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Decameron

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La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s’avicinò al dì e cominciò l’alba a apparire; per la qual cosa la fante della donna ammaestrata scesa giù aperse la corte, e mostrando d’aver compassion di costui disse: «Mala ventura possa egli avere che iersera ci venne! Egli n’ha tutta notte tenuta in bistento e te ha fatto agghiacciare: ma sai che? Portatelo in pace, ché quello che stanotte non è potuto essere sarà un’altra volta: so io bene che cosa non potrebbe essere avvenuta che tanto fosse dispiaciuta a madonna.»

Lo scolare isdegnoso, sì come savio il qual sapeva niuna altra cosa le minacce essere che arme del minacciato, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata volontà s’ingegnava di mandar fuori; e con voce sommessa, senza punto mostrarsi crucciato, disse: «Nel vero io ho avuta la piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha la donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa di me, infin qua giù venne a scusar sé e a confortar me; e come tu di’, quello che stanotte non è stato sarà un’altra volta: raccomandalemi e fatti con Dio.»

E quasi tutto rattrappato, come poté a casa sua se ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto delle braccia e delle gambe si destò; per che, mandato per alcun medico e dettogli il freddo che avuto avea, alla sua salute fé provedere. Li medici con grandissimi argomenti e con presti aiutandolo appena dopo alquanto di tempo il poterono de’ nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che egli era giovane e sopraveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da sostenere. Ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua.

Ora avvenne, dopo certo spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che dalla vedova era amato, non avendo alcun riguardo allo amor da lei portatogli, innamorato d’un’altra donna e non volendo né poco né molto dire né fare cosa che a lei fosse a piacere, essa in lagrime e in amaritudine si consumava. Ma la sua fante, la quale gran compassion le portava, non trovando modo da levare la sua donna dal dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato per la contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l’amante della donna sua a amarla come far solea si dovesse potere riducere per alcuna nigromantica operazione e che di ciò lo scolare dovesse esser gran maestro; e disselo alla sua donna. La donna poco savia, senza pensare che se lo scolare saputa avesse nigromantia per sé adoperata l’avrebbe, pose l’animo alle parole della sua fante, e subitamente le disse che da lui sapesse se fare il volesse e sicuramente gli promettesse che, per merito di ciò, ella farebbe ciò che a lui piacesse.

La fante fece l’ambasciata bene e diligentemente; la quale udendo lo scolare, tutto lieto seco medesimo disse: «Idio, lodato sie tu: venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del grande amore che io le portava»; e alla fante disse: «Dirai alla mia donna che di questo non stea in pensiero, ché, se il suo amante fosse in India, io gliele farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo piacere avesse fatto: ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò attendo di dire a lei quando e dove più le piacerà: e così le di’ e da mia parte la conforta.» La fante fece la risposta, e ordinossi che in Santa Lucia dal Prato fossero insieme.

Quivi venuta la donna e lo scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che disiderava e pregollo per la sua salute; a cui lo scolar disse: «Madonna, egli è il vero che tra l’altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della quale per certo io so ciò che n’è; ma per ciò che ella è di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai, né per me né per altrui, d’adoperarla. E il vero che l’amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa del diavolo, sì son presto di farlo poi che vi piace. Ma io vi ricordo che ella è più malagevole cosa a fare che voi per avventura non v’avisate, e massimamente quando una donna vuole rivocare uno uomo a amar sé o l’uomo una donna, per ciò che questo non si può fare se non per la propria persona a cui appartiene; e a far ciò convien che chi fa sia di sicuro animo, per ciò che di notte si convien fare e in luoghi solitarii e senza compagnia: le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta.»

A cui la donna, più innamorata che savia, rispose: «Amor mi sprona per sì fatta maniera, che niuna cosa è la quale io non facessi per riavere colui che a torto m’ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in che mi convenga esser sicura.»

