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Decameron

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NOVELLA QUARTA

Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa si libera dalla pena.

Già si tacea Filomena dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già per l’ordine cominciato che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare.

Amorose donne, se io ho bene la ’ntenzione di tutte compresa, noi siamo qui per dovere a noi medesimi novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere esser licito (e così ne disse la nostra reina, poco avanti, che fosse) quella novella dire che più crede che possa dilettare: per che, avendo udito che per li buoni consigli di Giannoto di Civignì Abraam aver l’anima salvata e Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli aguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo di gravissima pena liberasse.

Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, un monistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare. Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo da torno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada, la quale andava per li campi certe erbe cogliendo: né prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale. Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se n’accorse.

E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con le’ scherzava, avvenne che l’abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentio lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e per conoscere meglio le voci s’accostò chetamente all’uscio della cella a ascoltare, e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu tentato di farsi aprire; poi pensò di volere tenere in ciò altra maniera, e tornatosi alla sua camera aspettò che il monaco fuori uscisse. Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropicio di piedi per lo dormitoro, a un piccol pertugio pose l’occhio e vide apertissimamente l’abate stare a ascoltarlo, e molto ben comprese l’abate aver potuto conoscere quella giovane esser nella sua cella. Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu dolente: ma pur, sanza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse. E, occorsagli una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne, e faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le disse: «Io voglio andare a trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente infino alla mia tornata.»

E uscito fuori e serrata la cella con la chiave, dirittamente se n’andò alla camera dell’abate; e, presentatagli quella secondo che ciascun monaco facea quando fuori andava, con un buon volto disse: «Messere, io non potei stamane farne venire tutte le legne le quali io aveva fatte fare, e per ciò con vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.»

L’abate, per potersi più pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente e volentier prese la chiave e similmente gli diè licenzia. E come il vide andato via, cominciò a pensare qual far volesse più tosto: o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non avesser cagione di mormorare contro di lui quando il monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna. E pensando seco stesso che questa potrebbe esser tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avisò di voler prima veder chi fosse e poi prender partito; e chetamente andatose alla cella, quella aprì e entrò dentro e l’uscio richiuse. La giovane vedendo venir l’abate tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere.

Messer l’abate, postole l’occhio adosso e veggendola bella e fresca, ancora che vecchio fosse sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti avesse il suo giovane monaco; e fra se stesso cominciò a dire: «Deh, perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane e è qui che niuna persona del mondo il sa: se io la posso recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi il saprà? Egli nol saprà persona mai, e peccato celato è mezzo perdonato. Questo caso non avverrà forse mai più: io estimo ch’egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio ne manda altrui.»

E così dicendo e avendo del tutto mutato proposito da quello per che andato v’era, fattosi più presso alla giovane, pianamente la cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e d’una parola in un’altra procedendo, a aprirle il suo disidero pervenne. La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a’ piaceri dell’abate: il quale, abbracciatala e basciatala più volte, in su il letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non sopra il petto di lei salì ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò.

Il monaco, che fatto avea sembiante d’andare al bosco, essendo nel dormentoro occultato, come vide l’abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro, l’ebbe per certissimo. E uscito di là dove era, chetamente n’andò a un pertugio per lo quale ciò che l’abate fece o disse e udì e vide. Parendo all’abate essere assai con la giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo alquanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare acciò che esso solo possedesse la guadagnata preda: e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il riprese e comandò che fosse in carcere messo.

Il monaco prontissimamente rispose: «Messere, io non sono ancora tanto all’Ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni particularità di quello apparata; e voi ancora non m’avevate monstrato che’ monaci si debban far dalle femine premiere come da’ digiuni e dalle vigilie; ma ora che mostrato me l’avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare.»

L’abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma veduto ciò che esso aveva fatto; per che, dalla sua colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva meritato. E perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero la giovanetta di fuori e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare.

NOVELLA QUINTA

La marchesana di Monferrato con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di Francia.

La novella da Dioneo raccontata prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto rossore nel loro viso apparito ne diede segno; e poi quella, l’una l’altra guardando, appena del rider potendosi abstenere, soghignando ascoltarono. Ma venuta di questa la fine, poi che lui con alquante dolci parolette ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fossero tra donne da raccontare, la reina, verso la Fiammetta che appresso di lui sopra l’erba sedeva rivolta, che essa l’ordine seguitasse le comandò. La quale vezzosamente e con lieto viso incominciò.

