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Decameron

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NOVELLA DECIMA

Donno Gianni a instanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene a appiccar la coda, compar Pietro dicendo che non vi voleva coda guasta tutto lo ’ncantamento.

Questa novella dalla reina detta diede un poco da mormorare alle donne e da ridere a’ giovani. Ma poi che ristate furono, Dioneo così cominciò a parlare.

Leggiadre donne, infra molte bianche colombe agiugne più di bellezza un nero corvo che non farebbe un candido cigno; e così tra molti savi alcuna volta un men savio è non solamente accrescere splendore e bellezza alla loro maturità, ma ancora diletto e sollazzo. Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e moderate, io, il quale sento anzi dello scemo che no, faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto più vi debbo esser caro che se con più valore quella facessi divenire più oscura; e per conseguente più largo arbitrio debbo avere in dimostrarvi tal qual io sono, e più pazientemente dee da voi esser sostenuto, che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo che io dirò. Dirovvi adunque una novella non troppo lunga, nella quale comprenderete quanto diligentemente si convengano observare le cose imposte da coloro che alcuna cosa per forza d’incantamento fanno e quanto piccol fallo in quelle commesso ogni cosa guasti dallo ’ncantator fatta.

L’altr’anno fu a Barletta un prete, chiamato donno Gianni di Barolo, il qual, per ciò che povera chiesa aveva, per sostentar la vita sua con una cavalla cominciò a portar mercatantia in qua e in là per le fiere di Puglia e a comperare e a vendere. E così andando, prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava Pietro da Tresanti, che quello medesimo mestiere con un suo asino faceva; e in segno d’amorevolezza e d’amistà, alla guisa pugliese, nol chiamava se non compar Pietro e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava e quivi il teneva seco a albergo e come poteva l’onorava.

Compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti appena bastevole a lui e a una sua giovane e bella moglie e all’asino suo, quante volte donno Gianni in Tresanti capitava tante sel menava a casa, e come poteva, in riconoscimento che da lui in Barletta riceveva, l’onorava. Ma pure al fatto dell’albergo, non avendo compar Pietro se non un piccol letticello nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come voleva, ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di paglia si giacesse. La donna, sappiendo l’onor che il prete faceva al marito a Barletta, era più volte, quando il prete vi veniva, volutasene andare a dormire con una sua vicina, che aveva nome Zita Carapresa di Giudice Leo, acciò che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai voluto.

E tra l’altre volte, una le disse: «Comar Gemmata, non ti tribolar di me, ché io sto bene, per ciò che quando mi piace io fo questa cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa, e poi, quando voglio, la fo diventar cavalla; e per ciò non mi partirei da lei.»

La giovane si maravigliò e credettelo e al marito il disse, agiugnendo: «Se egli è così tuo come tu di’, ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo, che tu possa far cavalla di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e guadagneremo due cotanti? E quando a casa fossimo tornati, mi potresti rifar femina come io sono.»

Compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no, credette questo fatto e accordossi al consiglio e, come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno Gianni che questa cosa gli dovesse insegnare; donno Gianni s’ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza, ma pur non potendo disse: «Ecco, poi che voi pur volete, domattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì e io vi mosterrò come si fa. È il vero che quello che più è malagevole in questa cosa si è l’apiccar la coda, come tu vedrai.»

Compar Pietro e comar Gemmata, a pena avendo la notte dormito con tanto desidero questo fatto aspettavano, come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono donno Gianni, il quale, in camiscia levatosi, venne nella cameretta di compar Pietro e disse: «Io non so al mondo persona a cui io questo facessi se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò: vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi volete che venga fatto.»

Costor dissero di far ciò che egli dicesse: per che donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar Pietro e dissegli: «Guata ben com’io farò, e che tu tenghi bene a mente come io dirò; e guardati, quanto tu hai caro di non guastare ogni cosa, che, per cosa che tu oda o veggia, tu non dica una parola sola; e priega Iddio che la coda s’appichi bene.»

Compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe.

