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Decameron

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NOVELLA SESTA

Madonna Isabella, con Leonetto standosi amata, da un messer Lambertuccio è visitata e torna il marito di lei: messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa sua ne manda, e il marito di lei poi Lionetto accompagna.

Maravigliosamente era piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno ottimamente la donna aver fatto e quel che si convenia al bestiale uomo. Ma poi che finita fu, il re a Pampinea impose che seguitasse; la quale incominciò a dire.

Molti sono li quali, semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama fa divenire smemorato. Sciocca opinione mi pare: e assai le già dette cose l’hanno mostrato, e io ancora intendo di dimostrarlo.

Nella nostra città, copiosa di tutti i beni, fu una giovane donna e gentile e assai bella, la qual fu moglie d’un cavaliere assai valoroso e da bene. E come spesso avviene che sempre non può l’uomo usare un cibo ma talvolta disidera di variare, non sodisfaccendo a questa donna molto il suo marito, s’innamorò d’un giovane il quale Leonetto era chiamato, assai piacevole e costumato, come che di gran nazion non fosse, e egli similmente s’innamorò di lei: e come voi sapete che rade volte è senza effetto quello che vuole ciascuna delle parti, a dare al loro amor compimento molto tempo non si interpose.

Ora avvenne che, essendo costei bella donna e avvenevole, di lei un cavalier chiamato messer Lambertuccio s’innamorò forte, il quale ella, per ciò che spiacevole uomo e sazievole le parea, per cosa del mondo a amar lui disporre non si potea; ma costui con ambasciate sollicitandola molto e non valendogli, essendo possente uomo la mandò minacciando di vituperarla se non facesse il piacer suo; per la qual cosa la donna, temendo e conoscendo come fatto era, si condusse a fare il voler suo.

E essendosene la donna, che madonna Isabella avea nome, andata, come nostro costume è di state, a stare a una sua bellissima possessione in contado, avvenne, essendo una mattina il marito di lei cavalcato in alcun luogo per dovere stare alcun giorno, che ella mandò per Lionetto che si venisse a star con lei; il quale lietissimo incontanente v’andò. Messer Lambertuccio, sentendo il marito della donna essere andato altrove, tutto solo montato a cavallo a lei se n’andò e picchiò alla porta. La fante della donna vedutolo n’andò incontanente a lei, che in camera era con Lionetto, e chiamatala le disse: «Madonna, messer Lambertuccio è quaggiù tutto solo.»

La donna, udendo questo, fu la più dolente femina del mondo; ma temendol forte, pregò Leonetto che grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla cortina del letto infino a tanto che messer Lambertuccio se n’andasse. Leonetto, che non minor paura di lui avea che avesse la donna, vi si nascose; e ella comandò alla fante che andasse a aprire a messer Lambertuccio; la quale apertogli, e egli, nella corte smontato d’un suo pallafreno e quello appiccato ivi a uno arpione, se ne salì suso. La donna, fatto buon viso e venuta infino in capo della scala, quanto più poté in parole lietamente il ricevette e domandollo quello che egli andasse faccendo. Il cavaliere, abbracciatala e basciatala, disse; «Anima mia, io intesi che vostro marito non c’era, sì ch’io mi son venuto a stare alquanto con essolei.» E dopo queste parole entratisene in camera e serratisi dentro, cominciò messer Lambertuccio a prender diletto di lei.

E così con lei standosi, tutto fuori della credenza della donna avvenne che il marito di lei tornò: il quale quando la fante vicino al palagio vide, così subitamente corse alla camera della donna e disse: «Madonna, ecco messer che torna: io credo che egli sia già giù nella corte.»

La donna, udendo questo e sentendosi aver due uomini in casa (e conosceva che il cavaliere non si poteva nascondere per lo suo pallafreno che nella corte era), si tenne morta; nondimeno, subitamente gittatasi del letto in terra prese partito e disse a messer Lambertuccio; «Messere, se voi mi volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò. Voi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo e con un mal viso e tutto turbato ve n’andrete giù per le scale e andrete dicendo: «Io fo boto a Dio che io il coglierò altrove»; e se mio marito vi volesse ritenere o di niente vi domandasse, non dite altro che quello che detto v’ho, e montato a cavallo per niuna cagione seco ristate.»