Lo scolare, che di mal pelo avea taccata la coda, disse: «Madonna, a me converrà fare una imagine di stagno in nome di colui il quale voi disiderate di racquistare: la quale quando io v’avrò mandata, converrà che voi, essendo la luna molto scema, ignuda in un fiume vivo, in sul primo sonno e tutta sola, sette volte con lei vi bagniate; e appresso così ignuda n’andiate sopra a uno albero o sopra una qualche casa disabitata, e volta a tramontana con la imagine in mano sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte, le quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle delle più belle che voi vedeste mai e sì vi saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quello che voi vogliate che si faccia. A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disideri vostri (e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro), e come detto l’avrete, elle si partiranno e voi ve ne potrete scendere al luogo dove i vostri panni avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a casa. E per certo egli non sarà mezza la seguente notte che il vostro amante piagnendo vi verrà a dimandar mercé e misericordia: e sappiate che mai da questa ora innanzi egli per alcuna altra non vi lascerà.»

La donna, udendo queste cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle braccia, mezza lieta divenuta disse: «Non dubitare, che queste cose farò io troppo bene; e ho il più bel destro da ciò del mondo, ché io ho un podere verso il Valdarno di sopra, il quale è assai vicino alla riva del fiume; e egli è testé di luglio, che sarà il bagnarsi dilettevole, E ancora mi ricorda essere non guari lontana dal fiume una torricella disabitata, se non che per cotali scale di castagnuoli che vi sono salgono alcuna volta i pastori sopra un battuto che v’è a guatar di lor bestie smarrite, luogo molto solingo e fuor di mano; sopra la quale io saglirò e quivi il meglio del mondo spero di fare quello che m’imporrai.»

Lo scolare, che ottimamente sapeva e il luogo della donna e la torricella, contento d’esser certificato della sua intenzion disse: «Madonna, io non fui mai in coteste contrade e per ciò non so il podere né la torricella; ma se così sta come voi dite, non può essere al mondo migliore. E per ciò, quando tempo sarà, vi manderò la imagine e l’orazione; ma ben vi priego che, quando il vostro disiderio avrete e conoscerete che io v’avrò ben servita, che vi ricordi di me e d’attenermi lo promesso.» A cui la donna disse di farlo senza alcun fallo; e preso da lui commiato se ne tornò a casa.

Lo scolar, lieto di ciò che il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con sue cateratte e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo gli parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la notte vegnente senza più indugio dovesse far quello che detto l’avea; e appresso segretamente con un suo fante se n’andò a casa d’un suo amico, che assai vicino stava alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto.

La donna d’altra parte con la sua fante si mise in via e al suo poder se n’andò; e come la notte fu venuta, vista faccendo d’andarsi a letto, la fante ne mandò a dormire; e in su l’ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d’Arno se n’andò, e molto da torno guatatosi, né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine in mano verso la torricella n’andò. Lo scolare, il quale in sul fare della notte col suo fante tra salci e altri alberi presso della torricella nascoso s’era e aveva tutte queste cose veduto, e passandogli ella quasi allato così ignuda e egli veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte e appresso riguardandole il petto e l’altre parti del corpo e vedendole belle e seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione; e d’altra parte lo stimolo della carne l’assalì subitamente e fece tale in piè levare che si giaceva e confortavalo che egli da guato uscisse e lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse: e vicin fu a essere tra dall’uno e dall’altro vinto. Ma nella memoria tornandosi chi egli era e qual fosse la ’l ngiuria ricevuta e perché e da cui, e per ciò nello sdegno raccesosi e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento fermo e lasciolla andare. La donna, montata in su la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dir le parole datele dallo scolare; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era e appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare.

La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò a aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l’aspettare, senza che fresco le faceva troppo più che voluto non avrebbe, ella vide l’aurora apparire; per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto l’avea, seco disse: «Io temo che costui non m’abbia voluta dare una notte chente io diedi a lui; ma se per ciò questo m’ha fatto, mal s’è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che fu la sua , senza che il freddo fu d’altra qualità.» E perché il giorno quivi non la cogliesse cominciò a volere smontar della torre, ma ella trovò non esservi la scala. Allora, quasi come se il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l’animo e vinta cadde sopra il battuto della torre. E poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s’incominciò a ramaricare d’avere altrui offeso e appresso d’essersi troppo fidata di colui il quale ella doveva meritamente creder nemico; e in ciò stette lunghissimo spazio.

