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Decameron

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NOVELLA QUINTA

Tre giovani traggono le brache a un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.

Fatto aveva Emilia fine al suo ragionamento, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando la reina a Filostrato guardando disse: – A te viene ora il dover dire. – Per la qual cosa egli prestamente rispose sé essere apparecchiato, e cominciò.

Dilettose donne, il giovane che Elissa poco avanti nominò, cioè Maso del Saggio, mi farà lasciare stare una novella la quale io di dire intendeva, per dirne una di lui e d’alcuni suoi compagni: la quale ancora che disonesta non sia per ciò che vocaboli in essa s’usano che voi d’usar vi vergognate, nondimeno è ella tanto da ridere, che io la pur dirò.

Come voi tutte potete avere udito, nella nostra città vegnono molto spesso rettori marchigiani, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria: e per questa loro innata miseria e avarizia menan seco e giudici e notari che paiono uomini levati più tosto dall’aratro o tratti dalla calzoleria, che delle scuole delle leggi. Ora, essendovene venuto uno per podestà, tra gli altri molti giudici che seco menò, ne menò uno il quale si facea chiamare messer Niccola da San Lepidio, il quale pareva più tosto un magnano che altro a vedere, e fu posto costui tra gli altri giudici a udire le quistion criminali. E come spesso avviene che, bene che i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a Palagio, pur talvolta vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d’un suo amico, v’andò; e venutogli guardato là dove questo messer Nicola sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone, tutto il venne considerando. E come che egli gli vedesse il vaio tutto affummicato in capo e un pennaiuolo a cintola e più lunga la gonnella che la guarnacca e assai altre cose tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra queste una, ch’è più notabile che alcuna dell’altre al parer suo, ne gli vide, e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro infino a mezza gamba gli agiugnea.

Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quello che andava cercando, incominciò a far cerca nuova; e trovò due suoi compagni, de’ quali l’uno aveva nome Ribi e l’altro Matteuzzo, uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso, e disse loro: «Se vi cal di me, venite meco infino a Palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo che voi vedeste mai.»

E con loro andatisene in Palagio, mostrò loro questo giudice e le brache sue. Costoro dalla lungi cominciarono a ridere di questo fatto: e fattisi più vicini alle panche sopra le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto leggiermente si poteva andare, e oltre a ciò videro rotta l’asse sopra la quale messer lo giudicio teneva i piedi, tanto che a grande agio vi si poteva mettere la mano e ’l braccio.

E allora Maso disse a’ compagni: «Io voglio che noi gli traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene.»

Aveva già ciascun de’ compagni veduto come: per che, fra sé ordinato che dovessero fare e dire, la seguente mattina vi ritornarono: e essendo la corte molto piena d’uomini, Matteuzzo, che persona non se ne avvide, entrò sotto il banco e andossene a punto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi.

Maso, dall’un de’ lati accostatosi a messer lo giudice, il prese per Io lembo della guarnacca; e Ribi accostatosi dall’altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire: «Messer, o messere: io vi priego per Dio che, innanzi che cotesto ladroncello, che v’è costì dallato, vada altrove, che voi mi facciate rendere un mio paio d’uose le quali egli m’ha imbolate, e dice pur di no; e io il vidi, non è ancora un mese, che le faceva risolare.»

Ribi dall’altra parte gridava forte: «Messere, non gli credete, ché egli è un ghiottoncello; e perché egli sa che io son venuto a richiamarmi di lui d’una valigia la quale egli m’ha imbolata, è egli testé venuto e dice dell’uose, che io m’aveva in casa infin vie l’altrieri; e se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia la trecca mia da lato e la Grassa ventraiuola e uno che va ricogliendo la spazzatura da Santa Maria a Verzaia, che ’l vide quando egli tornava di villa.»

Maso d’altra parte non lasciava dire a Ribi, anzi gridava, e Ribi gridava ancora. E mentre che il giudice stava ritto e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo, mise la mano per lo rotto dell’asse e pigliò il fondo delle brache del giudice e tirò giù forte: le brache ne venner giuso incontanente, per ciò che il giudice era magro e sgroppato. Il quale, questo fatto sentendo e non sappiendo che ciò si fosse, volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall’un lato e Ribi dall’altro pur tenendolo e gridando forte: «Messer, voi fate villania a non farmi ragione e non volermi udire e volervene andare altrove; di così piccola cosa, come questa è, non si dà libello in questa terra», e tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti nella corte n’erano s’accorsero essergli state tratte le brache. Ma Matteuzzo, poi che alquanto tenute l’ebbe, lasciatele, se ne uscì fuori e andossene senza esser veduto.