Appresso donno Gianni fece spogliare ignudanata comar Gemmata e fecela stare con le mani e co’ piedi in terra a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa cominciò a dire: «Questa sia bella testa di cavalla»; e toccandole i capelli disse: «Questi sieno belli crini di cavalla»; e poi toccandole le braccia disse: «E queste sieno belle gambe e belli piedi di cavalla»; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su levandosi, disse: «E questo sia bel petto di cavalla»; e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e alle cosce e alle gambe; e ultimamente, niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camiscia e preso il pivuolo col quale egli piantava gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: «E questa sia bella coda di cavalla.»

Compar Pietro, che attentamente infino allora aveva ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e non parendonegli bene disse: «O donno Gianni, io non vi voglio coda, io non vi voglio coda!»

Era già l’umido radicale per lo quale tutte le piante s’appiccano venuto, quando donno Gianni tiratolo indietro disse: «Oimè, compar Pietro, che hai tu fatto? non ti diss’io che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi? La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando hai guasta ogni cosa, né più ci ha modo da poterla rifare oggimai.»

Compar Pietro disse: «Bene sta, io non vi voleva quella coda io: perché non diciavate voi a me: «Falla tu?» e anche l’appiccavate troppo bassa.»

Disse donno Gianni: «Perché tu non l’avresti per la prima volta saputa appiccar sì com’io.»

La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè di buona fé disse al marito: «Bestia che tu se’, perché hai tu guasti li tuoi fatti e’ miei? qual cavalla vedestù mai senza coda? Se m’aiuti Dio, tu se’ povero, ma egli sarebbe mercé che tu fossi molto più.»

Non avendo adunque più modo a dover fare della giovane cavalla, per le parole che dette avea compar Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico; e con donno Gianni insieme n’andò alla fiera di Bitonto né mai più di tal servigio il richiese.

CONCLUSIONE

Quanto di questa novella si ridesse, meglio dalle donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che ancora ne riderà. Ma essendo le novelle finite e il sole già cominciando a intiepidire, e la reina conoscendo il fine della sua signoria esser venuto, in piè levatasi e trattasi la corona, quella in capo mise a Panfilo, il quale solo di così fatto onore restava a onorare, e sorridendo disse: – Signor mio, gran carico ti resta, sì come è l’avere il mio difetto e degli altri che il luogo hanno tenuto che tu tieni, essendo tu l’ultimo, a emendare: di che Idio ti presti grazia, come a me l’ha prestato di farti re.

Panfilo, lietamente l’onor ricevuto, rispose: – La vostra virtù e degli altri miei subditi farà sì, che io, come gli altri sono stati, sarò da lodare —; e secondo il costume de’ suoi predecessori col siniscalco delle cose oportune avendo disposto, alle donne aspettanti si rivolse e disse: – Innamorate donne, la discrezion d’Emilia, nostra reina stata questo giorno, per dare alcun riposo alle vostre forze arbitrio vi diè di ragionare ciò che più vi piacesse; per che, già riposati essendo, giudico che sia bene il ritornare alla legge usata, e per ciò voglio che domane ciascuna di voi pensi di ragionare sopra questo, cioè: di chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa. Queste cose e dicendo e faccendo senza alcun dubbio gli animi vostri ben disposti a valorosamente adoperare accenderà: ché la vita nostra, che altro che brieve esser non può nel mortal corpo, si perpetuerà nella laudevole fama; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le bestie fanno, non serve, dee non solamente desiderare ma con ogni studio cercare e operare.