 

Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e non veggendola, rincominciato il pianto, entrò in uno amaro pensiero a se stessa dicendo: «O sventurata, che si dirà da’ tuoi fratelli, da’ parenti e da’ vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestà, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste cose trovare scuse bugiarde, che pur ce ne avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerà mentire. Ahi misera te, che a un’ora avrai perduto il male amato giovane e il tuo onore!» E dopo queste venne in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra.

Ma essendosi già levato il sole e ella alquanto più dall’una delle parti più al muro accostatosi della torre, guardando se alcun fanciullo quivi con le bestie s’accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare, avendo a piè d’un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide e ella lui; alla quale lo scolar disse: «Buon dì, madonna: sono ancora venute le damigelle?»

La donna, vedendolo e udendolo, rincominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che essa potesse parlargli. Lo scolare le fu di questo assai cortese.

La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di quello e piagnendo disse: «Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte, tu ti se’ ben di me vendicato, per ciò che, quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte stando ignuda assiderare: senza che io ho tanto pianto e lo ’nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi. E per ciò io ti priego, non per amor di me, la quale tu amar non dei, ma per amor di te, che se’ gentile uomo, che ti basti per vendetta della ingiuria la quale io ti feci quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i miei panni recare e che io possa di qua su discendere. E non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo render non mi potresti, cioè l’onor mio: ché, se io tolsi a te l’esser con meco quella notte, io, ognora che a grado ti fia, te ne posso render molte per quella una. Bastiti adunque questo: e, come a valente uomo, sieti assai l’esserti potuto vendicare e l’averlomi fatto conoscere. Non voler le tue forze contro a una femina essercitare: niuna gloria è a una aquila l’aver vinta una colomba; dunque, per l’amor di Dio e per onor di te, t’incresca di me.»

Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo e veggendo piagnere e pregare, a un’ora aveva piacere e noia nell’animo: piacere della vendetta la quale più che altra cosa disiderata avea, e noia sentiva movendolo la umanità sua a compassion della misera; ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza dell’appetito, rispose: «Madonna Elena, se i miei prieghi, li quali nel vero io non seppi bagnar di lagrime né far melati come tu ora sai porgere i tuoi, m’avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te purè un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi essaudire; ma se cotanto ora più che per lo passato del tuo onor ti cale e ètti grave il costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t’increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, e a lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala per la qual tu scenda, in lui t’ingegna di metter tenerezza del tuo onore, per cui quel medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in periglio. Come nol chiami tu che ti venga a aiutare? e a cui appartiene egli più che a lui? Tu se’ sua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non guarda e aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se’, e pruova se l’amore il quale tu gli porti e il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare; la qual, sollazzando con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza o l’amor che tu gli portavi. Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero né negare il mi puoi se io il disiderassi: al tuo amante le tue notti riserba, se egli avvien che tu di qui viva ti parti: tue si sieno e di lui: io n’ebbi troppo d’una, e bastimi d’essere stato una volta schernito. E ancora, la tua astuzia usando nel favellare, t’ingegni col commendarmi la mia benivolenzia acquistare e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente che io come magnanimo mi ritragga dal punirti della tua malvagità t’ingegni di fare; ma le tue lusinghe non m’adombreranno ora gli occhi dello ’ntelletto, come già fecero le tue disleali promessioni: io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere. Ma presupposto che io pur magnanimo fossi, non se’ tu di quelle in cui la magnanimità debba i suoi effetti mostrare: la fine della penitenza nelle salvatiche fiere come tu se’, e similmente della vendetta, vuole essere la morte, dove negli uomini quello dee bastare che tu dicesti. Per che, quantunque io aquila non sia, te non colomba, ma velenosa serpe conoscendo, come antichissimo nemico con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che questo che io ti fo non si possa assai propriamente vendetta chiamare ma più tosto gastigamento, in quanto la vendetta dee trapassar l’offesa, e questo non v’agiugnerà: per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito tu ponesti l’anima mia, la tua vita non mi basterebbe togliendolati, né cento altre alla tua simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva e rea feminetta. E da che diavol, togliendo via cotesto tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno riempiendolo di crespe, se’ tu più che qualunque altra dolorosetta fante? dove per te non rimase di far morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrà più in un dì essere utile al mondo che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dee. Insegnerotti adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini che hanno alcun sentimento e che cosa sia lo schernir gli scolari; e darotti materia di giammai più in tal follia non cader, se tu campi. Ma se tu n’hai così gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E a un’ora con l’aiuto di Dio, fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti pare e me farai il più lieto uom del mondo. Ora io non ti vo’ dir più: io seppi tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu ora tanto fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare.»