Ribi, parendogli avere assai fatto, disse: «Io fo boto a Dio d’aiutarmene al sindacato!»

E Maso d’altra parte, lasciatagli la guarnacca, disse: «No, io ci pur verrò tante volte, che io non vi troverò così impacciato come voi siete paruto stamane», e l’uno in qua e l’altro in là, come più tosto poterono, si partirono.

Messer lo giudice, tirate in su le brache in presenza d’ogni uomo, come se da dormir si levasse, accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli che dell’uose e della valigia avevan quistione; ma non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio che e’ gli conveniva cognoscere e saper se egli s’usava a Firenze di trarre le brache a’ giudici quando sedevano al banco della ragione. Il podestà d’altra parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio: poi per suoi amici mostratogli che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentin conoscevano che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per averne miglior mercato, per lo migliore si tacque, né più avanti andò la cosa per quella volta.

NOVELLA SESTA

Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienza da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l’una dopo l’altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l’abbia avuto egli stesso: fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.

Non ebbe prima la novella di Filostrato fine, della quale molto si rise, che la reina a Filomena impose che seguitando dicesse; la quale incominciò.

Graziose donne, come Filostrato fu dal nome di Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui udita avete, così né più né men son tirata io da quello di Calandrino e de’ compagni suoi a dirne un’altra di loro, la qual, sì come io credo, vi piacerà.

Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l’avete di sopra udito: e per ciò, più avanti faccendomi, dico che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontan da Firenze, che in dote aveva avuto dalla moglie, del quale, tra l’altre cose che su vi ricoglieva, n’aveva ogni anno un porco; e era sua usanza sempre colà di dicembre d’andarsene la moglie e egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.

Ora avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo a uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco e sappiendo che la moglie di lui non v’andava, se n’andarono a un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì. Aveva Calandrino, la mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco; e vedendogli col prete, gli chiamò e disse: «Voi siate i ben venuti: io voglio che voi veggiate che massaio io sono»; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco.

Videro costoro il porco esser bellissimo e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare; a cui Brun disse: «Deh! come tu se’ grosso! Vendilo e godianci i denari e a mogliata dì che ti sia stato imbolato.»

Calandrin disse: «No, ella nol crederebbe, e caccerebbomi fuor di casa: non v’impacciate, ché io nol farei mai.»

Le parole furono assai ma niente montarono. Calandrino gl’invitò a cena cotale alla trista, sì che costor non vi vollon cenare e partirsi da lui.

Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?»

Disse Buffalmacco: «O come potremmo noi?»

Disse Bruno: «Il come ho io ben veduto, se egli nol muta di là ove egli era testé.»

«Adunque» disse Buffalmacco «faccianlo; perché nol faremmo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col domine.»

Il prete disse che gli era molto caro; disse allora Bruno: «Qui si vuole usare un poco d’arte. Tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga: andiamo e menianlo alla taverna; quivi il prete faccia vista di pagar tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla: egli si ciurmerà, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che egli è solo in casa.»

Come Brun disse, così fecero. Calandrino, veggendo che il prete non lo lasciava pagare, si diede in sul bere, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene: e essendo già buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare, se n’entrò in casa, e credendosi aver serrato l’uscio il lasciò aperto e andossi a letto. Buffalmacco e Bruno se n’andarono a cenar col prete: e, come cenato ebbero, presi loro argomenti per entrare in casa Calandrino là onde Bruno aveva divisato, là chetamente n’andarono; ma trovando aperto l’uscio, entraron dentro e ispiccato il porco via a casa del prete nel portarono e, ripostolo, se n’andarono a dormire.

 

Calandrino, essendogli il vino uscito dal capo, si levò la mattina; e come scese giù guardò e non vide il porco suo e vide l’uscio aperto: per che, domandato quello e quell’altro se sapessero chi il porco s’avesse avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romor grande: oisé, dolente sé, che il porco gli era stato imbolato.