La tema piacque alla lieta brigata, la quale con licenzia del nuovo re tutta levatasi da sedere, agli usati diletti si diede, ciascuno secondo quello a che più dal desidero era tirato; e così fecero insino all’ora della cena. Alla quale con festa venuti, e serviti diligentemente e con ordine, dopo la fine di quella si levarono a’ balli costumati, e forse mille canzonette più sollazzevoli di parole che di canto maestrevoli avendo cantate, comandò il re a Neifile che una ne cantasse a suo nome; la quale con voce chiara e lieta così piacevolemente e senza indugio incominciò:

 
Io mi son giovinetta, e volentieri
m’allegro e canto en la stagion novella,
merzé d’amore e de’ dolci pensieri.
Io vo pe’ verdi prati riguardando
i bianchi fiori e’ gialli e i vermigli,
le rose in su le spini e’ bianchi gigli,
e tutti quanti gli vo somigliando
al viso di colui che me amando
ha presa e terrà sempre, come quella
ch’altro non ha in disio che’ suoi piaceri.
De’ quai quand’io ne truovo alcun che sia,
al mio parer, ben simile di lui,
il colgo e bascio e parlomi con lui:
e com’io so, così l’anima mia
tututta gli apro e ciò che ’l cor disia:
quindi con altri il metto in ghirlandella
legato co’ miei crin biondi e leggieri.
E quel piacer che di natura il fiore
agli occhi porge, quel simil mel dona
che s’io vedessi la propia persona
che m’ha accesa del suo dolce amore:
quel che mi faccia più il suo odore
esprimer nol potrei con la favella,
ma i sospir ne son testimon veri.
Li quai non escon già mai del mio petto,
come dell’altre donne, aspri né gravi,
ma se ne vengon fuor caldi e soavi
e al mio amor sen vanno nel conspetto:
il qual, come gli sente, a dar diletto
di sé a me si move e viene in quella
ch’i’ son per dir: «Deh! vien, ch’i’ non disperi.»
 

Assai fu e dal re e da tutte le donne comendata la canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per ciò che già molta notte andata n’era, comandò il re che ciascuno per infino al giorno s’andasse a riposare.

 

GIORNATA DECIMA

FINISCE LA NONA GIORNATA DEL DECAMERON: INCOMINCIA LA DECIMA E ULTIMA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI PANFILO, SI RAGIONA DI CHI LIBERALMENTE O VERO MAGNIFICAMENTE ALCUNA COSA OPERASSE INTORNO A’ FATTI D’AMORE O D’ALTRA COSA.


INTRODUZIONE

Ancora eran vermigli certi nuvoletti nell’occidente, essendo già quegli dello oriente nelle loro estremità simili a oro lucentissimi divenuti per li solari raggi che molto loro avvicinandosi li ferieno, quando Panfilo, levatosi, le donne e’ suoi compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove andar potessero al lor diletto, con lento passo si mise innanzi accompagnato da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli; e molte cose della loro futura vita insieme parlando e dicendo e rispondendo, per lungo spazio s’andaron diportando; e data una volta assai lunga, cominciando il sole già troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono. E quivi dintorno alla chiara fonte, fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e poi fra le piacevoli ombre del giardino infino a ora di mangiare s’andarono sollazzando. E poi ch’ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re piacque si ragunarono, e quivi il primo ragionamento comandò il re a Neifile; la quale lietamente così cominciò.

NOVELLA PRIMA

Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi.

Grandissima grazia, onorabili donne, reputar mi debbo che il nostro re me a tanta cosa, come è a raccontar della magnificenzia, m’abbia preposta: la quale, come il sole è di tutto il cielo bellezza e ornamento, è chiarezza e lume di ciascun’altra virtù. Dironne adunque una novelletta assai leggiadra, al mio parere, la quale ramemorarsi per certo non potrà esser se non utile.

Dovete adunque sapere che, tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella nostra città, fu un di quegli, e forse il più da bene, messer Ruggieri de’ Figiovanni; il quale, essendo e ricco e di grande animo e veggendo che, considerata la qualità del vivere e de’ costumi di Toscana, egli in quella dimorando poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per partito di volere un tempo essere appresso a Anfonso re di Spagna, la fama del valore del quale quella di ciascun altro signor trapassava a que’ tempi; e assai onorevolemente in arme e in cavalli e in compagnia a lui se n’andò in Ispagna, e graziosamente fu dal re ricevuto.