Parte che lo scolare questo diceva, la misera donna piagneva continuo e il tempo se n’andava, sagliendo tuttavia il sol più alto; ma poi che ella il sentì tacer, disse: «Deh! crudele uomo, se egli ti fu tanto la maladetta notte grave e parveti il fallo mio così grande, che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l’essermi di te nuovamente fidata e l’averti ogni mio segreto scoperto col quale ho data via al tuo disidero in potermi fare del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza fidarmi io di te, niuna via fosse a te a poterti di me vendicare, il che tu mostri con tanto ardore aver disiderato. Deh, lascia l’ira tua e perdonami omai! io sono, quando tu perdonar mi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia d’abandonare del tutto il disleal giovane e te solo avere per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia bellezza biasimi brieve e poco cara mostrandola; la quale, chente che ella, insieme con quella dell’altre, si sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, sì è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della giovanezza degli uomini: e tu non se’ vecchio. E quantunque io crudelmente da te trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare così disonesta morte come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata quinci giù dinanzi agli occhi tuoi, a’ quali, se tu bugiardo non eri come se’ diventato, già piacqui cotanto. Deh, increscati di me per Dio e per pietà! il sole s’incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo fresco questa notte m’offese, così il caldo m’incomincia a far grandissima noia.»

A cui lo scolare, che a diletto la teneva a parole, rispose: «Madonna, la tua fede non si rimise ora nelle mie mani per amore che tu mi portassi ma per racquistar quello che tu perduto avevi, e per ciò niuna cosa merita altro che maggior male: e mattamente credi, se tu credi questa sola via, senza più, essere alla disiderata vendetta da me oportuna stata. Io n’aveva mille altre, e mille lacciuoli col mostrar d’amarti t’aveva tesi intorno a’ piedi, né guari di tempo era a andare, che di necessità, se questo avvenuto non fosse, ti conveniva in uno incappare, né potevi incappare in alcuno, che in maggior pena e vergogna che questa non ti fia caduta non fossi: e questo presi non per agevolarti, ma per esser più tosto lieto. E dove tutti mancati mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose di te scritte avrei e in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute, ché l’avresti, avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser nata. Le forze della penna son troppo maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno. Io giuro a Dio (e se Egli di questa vendetta che io di te prendo mi faccia allegro infin la fine come nel cominciamento m’ha fatto) che io avrei di te scritte cose che, non che dell’altre persone ma di te stessa vergognandoti, per non poterti vedere t’avresti cavati gli occhi: e per ciò non rimproverare al mare d’averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto. Del tuo amore o che tu sii mia, non ho io, come già dissi, alcuna cura: sieti pur di colui di cui stata se’, se tu puoi; il quale come io già odiai, così al presente amo riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato. Voi v’andate innamorando e disiderate l’amor de’ giovani, per ciò che alquanto con le carni più vive e con le barbe più nere gli vedete e sopra sé andare e carolare e giostrare: le quali cose tutte ebber coloro che più alquanto attempati sono e quel sanno che coloro hanno a imparare. E oltre a ciò gli stimate miglior cavalieri e far di più miglia le lor giornate che gli uomini più maturi. Certo io confesso che essi con maggior forza scuotano i pilliccioni, ma gli attempati, sì come esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci, e di gran lunga è da elegger più tosto il poco e saporito che il molto e insipido; e il trottar forte rompe e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente andare, ancora che alquanto più tardi altrui meni all’albergo, egli vi conduce almen riposato. Voi non v’accorgete, animali senza intelletto, quanto di male sotto quella poca di bella apparenza stea nascoso. Non sono i giovani d’una contenti, ma quante ne veggono tante ne disiderano, di tante par loro esser degni; per che esser non può stabile il loro amore, e tu ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia. E par loro esser degni d’esser reveriti e careggiati dalle lor donne, né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute: il qual fallo già sotto a’ frati, che nol ridicono, ne mise molte. Benché tu dichi che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua fante e io, tu il sai male e mal credi se così credi: la sua contrada quasi di niuna altra cosa ragiona, e la tua; ma le più volte è l’ultimo, a cui cotali cose agli orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono. Essi ancora vi rubano, dove dagli attempati v’è donato. Tu adunque, che male eleggesti, sieti di colui a cui tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia stare a altrui, ché io ho trovata donna da molto più che tu non se’, che meglio m’ha conosciuto che tu non facesti. E acciò che tu del desidero degli occhi miei possi maggior certezza nell’altro mondo portare che non mostra che tu in questo prenda dalle mie parole, gittati giù pur tosto, e l’anima tua, sì come io credo già ricevuta nelle braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d’averti veduta strabocchevolmente cadere si seranno turbati o no. Ma per ciò che io credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a scaldare, ricordati del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato.»

 

La sconsolata donna, veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare, rincominciò a piagnere e disse: «Ecco, poi che niuna mia cosa di me a pietà ti muove, muovati l’amore il qual tu porti a quella donna che più savia di me di’ che hai trovata e da cui tu di’ che se’ amato: e per amor di lei mi perdona e i miei panni mi reca, ché io rivestir mi possa, e quinci mi fa smontare.»

Lo scolare allora cominciò a ridere; e veggendo che già la terza era di buona ora passata rispose: «Ecco, io non so ora dir di no, per tal donna me n’hai pregato: insegnamegli e io andrò per essi e farotti di costà su scendere.»

La donna, ciò credendo, alquanto si riconfortò e insegnogli il luogo dove aveva i panni posti. Lo scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi non si partisse anzi vi stesse vicino e a suo poter guardasse che alcuno non v’intrasse dentro infino a tanto che egli tornato fosse: e questo detto, se n’andò a casa del suo amico e quivi a grande agio desinò e appresso, quando ora gli parve, s’andò a dormire.

La donna, sopra la torre rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre misura dolente si dirizzò a sedere e a quella parte del muro dove un poco d’ombra era s’accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi pensieri a aspettare: e ora pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or disperando della tornata dello scolar co’ panni, e d’un pensiero in altro saltando, sì come quella che dal dolore era vinta e che niente la notte passata aveva dormito, s’adormentò. Il sole, il quale era ferventissimo essendo già al mezzogiorno salito, feriva alla scoperta e al diritto sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea ma quelle minuto minuto tutte l’aperse; e fu la cottura tale, che lei che profondamente dormiva costrinse a destarsi.

E sentendosi cuocere e alquanto movendosi, parve nel muoversi che tutta la cotta pelle le s’aprisse e ischiantasse, come veggiamo avvenire d’una carta di pecora abrusciata se altri la tira: e oltre a questo, le doleva sì forte la testa, che pareva che le si spezzasse: il che niuna maraviglia era. E il battuto della torre era fervente tanto, che ella né co’ piè né con altro vi poteva trovar luogo: per che, senza star ferma, or qua or là si tramutava piagnendo. E oltre a questo, non faccendo punto di vento, v’erano mosche e tafani in grandissima quantità abbondati, li quali, pognendolesi sopra le carni aperte, sì fieramente la stimolavano, che ciascuna le pareva una puntura d’uno spuntone: per che ella di menare le mani attorno non restava niente, sé, la sua vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo. E così essendo dal caldo inestimabile, dal sole, dalle mosche e da’ tafani, e ancor dalla fame ma molto più dalla sete e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata e trafitta, in piè drizzata cominciò a guardare se vicin di sé o vedesse o udisse alcuna persona, disposta del tutto, che che avvenire ne gli dovesse, di chiamarla e di domandare aiuto. Ma anche questo l’aveva la sua nemica fortuna tolto.

I lavoratori eran tutti partiti de’ campi per lo caldo, avvegna che quel dì niuno ivi appresso era andato a lavorare, sì come quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano: per che niuna altra cosa udiva che cicale e vedeva Arno, il quale, porgendole disiderio delle sue acque, non iscemava la sete ma l’acresceva. Vedeva ancora in più luoghi boschi e ombre e case, le quali tutte similmente l’erano angoscia disiderando. Che direm più della sventurata vedova? Il sol di sopra e il fervor del battuto di sotto e le trafitture delle mosche e de’ tafani da lato sì per tutto l’avean concia, che ella, dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre, allora rossa divenuta come rabbia e tutta di sangue chiazzata, sarebbe paruta a chi veduta l’avesse la più brutta cosa del mondo.

E così dimorando costei, senza consiglio alcuno o speranza, più la morte aspettando che altro, essendo già la mezza nona passata, lo scolare, da dormir levatosi e della sua donna ricordandosi, per vedere che di lei fosse se ne tornò alla torre e il suo fante che ancora era digiuno ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna sentito, debole e della grave noia angosciosa, venne sopra la cateratta e postasi a sedere piangendo cominciò a dire: «Rinieri, ben ti se’ oltre misura vendico, ché, se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, e oltre a ciò di fame e di sete morire: per che io ti priego per solo Idio che qua su salghi e, poi che a me non soffera il cuore di dare a me stessa la morte, dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e tale è il tormento che io sento. E se tu questa grazia non mi vuoi fare, almeno un bicchier d’acqua mi fa venire che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano le mie lagrime, tanta è l’asciugaggine e l’arsura la quale io v’ho dentro.»

Ben conobbe lo scolare alla voce la sua debolezza e ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli venne di lei; ma non per tanto rispose: «Malvagia donna, delle mie mani non morrai tu già, tu morrai pur delle tue, se voglia te ne verrà; e tanta acqua avrai da me a sollenamento del tuo caldo, quanto fuoco io ebbi da te a alleggiamento del mio freddo. Di tanto mi dolgo forte, che la infermità del mio freddo col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove quella del tuo caldo col freddo della odorifera acqua rosa si curerà; e dove io per perdere i nervi e la persona fui, tu da questo caldo scorticata non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio cuoio.»

«O misera me!» disse la donna «queste bellezze in così fatta guisa acquistate dea Idio a quelle persone che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che più doveva io aspettar da te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti avessi uccisi? Certo io non so qual maggior crudeltà si fosse potuta usare in un traditore che tutta una città avesse messa a uccisione, che quella alla qual tu m’hai posta a farmi arrostire al sole e manicare alle mosche: e oltre a questo non un bicchier d’acqua volermi dare, che a’ micidiali dannati dalla ragione, andando essi alla morte, è dato ber molte volte del vino pur che essi ne domandino. Ora ecco, poscia che io veggio te star fermo nella tua acerba crudeltà né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi disporrò alla morte ricevere, acciò che Idio abbia misericordia dell’anima mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion riguardi.» E queste parole dette, sì trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di dovere da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre agli altri suoi dolori, credette di sete spasimare, tuttavia piagnendo forte e della sua sciagura dolendosi.