Sì perché mi piace noi essere entrati a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte, e sì ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d’amar sempre donna di più alto legnaggio che egli non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dell’amore di maggiore uomo che ella non è, m’è caduto nell’animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna sé da questo guardasse e altrui ne rimovesse.

Era il marchese di Monferrato, uomo d’alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltremare passato in un general passaggio da’ cristiani fatto con armata mano. E del suo valore ragionandosi nella corte del re Filippo il bornio, il quale a quello medesimo passaggio andar di Francia s’aparecchiava, fu per un cavalier detto non esser sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna: però che, quanto tra’ cavalieri era d’ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa. Le quali parole per sì fatta maniera nell’animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla veduta, di subito ferventemente la cominciò a amare; e propose di non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova, acciò che quivi, per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto di mettere a effetto il suo disio. E secondo il pensier fatto mandò a essecuzione: per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino; e, avvicinandosi alle terre del marchese, un dì davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l’attendesse a desinare.

 

La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l’era somma grazia sopra ogn’altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in pensiero che questo volesse dire, che uno così fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare: né la ’ngannò in questo l’aviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna dispostasi a onorarlo, fattisi chiamar di que’ buoni uomini che rimasi v’erano, a ogni cosa oportuna con lor consiglio fece ordine dare, ma il convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a’ suoi cuochi per lo convito reale.

Venne adunque il re il giorno detto e con gran festa e onore dalla donna fu ricevuto. Il quale, oltre a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio più accendendosi quanto da più trovava esser la donna che la sua passata stima di lei. E dopo alcun riposo preso in camere ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un sì fatto re ricevere, s’appartiene, venuta l’ora del desinare, il re e la marchesana a una tavola sedettero, e gli altri secondo le loro qualità a altre mense furono onorati.

Quivi essendo il re successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea; ma pur, venendo l’un messo appresso l’altro, cominciò il re alquanto a maravigliarsi conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non pertanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di diverse salvaggine avervi dovesse, e l’avere davanti significata la sua venuta alla donna spazio l’avesse dato di poter far cacciare, non pertanto, quantunque molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagion di doverla mettere in parole se non delle sue galline; e con lieto viso, rivoltosi verso lei disse: «Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno?»

La marchesana, che ottimamente la dimanda intese, parendole che secondo il suo disidero Domenedio l’avesse tempo mandato oportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re domandante baldanzosamente verso lui rivolta rispose: «Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall’altre variino, tutte per ciò son fatte qui come altrove.»

Il re, udite queste parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la vertù nascosa nelle parole, e accorsesi che invano con così fatta donna parole si gitterebbono e che forza non v’avea luogo; per che così come disavedutamente acceso s’era di lei, saviamente s’era da spegnere per onor di lui il male concetto fuoco. E senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d’ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che il presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell’onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n’andò.

NOVELLA SESTA

Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de’ religiosi.

Emilia, la quale appresso la Fiammetta sedea, essendo già stato da tutte commendato il valore e il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia, come alla sua reina piacque, baldanzosamente a dir cominciò.

Né io altressì tacerò un morso dato da un valente uomo secolare a uno avaro religioso con un motto non meno da ridere che da commendare.

Fu dunque, o care giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra città un frate minore inquisitore della eretica pravità, il quale, come che molto s’ingegnasse di parer santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa che di chi di scemo nella fede sentisse. Per la quale sollecitudine per avventura gli venne trovato un buono uomo, assai più ricco di denar che di senno, al quale, non già per difetto di fede ma semplicemente parlando forse da vino o da soperchia letizia riscaldato, era venuto detto un dì a una sua brigata sé avere un vino sì buono che ne berebbe Cristo. Il che essendo allo ’nquisitor rapportato, e egli sentendo che li suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa, cum gladiis et fustibus impetuosissimamente corse a formargli un processo gravissimo addosso, avvisando non di ciò alleviamento di miscredenza nello inquisito ma empimento di fiorini della sua mano ne dovesse procedere, come fece. E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse ciò che contro di lui era stato detto. Il buono uomo rispose del sì e dissegli il modo.