Quivi adunque dimorando messer Ruggieri, e splendidamente vivendo e in fatti d’arme maravigliose cose faccendo, assai tosto si fece per valoroso cognoscere. E essendovi già buon tempo dimorato, molto alle maniere del re riguardando, gli parve che esso ora a uno e ora a un altro donasse castella e città e baronie assai poco discretamente, sì come dandole a chi nol valea; e per ciò che a lui, che da quello che egli era si teneva, niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua: per che di partirsi diliberò e al re domandò commiato. Il re gliele concedette, e donogli una delle miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la quale per lo lungo camino che a fare avea fu cara a messere Ruggieri. Appresso questo, commise il re a un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli paresse, s’ingegnasse di cavalcare con messer Ruggieri in guisa che egli non paresse dal re mandato e ogni cosa che egli dicesse di lui raccogliesse sì che ridire gliele sapesse; e l’altra mattina appresso gli comandasse che egli indietro al re tornasse. Il famigliare, stato attento, come messer Ruggieri uscì della terra, così assai acconciamente con lui si fu accompagnato, dandogli a vedere che esso veniva verso Italia.

Cavalcando adunque messer Ruggieri sopra la mula dal re datagli e costui d’una cosa e d’altra parlando, essendo vicino a ora di terza, disse: «Io credo che sia ben fatto che noi diamo stalla a queste bestie.»

E entrati in una stalla, tutte l’altre fuor che la mula stallarono; per che cavalcando avanti, stando sempre lo scudiere attento alle parole del cavaliere, vennero a un fiume e quivi, abeverando le lor bestie, la mula stallò nel fiume; il che veggendo messer Ruggieri disse: «Deh! dolente ti faccia Dio, bestia, ché tu se’ fatta come il signore che a me ti donò.»

Il famigliare questa parola ricolse, e come che molte ne ricogliesse camminando tutto il dì seco, niun’altra se non in somma lode del re dirne gli udì: per che la mattina seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso Toscana, il famigliare gli fece il comandamento del re, per lo quale messer Ruggieri incontanente tornò adietro. E avendo già il re saputo quello che egli della mula aveva detto, fattolsi chiamare, con lieto viso il ricevette e domandollo perché lui alla sua mula avesse assomigliato o vero la mula a lui.

Messer Ruggieri con aperto viso gli disse: «Signor mio, per ciò ve la assomigliai, perché, come voi donate dove non si conviene e dove si converrebbe non date, così ella dove si conveniva non stallò e dove non si convenia sì.»

Allora disse il re: «Messer Ruggieri, il non avervi donato come fatto ho a molti li quali a comparazion di voi da niente sono, non è avvenuto perché io non abbia voi valorosissimo cavalier conosciuto e degno d’ogni gran dono: ma la vostra fortuna, che lasciato non m’ha, in ciò ha peccato e non io. E che io dica vero, io il vi mosterrò manifestamente.»

A cui messer Ruggieri rispose: «Signor mio, io non mi turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io nol desiderava per esser più ricco, ma del non aver voi in alcuna cosa testimonianza renduta alla mia virtù: nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per onesta e son presto di veder ciò che vi piacerà, quantunque io vi creda senza testimonio.»

Menollo adunque il re in una sua gran sala, dove, sì come egli davanti aveva ordinato, erano due gran forzieri serrati, e in presenzia di molti gli disse: «Messer Ruggieri, nell’uno di questi forzieri è la mia corona, la verga reale e ’l pomo e molte mie belle cinture, fermagli, anella e ogn’altra cara gioia che io ho: l’altro è pieno di terra. Prendete adunque l’uno, e quello che preso avrete si sia vostro, e potrete vedere chi è stato verso il vostro valore ingrato, o io o la vostra fortuna.»

Messer Ruggieri, poscia che vide così piacere al re, prese l’uno, il quale il re comandò che fosse aperto, e trovossi esser quello che era pien di terra; laonde il re ridendo disse: «Ben potete vedere, messer Ruggieri, che quello è vero che io vi dico della fortuna; ma certo il vostro valor merita che io m’opponga alle sue forze. Io so che voi non avete animo di divenire spagnuolo, e per ciò non vi voglio qua donare né castel né città, ma quel forziere che la fortuna vi tolse, quello in dispetto di lei voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade nel possiate portare e della vostra virtù con la testimonianza de’ miei doni meritamente gloriar vi possiate co’ vostri vicini.»