Bruno e Buffalmacco levatisi se ne andarono verso Calandrino per udir ciò che egli del porco dicesse; il quale, come gli vide, quasi piagnendo chiamati, disse: «Oimè, compagni miei, che il porco mio m’è stato imbolato!»

Bruno accostatoglisi pianamente gli disse: «Maraviglia che se’ stato savio una volta!»

«Oimè» disse Calandrino «ché io dico da dovero.»

«Così di’,» diceva Bruno «grida forte, sì che paia bene che sia stato così.»

Calandrino gridava allora più forte e diceva: «Al corpo di Dio, che io dico da dovero che egli m’è stato imbolato.»

E Brun diceva: «Ben di’, ben di’: e’ si vuol ben dir così, grida forte, fatti ben sentire, sì che egli paia vero.»

Disse Calandrino: «Tu mi faresti dar l’anima al nemico: io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato imbolato!»

Disse allora Bruno: «Deh! come dee potere esser questo? Io il vidi pure ieri costì: credimi tu far credere che egli sia volato?»

Disse Calandrino: «Egli è come io ti dico.»

«Deh!» disse Bruno «può egli essere?»

«Per certo» disse Calandrino «egli è così, di che io son diserto e non so come io mi torni a casa: mogliema nol mi crederà, e se ella il mi pur crede, io non avrò uguanno pace con lei.»

Disse allora Bruno: «Se Dio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t’insegnai dir così: io non vorrei che tu a un’ora ti facessi beffe di moglieta e di noi.»

Calandrino incominciò a gridare e a dire: «Deh perché mi farete disperare? e bestemmiare Idio e’ santi e ciò che v’è? Io vi dico che il porco m’è stato stanotte imbolato.»

Disse allora Buffalmacco: «S’egli è pur così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo.»

«E che via» disse Calandrino «potrem noi trovare?»

Disse allora Buffalmacco: «Per certo egli non c’è venuto d’India niuno a torti il porco: alcuno di questi tuoi vicini dee essere stato, e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane e del formaggio e vederemmo di botto chi l’ha avuto.»

«Sì,» disse Bruno «ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha da torno! ché son certo che alcun di lor l’ha avuto, e avvederebbesi del fatto e non ci vorrebbe venire.»

«Come è adunque da fare?» disse Buffalmacco.

Rispose Bruno: «Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo e con bella vernaccia, e invitargli a bere: essi non sel penserebbono e verrebbono, e così si possono benedicer le galle del gengiovo come il pane e ’l cascio.»

Disse Buffalmacco: «Per certo tu di’ il vero; e tu, Calandrino, che di’? voglianlo fare?»

Disse Calandrino: «Anzi ve ne priego io per l’amor di Dio; ché, se io sapessi pure chi l’ha avuto, sì mi parrebbe essere mezzo consolato.»

«Or via,» disse Bruno «io sono acconcio d’andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari.»

Aveva Calandrino forse quaranta soldi, li quali egli gli diede. Bruno, andatosene a Firenze a un suo amico speziale, comperò una libra di belle galle e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero come avevan l’altre, e per non ismarrirle o scambiarle fece lor fare un certo segnaluzzo, per lo quale egli molto ben le conoscea; e comperato un fiasco d’una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino e dissegli: «Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto: egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la ’ncantagione sopra le galle e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare.»

Calandrino così fece. Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini che per la villa erano e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all’olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino: e fatti stare costoro in cerchio, disse Bruno: «Signori, e’ mi vi convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che non vi piacesse, voi non v’abbiate a ramaricar di me. A Calandrin, che qui è, fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l’abbia; e per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l’ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere; e infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno e sputeralla; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse meglio che quel cotale che avuto l’avesse in penitenza il dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto.»

Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier mangiare: per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all’un de’ capi, cominciò a dare a ciascun la sua; e, come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano. Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare, ma sì tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori. Quivi ciascun guatava nel viso l’uno all’altro per veder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembiante d’intendere a ciò, s’udì dir dietro: «Eia, Calandrino, che vuol dir questo?» per che prestamente rivolto e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse: «Aspettati, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un’altra»; e presa la seconda, gliele mise in bocca e fornì di dare l’altre che a dare avea. Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima: ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole sì eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto. Buffalmacco faceva dar bere alla brigata e Bruno: li quali insieme con gli altri questo vedendo tutti dissero che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresero.

Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl’incominciò Buffalmacco a dire: «Io l’aveva per lo certo tuttavia che tu te l’avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato per non darci una volta bere de’ denari che tu n’avesti.»

Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l’amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l’avea.

Disse Buffalmacco: «Ma che n’avesti, sozio, alla buona fé? avestine sei?»

Calandrino, udendo questo, s’incominciò a disperare; a cui Brun disse: «Intendi sanamente, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevé, che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta e davile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l’avevi mandato questo porco. Tu sì hai apparato a esser beffardo! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone raccogliendo pietre nere: e quando tu ci avesti messi in galea senza biscotto, e tu te ne venisti e poscia ci volevi far credere che tu l’avessi trovata! e ora similmente ti credi co’ tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscianle; tu non ce ne potresti far più! E per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l’arte, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa.» Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi; li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.

NOVELLA SETTIMA

Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve a aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a’ tafani e al sole.

Molto avevan le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n’avrebbono ancora, se stato non fosse che loro increbbe di vedergli torre ancora i capponi a coloro che tolto gli avevano il porco. Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la sua; e essa prestamente così cominciò.

Carissime donne, spesse volte avviene che l’arte è dall’arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di schernire altrui. Noi abbiamo per più novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s’è raccontato: ma io intendo di farvi avere alquanta compassione d’una giusta retribuzione a una nostra cittadina renduta, alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il capo. E questo udire non sarà senza utilità di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno.

Egli non sono ancora molti anni passati che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d’animo altiera e di legnaggio assai gentile, de’ beni della fortuna convenevolmente abondante, e nominata Elena. La quale rimasa del suo marito vedova mai più maritar non si volle, essendosi ella d’un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorato; e da ogni altra sollecitudine sviluppata, con l’opera d’una sua fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si dava buon tempo. Avvenne in questi tempi che un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienza a minuto, come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d’esse, il che ottimamente sta in gentile uomo, tornò da Parigi a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua scienza cittadinescamente viveasi.

Ma come spesso avviene coloro ne’ quali è più l’avvedimento delle cose profonde più tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri. Al quale, essendo egli un giorno per via di diporto andato a una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco estimò colui potersi beato chiamare al quale Idio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere. E una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollecitudine in piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse e per questo il potere aver copia di lei.

La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti in inferno ma, quello e più tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava; e accortasi di Rinieri, in se stessa ridendo disse: «Io non ci sarò oggi venuta invano, ché, se io non erro, io avrò preso un paolin per lo naso.» E cominciatolo con la coda dell’occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva s’ingegnava di dimostrargli che di lui gli calesse, d’altra parte pensandosi che quanti più n’adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la sua bellezza e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore l’aveva data.

Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una parte, tutto l’animo rivolse a costei; e, credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v’incominciò a passare con varie cagioni colorando l’andate. Al quale la donna, per la cagion già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri: per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s’accontò con la fante di lei e il suo amor le scoperse e la pregò che con la sua donna operasse sì, che la grazia di lei potesse avere.

La fante promise largamente e alla sua donna il raccontò; la quale con le maggior risa del mondo l’ascoltò e disse: «Hai veduto dove costui è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di quello ch’è’ va cercando. Dira’gli, qualora egli ti parla più, che io amo molto più lui che egli non ama me, ma che a me si convien di guardar l’onestà mia, sì che io con l’altre donne possa andare a fronte scoperta: di che egli, se così è savio come si dice, mi dee molto più cara avere.» Ahi cattivella, cattivella! ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli scolari. La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu imposto. Lo scolar lieto procedette a più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era ricevuta ma indietro non venivan risposte se non generali: e in questa guisa il tenne gran tempo in pastura.

 

Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa scoperta e egli essendose con lei alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei sospicasse, sollecitandola lo scolar molto, la sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter far cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l’aveva certa, se non che per le feste del Natale che s’apressava ella sperava di potere esser con lui: e per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe. Lo scolare, più che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna: e messo dalla fante in una corte e dentro serratovi quivi la donna cominciò a aspettare.

La donna, avendosi quella sera fattosi venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò aggiugnendo: «E potrai vedere quanto e quale sia l’amore il quale io ho portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa.» Queste parole ascoltò l’amante con gran piacer d’animo, disideroso di veder per opera ciò che la donna con parole gli dava a intendere. Era per avventura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo che voluto non avrebbe; ma aspettando di ristorarsi pur pazientemente il sosteneva.

La donna al suo amante disse dopo alquanto: «Andiancene in camera e da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui se’ divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante la quale io gli ho mandata a favellare.»

Andatisene adunque costoro a una finestretta e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un’altra favellare allo scolare e dire: «Rinieri, madonna è la più dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è stasera venuto un de’ suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei e ancora non se n’è andato, ma io credo che egli se n’andrà tosto; e per questo non è ella potuto venire a te ma tosto verrà oggimai: ella ti priega che non ti incresca l’aspettare.»

Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose: «Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dea infino a tanto che ella possa con suo acconcio per me venire, ma che questo ella faccia come più tosto può.»

La fante dentro tornatasi se n’andò a dormire; la donna allora disse al suo amante: «Ben, che dirai? credi tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse là giù a agghiacciare?» E questo detto, con l’amante suo, che già in parte era contento, se n’andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in piacere, del misero scolare ridendosi e faccendosi beffe.

Lo scolare andando per la corte sé essercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e ciò che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s’aprisse, ma invano sperava.

Essa infino vicino della mezzanotte col suo amante sollazzatasi, gli disse: «Che ti pare, anima mia, dello scolar nostro? qual ti par maggiore o il suo senno o l’amor ch’io gli porto? faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti vi t’entrò l’altrieri?»

L’amante rispose: «Cuor del corpo mio, sì, assai conosco che così come tu se’ il mio bene e il mio reposo e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua.»

«Adunque» diceva la donna «or mi bascia ben mille volte, a veder se tu di’ vero.» Per la qual cosa l’amante abbracciandola stretta, non che mille ma più di centomilia la basciava.

E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna: «Deh! levianci un poco e andiamo a vedere se ’l fuoco è punto spento nel quale questo mio novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva.»

E levati, alla finestretta usata n’andarono; e nella corte guardando, videro lo scolare far su per la neve una carola trita, al suono d’un batter di denti che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano. Allora disse la donna: «Che dirai, speranza mia dolce? parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa?»

A cui l’amante ridendo rispose: «Diletto mio grande, sì.»

Disse la donna: «Io voglio che noi andiamo in fin giù all’uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò: e udirem quello che egli dirà e per avventura n’avremo non men festa che noi abbiam di vederlo.» E aperta la camera chetamente se ne scesero all’uscio: e quivi, senza aprir punto, la donna con voce sommessa da un pertugetto che v’era il chiamò.

Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Idio credendosi troppo bene entrar dentro, e accostatosi all’uscio disse: «Eccomi qui, madonna: aprite per Dio, ché io muoio di freddo.»

La donna disse: «O sì, che io so che tu se’ uno assiderato! e anche è il freddo molto grande, perché costì sia un poco di neve! Già so io che elle sono molto maggiori a Parigi. Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che iersera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora: ma egli se n’andrà tosto, e io verrò incontanente a aprirti. Io mi son testé con gran fatica scantonata da lui per venirti a confortare che l’aspettar non t’incresca.»

Disse lo scolare: «Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m’apriate, acciò che io possa costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s’è messa la più folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v’attenderò quanto vi sarà a grado.»

Disse la donna: «Oimè, ben mio dolce, che io non posso, ché questo uscio fa sì gran romore quando s’apre, che leggiermente sarei sentita da fratelmo se io t’aprissi: ma io voglio andare a dirgli che se ne vada; acciò che io possa poi tornare a aprirti.»

Disse lo scolare: «Ora andate tosto; e priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io entrerò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo, che appena sento di me.»

Disse la donna: «Questo non dee potere essere, se quello è vero che tu m’hai più volte scritto, cioè che, tu per l’amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi beffi. Ora io vo: aspettati e sie di buon cuore.»

L’amante, che tutto udiva e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare consumarono.

Lo scolar cattivello, quasi cicogna divenuto sì forte batteva i denti, accorgendosi d’esser beffato più volte tentò l’uscio se aprir lo potesse e riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte del leone, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità della donna e la lunghezza della notte insieme con la sua semplicità, e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio trasmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava che prima d’esser con la donna non avea disiato.