A che lo ’nquisitore santissimo e divoto di san Giovanni Barbadoro disse: «Dunque hai tu fatto Cristo bevitore e vago de’ vini solenni, come se Egli fosse Cinciglione o alcuno altro di voi bevitori, ebriachi e tavernieri: e ora, umilmente parlando, vuogli mostrare questa cosa molto esser leggiera. Ella non è come ella ti pare: tu n’hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo, come dobbiamo, verso te operare.»

E con queste e con altre parole assai, col viso dell’arme, quasi costui fosse stato Epicuro negante la eternità dell’anime, gli parlava. E in brieve tanto lo spaurì, che il buono uomo per certi mezzani gli fece con una buona quantità della grascia di san Giovanni Boccadoro ugner le mani (la quale molto giova alle infermità delle pistilenziose avarizie de’ cherici, e spezialmente de’ frati minori, che denari non osan toccare) acciò che egli dovesse verso lui misericordiosamente aparare. La quale unzione, sì come molto virtuosa, avvegna che Galieno non ne parli in alcuna parte delle sue medicine, sì e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di grazia si permutò in una croce; e, quasi al passaggio d’oltremare andar dovesse, per far più bella bandiera, gialla gliele pose in sul nero. E oltre a questo, già ricevuti i denari, più giorni appresso di sé il sostenne, per penitenza dandogli che egli ogni mattina dovesse udire una messa in Santa Croce e all’ora del mangiare davanti a lui presentarsi, e poi il rimanente del giorno quello che più gli piacesse potesse fare.

Il che costui diligentemente faccendo, avvenne una mattina tra l’altre che egli udì alla messa uno evangelio, nel quale queste parole si cantavano «Voi riceverete per ognun cento e possederete la vita eterna», le quali esso nella memoria fermamente ritenne; e secondo il comandamento fattogli, a ora di mangiare davanti allo inquisitor venendo, il trovò desinare. Il quale lo ’nquisitor domandò se egli avesse la messa udita quella mattina.

Al quale esso prestamente rispose: «Messer sì.»

A cui lo ’nquisitor disse: «Udistù, in quella, cosa niuna della quale tu dubiti o vogline dimandare?»

«Certo» rispose il buono uomo «di niuna cosa che io udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo vere. Udinne io bene alcuna che m’ha fatto e fa avere di voi e degli altri vostri frati grandissima compassione, pensando al malvagio stato che voi di là nell’altra vita dovrete avere.»

Disse allora lo ’nquisitore: «E quale fu quella parola che t’ha mosso a aver questa compassion di noi?»

Il buono uomo rispose: «Messere, ella fu quella parola dello evangelio la qual dice: “Voi riceverete per ognun cento”.»

Lo ’nquisitore disse: «Questo è vero: ma perché t’ha per ciò questa parola commosso?»

«Messer,» rispose il buono uomo «io vel dirò. Poi che io usai qui, ho io ogni dì veduto dar qui di fuori a molta povera gente quando una e quando due grandissime caldaie di broda, la quale a’ frati di questo convento e a voi si toglie, sì come soperchia, davanti; per che, se per ognuna cento ve ne fieno rendute, di là voi n’avrete tanta, che voi dentro tutti vi dovrete affogare.»

Come che gli altri che alla tavola dello inquisitore erano tutti ridessono, lo ’nquisitore sentendo trafiggere la lor brodaiuola ipocrisia tutto si turbò; e se non fosse che biasimo portava di quello che fatto avea, un altro processo gli avrebbe addosso fatto per ciò che con ridevol motto lui e gli altri poltroni aveva morsi. E per bizzarria gli comandò che quello che più gli piacesse facesse, senza più davanti venirgli.

NOVELLA SETTIMA

Bergamino con una novella di Primasso e dell’abate di Clignì onestamente morde una avarizia nuova venuta in messer Can della Scala.

Mosse la piacevolezza d’Emilia e la sua novella la reina e ciascuno altro a ridere e a commendare il nuovo avviso del crociato. Ma poi che le risa rimase furono e racquetato ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò a parlare.