Messer Ruggeri, presolo e quelle grazie rendute al re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se ne ritornò in Toscana.

NOVELLA SECONDA

Ghino di Tacco piglia l’abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui rinconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale.

Lodata era già stata la magnificenzia del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando il re, al quale molto era piaciuta, a Elissa impose che seguitasse; la quale prestamente incominciò.

Dilicate donne, l’essere stato un re magnifico e l’avere la sua magnificenzia usata verso colui che servito l’avea non si può dire che laudevole e gran cosa non sia: ma che direm noi se si racconterà un cherico aver mirabil magnificenzia usata verso persona che, se inimicato l’avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo non altro se non che quella del re fosse virtù e quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo più che le femine sieno, e d’ogni liberalità nimici a spada tratta: e quantunque ogn’uomo naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienzia predichino e sommamente la rimession delle offese commendino, più focosamente che gli altri uomini a quella discorrono. La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto.

Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santafiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma: e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l’abate di Clignì, il quale si crede essere un de’ più ricchi prelati del mondo; e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’ medici consigliato che egli andasse a’ bagni di Siena e guerirebbe senza fallo; per la qual cosa, concedutogliele il Papa, senza curar della fama di Ghino con gran pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in camino.

Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti e senza perderne un sol ragazzetto l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse; e questo fatto, un de’ suoi, il più saccente, bene accompagnato mandò allo abate, al quale da parte di lui assai amorevolmente gli disse che gli dovesse piacere d’andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente aveva a fare, ma che egli andrebbe avanti e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse.

Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse: «Messere, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo.»

Era già, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato: per che l’abate, co’ suoi preso veggendosi, disdegnoso forte con l’ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui; e smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d’un palagio assai obscura e disagiata, e ogn’altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai bene adagiato, e i cavalli e tutto l’arnese messo in salvo senza alcuna cosa toccarne.

E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli: «Messere, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significarli dove voi andavate e per qual cagione.»

L’abate che, come savio, aveva l’altierezza giù posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì e pensossi di volerlo guerire senza bagno: e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina, e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dello abate medesimo; e sì disse all’abate: «Messer, quando Ghino era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi.»

 

L’abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, sì mangiò il pane e bevve la vernaccia e poi molte cose altiere disse e dimolte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sì come vane e a alcuna assai cortesemente rispose, affermando che, come Ghino più tosto potesse, il visiterebbe; e questo detto da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne più giorni, tanto che egli s’accorse l’abate aver mangiate fave secche le quali egli studiosamente e di nascoso portate v’aveva e lasciate.

Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: «A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento ho maggior che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito.»

Ghino adunque, avendogli de’ suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n’andò la mattina seguente e dissegli: «Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria»; e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co’ suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese.

L’abate co’ suoi alquanto si ricreò e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino; ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere. Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire e in una corte che di sotto a quella era tutti i suoi cavalli infino al più misero ronzino, allo abate se n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare; a cui l’abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino.

Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta: e fattolo a una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere disse: «Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero e avere molti e possenti nimici hanno, per potere la sua vita difendere e la sua nobiltà, e non malvagità d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, a essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse: ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere: e per ciò e la parte e ’l tutto come vi piace prendete, e da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro.»

Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere: e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse a abbracciar dicendo: «Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistà d’uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costrigne!» E appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime e oportune prendere e de’ cavalli similemente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò.

Aveva il Papa saputa la presura dello abate: e come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro: al quale l’abate sorridendo rispose: «Santo Padre, io trovai più vicino che’ bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha»; e contogli il modo, di che il Papa rise: al quale l’abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia.

Il Papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse; allora l’abate disse: «Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de’ più, e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo: la qual se voi con alcuna cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare.»

Il Papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino, fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del Papa fu che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere; la quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse.