, la cominciò attentissimamente a riguardare; e ogni parte di lei smisuratamente piacendogli, mentre quelle seco sommamente lodava sì fortemente, senza alcun sembiante mostrarne, di lei s’accese, quanto alcuno amante di donna s’accendesse già mai; ma poi che alquanto con lei stati furono, partitisi, a casa se ne tornarono.

Quivi Tito, solo nella sua camera entratosene, alla piaciuta giovane cominciò a pensare, tanto più accendendosi quanto più nel pensier si stendea: di che accorgendosi, dopo molti caldi sospiri seco cominciò a dire: «Ahi! misera la vita tua, Tito! Dove e in che pon tu l’animo e l’amore e la speranza tua? or non conosci tu, sì per li ricevuti onori da Cremete e dalla sua famiglia e sì per la intera amicizia la quale è tra te e Gisippo, di cui costei è sposa, questa giovane convenirsi avere in quella reverenza che sorella? che dunque ami? dove ti lasci transportare allo ’ngannevole amore? dove alla lusinghevole speranza? Apri gli occhi dello ’ntelletto e te medesimo, o misero, riconosci; dà luogo alla ragione, raffrena il concupiscibile appetito, tempera i disideri non sani e a altro dirizza i tuoi pensieri; contrasta in questo cominciamento alla tua libidine e vinci te medesimo mentre che tu hai tempo. Questo non si conviene che tu vuogli, questo non è onesto; questo a che tu seguir ti disponi, eziandio essendo certo di giugnerlo, che non se’, tu il dovresti fuggire, se quello riguardassi che la vera amistà richiede e che tu dei. Che dunque farai, Tito? Lasciarai lo sconvenevole amore, se quello vorrai fare che si conviene.» E poi, di Sofronia ricordandosi, in contrario volgendo, ogni cosa detta dannava dicendo: «Le leggi d’amore sono di maggior potenzia che alcune altre: elle rompono non che quelle della amistà ma le divine. Quante volte ha già il padre la figliuola amata, il fratello la sorella, la matrigna il figliastro? Cose più monstruose che l’uno amico amar la moglie dell’altro, già fattosi mille volte. Oltre a questo io son giovane, e la giovinezza è tutta sottoposto all’amorose leggi: quello adunque che a amor piace a me convien che piaccia. L’oneste cose s’appartengono a’ più maturi: io non posso volere se non quello che amor vuole. La bellezza di costei merita d’essere amata da ciascheduno; e se io l’amo, che giovane sono, chi me ne potrà meritamente riprendere? Io non l’amo perché ella sia di Gisippo, anzi l’amo che l’amerei di chiunque ella stata fosse. Qui pecca la fortuna che a Gisippo mio amico l’ha conceduta più tosto che a un altro; e se ella dee essere amata, che dee e meritamente per la sua bellezza, più dee esser contento Gisippo, risappiendolo, che io l’ami io che un altro.» E da questo ragionamento faccendo beffe di se medesimo tornando in sul contrario, e di questo in quello e di quello in questo, non solamente quel giorno e la notte seguente consumò, ma più altri, in tanto che, il cibo e sonno perdutone, per debolezza fu constretto a giacere.

Gisippo, il qual più dì l’avea veduto di pensier pieno e ora il vedeva infermo, se ne doleva forte e con ogni arte e sollicitudine, mai da lui non partendosi, s’ingegnava di confortarlo, spesso e con instanzia domandandolo della cagione de’ suoi pensieri e della infermità; ma avendogli più volte Tito dato favole per risposta e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito constrignere, con pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa: «Gisippo, se agli dii fosse piaciuto, a me era assai più a grado la morte che il più vivere, pensando che la fortuna m’abbi condotto in parte che della mia virtù mi sia convenuto far pruova e quella con grandissima vergogna di me truovi vinta; ma certo io n’aspetto tosto quel merito che mi si conviene, cioè la morte, la qual mi fia più cara che il vivere con rimembranza della mia viltà, la quale, per ciò che a te né posso né debbo alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirrò.» E cominciatosi da capo, la cagion de’ suoi pensieri e’ pensieri e la battaglia di quegli e ultimamente de’ quali fosse la vittoria e sé per l’amor di Sofronia perire gli discoperse, affermando che, conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per penitenzia n’avea preso il voler morire, di che tosto credeva venire a capo.