Bella cosa è, valorose donne, il ferire un segno che mai non si muti, ma quella è quasi maravigliosa, quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se subitamente da uno arciere è ferita. La viziosa e lorda vita de’ cherici, in molte cose quasi di cattività fermo segno, senza troppa dificultà dà di sé da parlare, da mordere e da riprendere a ciascuno che ciò disidera di fare. E per ciò, come che ben facesse il valente uomo che lo inquisitore della ipocrita carità de’ frati, che quello danno a’ poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via, trafisse, assai estimo più da lodare colui del quale, tirandomi a ciò la precedente novella, parlar debbo: il quale messer Cane della Scala, magnifico signore, d’una subita e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra novella, in altrui figurando quello che di sé e di lui intendeva di dire: la quale è questa.

Sì come chiarissima fama quasi per tutto il mondo suona, messer Can della Scala, al quale in assai cose fu favorevole la fortuna, fu uno de’ più notabili e de’ più magnifichi signori che dallo imperadore Federigo secondo in qua si sapesse in Italia. Il quale, avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, e a quella molta gente e di varie parti fosse venuta e massimamente uomini di corte d’ogni maniera, subito, qual che la cagion fosse, da ciò si ritrasse, e in parte provedette coloro che venuti v’erano e licenziolli. Solo uno, chiamato Bergamino, oltre al credere di chi non l’udì presto parlatore e ornato, senza essere d’alcuna cosa proveduto o licenzia datagli, si rimase, sperando che non senza sua futura utilità ciò dovesse essere stato fatto. Ma nel pensiero di messer Cane era caduto ogni cosa che gli si donasse vie peggio esser perduta che se nel fuoco fosse stata gittata: né di ciò gli dicea o facea dire alcuna cosa.

Bergamino dopo alquanti dì, non veggendosi né chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier partenesse e oltre a ciò consumarsi nello albergo co’ suoi cavalli e co’ suoi fanti, incominciò a prender malinconia; ma pure aspettava, non parendogli ben far di partirsi. E avendo seco portate tre belle e ricche robe, che donate gli erano state da altri signori, per comparire orrevole alla festa, volendo il suo oste esser pagato, primieramente gli diede l’una e appresso, soprastando ancora molto più, convenne, se più volle col suo oste tornare, gli desse la seconda; e cominciò sopra la terza a mangiare, disposto di tanto stare a vedere quanto quella durasse e poi partirsi.

Ora, mentre che egli sopra la terza roba mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti da lui assai nella vista malinconoso; il quale messer Can veggendo, più per istraziarlo che per diletto pigliare d’alcun suo detto, disse: «Bergamino, che hai tu? tu stai così malinconoso! Dinne alcuna cosa.»

Bergamino allora, senza punto pensare quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de’ fatti suoi disse questa novella: «Signor mio, voi dovete sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica e fu oltre a ogni altro grande e presto versificatore: le quali cose il renderono tanto raguardevole e sì famoso, che, ancora che per vista in ogni parte conosciuto non fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sapesse chi fosse Primasso. Ora avvenne che, trovandosi egli una volta a Parigi in povero stato, sì come egli il più del tempo dimorava per la vertù che poco era gradita da coloro che possono assai, udì ragionare d’uno abate di Clignì, il quale si crede che sia il più ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio dal Papa in fuori; e di lui udì dire maravigliose e magnifiche cose in tener sempre corte e non esser mai a alcuno, che andasse là dove egli fosse, negato né mangiar né bere, solo che quando l’abate mangiasse il domandasse. La qual cosa Primasso udendo, sì come uomo che si dilettava di vedere i valenti uomini e’ signori, diliberò di volere andare a vedere la magnificenza di questo abate e domandò quanto egli allora dimorasse presso a Parigi. A che gli fu risposto che forse a sei miglia, a un suo luogo; al quale Primasso pensò di potervi essere, movendosi la mattina a buona ora, a ora di mangiare. Fattasi adunque la via insegnare, non trovando alcun che v’andasse, temette non per isciagura gli venisse smarrita e quinci potere andare in parte dove così tosto non troveria da mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di mangiare non patisse disagio, seco pensò di portare tre pani, avvisando che dell’acqua, come che ella gli piacesse poco, troverebbe in ogni parte da bere. E quegli messisi in seno, prese il suo cammino e vennegli sì ben fatto, che avanti ora di mangiare pervenne là dove l’abate era. E entrato dentro andò riguardando per tutto, e veduta la gran moltitudine delle tavole messe e il grande apparecchio della cucina e l’altre cose per lo desinare apprestate, fra se medesimo disse: «Veramente è questi così magnifico come uom dice». E stando alquanto intorno a queste cose attento, il siniscalco dell’abate, per ciò che ora era di mangiare, comandò che l’acqua si desse alle mani; e, data l’acqua, mise ogn’uomo a tavola. E per avventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto di rimpetto all’uscio della camera donde l’abate dovea uscire per venire nella sala a mangiare. Era in quella corte questa usanza, che in su le tavole vino né pane né altre cose da mangiare o da ber si ponea già mai, se prima l’abate non veniva a sedere alla tavola. Avendo adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire all’abate che, qualora gli piacesse, il mangiare era presto. L’abate fece aprir la camera per venir nella sala: e venendo si guardò innanzi e per ventura il primo uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai male era in arnese e cui egli per veduta non conoscea: e come veduto l’ebbe, incontanente gli corse nell’animo un pensiero cattivo e mai più non statovi, e disse seco: «Vedi a cui io do mangiare il mio!» E tornandosi adietro, comandò che la camera fosse serrata e domandò coloro che appresso lui erano se alcuno conoscesse quel ribaldo che arrimpetto all’uscio della sua camera sedeva alle tavole. Ciascuno rispose del no. Primasso, il quale avea talento di mangiare, come colui che camminato avea e uso non era di digiunare, avendo alquanto aspettato e veggendo che l’abate non veniva, si trasse di seno l’uno de’ tre pani li quali portati aveva e cominciò a mangiare. L’abate, poi che alquanto fu stato, comandò a uno de’ suoi famigliari che riguardasse se partito si fosse questo Primasso. Il famigliare rispose: «Messer no, anzi mangia pane, il quale mostra che egli seco recasse». Disse allora l’abate: «Or mangi del suo, se egli n’ha, ché del nostro non mangerà egli oggi». Avrebbe voluto l’abate che Primasso da se stesso si fosse partito, per ciò che accomiatarlo non gli pareva far bene. Primasso, avendo l’un pane mangiato e l’abate non vegnendo, cominciò a mangiare il secondo: il che similmente all’abate fu detto, che fatto avea guardare se partito fosse. Ultimamente, non venendo l’abate, Primasso mangiato il secondo cominciò a mangiare il terzo: il che ancora fu all’abate detto, il quale seco stesso cominciò a pensare e a dire: «Deh questa che novità è oggi che nella anima m’è venuta, che avarizia, chente sdegno, e per cui? Io ho dato mangiare il mio, già è molt’anni, a chiunque mangiar n’ha voluto, senza guardare se gentile uomo è o villano, o povero o ricco, o mercatante o barattiere stato sia, e a infiniti ribaldi con l’occhio me l’ho veduto straziare, né mai nell’animo m’entrò questo pensiero che per costui mi c’è entrato. Fermamente avarizia non mi dee avere assalito per uomo di piccolo affare: qualche gran fatto dee esser costui che ribaldo mi pare, poscia che così mi s’è rintuzzato l’animo d’onorarlo». E così detto, volle saper chi fosse; e trovato che era Primasso, quivi venuto a vedere della sua magnificenza quello che n’aveva udito, il quale avendo l’abate per fama molto tempo davante per valente uom conosciuto, si vergognò, e vago di far l’amenda in molte maniere s’ingegnò d’onorarlo. E appresso mangiare, secondo che alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fé nobilmente vestire, e donatigli denari e pallafreno, nel suo albitrio rimise l’andare e lo stare. Di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le quali poté maggiori, a Parigi, donde a piè partito s’era, ritornò a cavallo.»

 

Messer Cane, il quale intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che dir volea Bergamino: e sorridendo gli disse: «Bergamino, assai acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia e quel che da me disideri: e veramente mai più che ora per te da avarizia assalito non fui, ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato.» E fatto pagare l’oste di Bergamino e lui nobilissimamente d’una sua roba vestito, datigli denari e un pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise l’andare e lo stare.