Gisippo, udendo questo e il suo pianto vedendo, alquanto prima sopra sé stette, sì come quegli che del piacere della bella giovane, avvegna che più temperatamente, era preso; ma senza indugio diliberò la vita dello amico più che Sofronia dovergli esser cara, e così, dalle lagrime di lui al lagrimare invitato, gli rispose piangendo: «Tito, se tu non fossi di conforto bisognoso come tu se’, io di te a te medesimo mi dorrei, sì come d’uomo il quale hai la nostra amicizia violata, tenendomi sì lungamente la tua gravissima passione nascosa. E come che onesto non ti paresse, non son per ciò le disoneste cose se non come l’oneste da celare all’amico, per ciò che chi amico è, come delle oneste con l’amico prende piacere, così le non oneste s’ingegna di torre dello animo dello amico; ma ristarommene al presente e a quel verrò che di maggior bisogno esser conosco. Se tu ardentemente ami Sofronia a me sposata, io non me ne maraviglio, ma maraviglierem’io ben se così non fosse, conoscendo la sua bellezza e la nobiltà dell’animo tuo, atta tanto più a passion sostenere quanto ha più d’eccellenza la cosa che piaccia. E quanto tu ragionevolmente ami Sofronia, tanto ingiustamente della fortuna ti duoli, quantunque tu ciò non esprimi, che a me conceduta l’abbia, parendoti il tuo amarla onesto se d’altrui fosse stata che mia. Ma se tu se’ savio come suoli, a cui la poteva la fortuna concedere, di cui tu più l’avessi a render grazie che d’averla a me conceduta? Qualunque altro avuta l’avesse, quantunque il tuo amore onesto stato fosse, l’avrebbe egli a sé amata più tosto che a te, il che di me, se così mi tieni amico come io ti sono, non dei sperare; e la cagione è questa, che io non mi ricordo, poi che amici fummo, che io alcuna cosa avessi che così non fosse tua come mia. Il che, se tanto fosse la cosa avanti che altramenti esser non potessi, così ne farei come dell’altre; ma ella è ancora in sì fatti termini, che di te solo la posso fare e così farò, per ciò che io non so quello che la mia amistà ti dovesse esser cara, se io d’una cosa che onestamente far si puote, non sapessi d’un mio voler far tuo. Egli è il vero che Sofronia è mia sposa e che io l’amava molto e con gran festa le sue nozze aspettava; ma per ciò che tu, sì come molto più intendente di me, con più fervor disideri così cara cosa come ella è, vivi sicuro che non mia ma tua moglie verrà nella mia camera. E per ciò lascia il pensiero, caccia la malinconia, richiama la perduta santa e il conforto e l’allegrezza, e da questa ora innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto più degno amore che il mio non era.»

 

Tito, udendo così parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto più era di Gisippo la liberalità tanto di lui a usarla pareva la sconvenevolezza maggiore; per che, non ristando di piagnere, con fatica così gli rispose: «Gisippo, la tua liberale e vera amistà assai chiaro mi mostra quello che alla mia s’appartenga di fare. Tolga via Iddio che mai colei, la quale Egli sì come a più degno ha a te donata, che io da te la riceva per mia. Se Egli avesse veduto che a me si convenisse costei, né tu né altri dee credere che mai a te conceduta l’avesse. Usa adunque lieto la tua elezione e il discreto consiglio e il suo dono, e me nelle lagrime, le quali Egli sì come a indegno di tanto bene m’ha apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò e saratti caro, o esse me vinceranno e sarò fuor di pena.»

Al quale Gisippo disse: «Tito, se la nostra amistà mi può concedere tanto di licenzia, che io a seguire un mio piacer ti sforzi e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello in che io sommamente intendo d’usarla: e dove tu non condiscenda piacevole a’ prieghi miei, con quella forza che ne’ beni dello amico usar si dee farò che Sofronia fia tua. Io conosco quanto possono le forze d’amore e so che elle non una volta ma molte hanno a infelice morte gli amanti condotti; e io veggio te sì presso, che tornare adietro né vincere potresti le lagrime ma procedendo vinto verresti meno: al quale io senza alcun dubbio tosto verrei appresso. Adunque, quando per altro io non t’amassi, m’è acciò che io viva cara la vita tua. Sarà adunque Sofronia tua, ché di leggiere altra che così ti piacesse non troverresti; e io, il mio amore leggiermente a un’altra volgendo, avrò te e me contentato. Alla qual cosa forse così liberal non sarei, se così rade o con quella dificultà le mogli si trovasser che si truovan gli amici: e per ciò, potend’io leggerissimamente altra moglie trovare ma non altro amico, io voglio innanzi (non vo’ dir perder lei, ché non la perderò dandola a te, ma a un altro me la transmuterò di bene in meglio) transmutarla che perder te. E per ciò, se alcuna cosa possono in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa afflizion togliendoti, a una ora consoli te e me e con buona speranza ti disponghi a pigliar quella letizia che il tuo caldo amore della cosa amata disidera.»

Come che Tito di consentire a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse e per questo duro stesse ancora, tirandolo da una parte amore e d’altra i conforti di Gisippo sospignendolo, disse: «Ecco, Gisippo, io non so quale io mi dica che io faccia più, o il mio piacere o il tuo, faccendo quello che tu pregando mi di’ che tanto ti piace; e poi che la tua liberalità è tanta che vince la mia debita vergogna, e io il farò. Ma di questo ti rendi certo, che io nol fo come uomo che non conosca me da te ricever non solamente la donna amata ma con quella la vita mia. Facciano gl’iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me, più pietoso di me che io medesimo, adoperi.»

Appresso queste parole disse Gisippo: «Tito, in questa cosa, a volere che effetto abbia, mi par da tenere questa via. Come tu sai, dopo lungo trattato de’ miei parenti e di quei di Sofronia, essa è divenuta mia sposa; e per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la volessi, grandissimo scandalo ne nascerebbe e turberei i suoi e’ miei parenti. Di che niente mi curerei se io per questo vedessi lei dover divenir tua; ma io temo, se io a questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno prestamente a un altro, il qual forse non sarai desso tu , e così tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato. E per ciò mi pare, dove tu sii contento, che io con quello che cominciato ho seguiti avanti, e sì come mia me la meni a casa e faccia le nozze; e tu poi occultamente, sì come noi saprem fare, con lei sì come con tua moglie ti giacerai. Poi a luogo e a tempo manifesteremo il fatto; il quale se lor piacerà, bene starà, se non piacerà, sarà pur fatto, e, non potendo indietro tornare, converrà per forza che sien contenti.»

Piacque a Tito il consiglio: per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette, essendo già Tito guarito e ben disposto; e fatta la festa grande, come fu la notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito e andar via.

Era la camera di Tito a quella di Gisippo congiunta e dell’una si poteva nell’altra andare: per che, essendo Gisippo nella sua camera e ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente andatosene gli disse che con la sua donna s’andasse a coricare. Tito vedendo questo, vinto da vergogna, si volle pentere e recusava l’andata; ma Gisippo, che con intero animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga tencione vel pur mandò. Il quale, come nel letto giunse, presa la giovane quasi come sollazzando chetamente la domandò se sua moglie esser voleva. Ella, credendo lui esser Gisippo, rispose di sì; ond’egli un bello e ricco anello le mise in dito dicendo: «E io voglio esser tuo marito.» E quinci consumato il matrimonio, lungo e amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai s’accorgesse che altro che Gisippo giacesse con lei.

Stando adunque in questi termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio suo padre di questa vita passò: per la qual cosa a lui fu scritto che senza indugio a vedere i fatti suoi a Roma se ne tornasse, e per ciò egli d’andarne e di menarne Sofronia diliberò con Gisippo; il che, senza manifestarle come la cosa stesse, far non si dovea né poteva acconciamente. Laonde, un dì nella camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di ciò Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara. La qual, poi che l’uno e l’altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente cominciò a piagnere sé dello ’nganno di Gisippo ramaricando: e prima che nella casa di Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n’andò a casa il padre suo e quivi a lui e alla madre narrò lo ’nganno il quale ella e eglino da Gisippo ricevuto avevano, affermando sé esser moglie di Tito e non di Gisippo come essi credevano. Questo fu al padre di Sofronia gravissimo, e co’ suoi parenti e con que’ di Gisippo ne fece una lunga e gran querimonia, e furon le novelle e le turbazion molte e grandi. Gisippo era a’ suoi e a que’ di Sofronia in odio, e ciascun diceva lui degno non solamente di riprensione ma d’aspro gastigamento. Ma egli sé onesta cosa aver fatta affermava e da dovernegli esser rendute grazie da’ parenti di Sofronia, avendola a miglior di sé maritata.