Messer Lambertuccio disse che volentieri; e tirato fuori il coltello, tutto infocato nel viso tra per la fatica durata e per l’ira avuta della tornata del cavaliere, come la donna gl’impose così fece. Il marito della donna, già nella corte smontato, maravigliandosi del pallafreno e volendo su salire, vide messer Lambertuccio scendere e maravigliossi e delle parole e del viso di lui e disse: «Che è questo, messere?»

Messer Lambertuccio, messo il piè nella staffa e montato su, non disse altro se non: «Al corpo di Dio, io il giugnerò altrove» e andò via.

Il gentile uomo montato su trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di paura; alla quale egli disse: «Che cosa è questa? cui va messer Lambertuccio così adirato minacciando?»

La donna, tiratasi verso la camera acciò che Leonetto l’udisse, rispose: «Messere, io non ebbi mai simil paura a questa. Qua entro si fuggì un giovane, il quale io non conosco e che messer Lambertuccio col coltello in man seguitava, e trovò per ventura questa camera aperta e tutto tremante disse: «Madonna, per Dio aiutatemi, ché io non sia nelle braccia vostre morto». Io mi levai diritta, e come il voleva domandare chi fosse e che avesse, e ecco messer Lambertuccio venir su dicendo: «Dove se», traditore?’ Io mi parai in su l’uscio della camera: e volendo egli entrar dentro, il ritenni, e egli in tanto fu cortese, che, come vide che non mi piaceva che egli qua entro entrasse, dette molte parole, se ne venne giù come voi vedeste.»

Disse allora il marito: «Donna, ben facesti: troppo ne sarebbe stato gran biasimo se persona fosse stata qua entro uccisa; e messer Lambertuccio fece gran villania a seguitar persona che qua entro fuggita fosse.» Poi domandò dove fosse quel giovane.

La donna rispose: «Messere, io non so dove egli si sia nascosto.»

Il cavaliere allora disse: «Ove se’ tu? Esci fuori sicuramente.»

Leonetto, che ogni cosa udita avea, tutto pauroso, come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì fuori del luogo dove nascoso s’era.

Disse allora il cavaliere: «Che hai tu a fare con messer Lambertuccio?»

Il giovane rispose: «Messere, niuna cosa che sia in questo mondo, e per ciò io credo fermamente che egli non sia in buon senno, o che egli m’abbia colto in iscambio: per ciò che, come poco lontano da questo palagio nella strada mi vide, così mise mano al coltello e disse: «Traditor, tu se’ morto!» Io non mi posi a domandare per che ragione ma quanto potei cominciai a fuggire e qui me ne venni, dove, mercé di Dio e di questa gentil donna, scampato sono.»

Disse allora il cavaliere: «Or via, non aver paura alcuna; io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi far cercar quello che con lui hai a fare.»

E, come cenato ebbero, fattol montare a cavallo a Firenze il ne menò e lasciollo a casa sua; il quale, secondo l’amaestramento della donna avuto, quella sera medesima parlò con messer Lambertuccio occultamente e sì con lui ordinò, che, quantunque poi molte parole ne fossero, mai per ciò il cavalier non s’accorse della beffa fattagli dalla moglie.

NOVELLA SETTIMA

Lodovico discuopre a madonna Beatrice l’amore il quale egli le porta: la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi va e bastona Egano nel giardino.

Questo avvedimento di madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto maraviglioso; ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che secondasse, disse.

Amorose donne, se io non ne sono ingannata, io ve ne credo uno non men bello raccontare, e prestamente.

Voi dovete sapere che in Parigi fu già un gentile uomo fiorentino, il quale per povertà divenuto era mercatante e eragli sì bene avvenuto della mercatantia, che egli n’era fatto ricchissimo; e avea della sua donna un figliuol senza più, il quale egli aveva nominato Lodovico. E perché egli alla nobiltà del padre e non alla mercatantia si traesse, non l’aveva il padre voluto mettere a alcun fondaco ma l’avea messo a essere con altri gentili uomini al servigio del re di Francia, là dove egli assai di be’ costumi e di buone cose aveva apprese.

E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri li quali tornati erano dal Sepolcro, sopravvegnendo a un ragionamento di giovani, nel quale Lodovico era, e udendogli fra sé ragionare delle belle donne di Francia e d’Inghilterra e d’altre parti del mondo, cominciò l’un di loro a dir che per certo di quanto mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva mai, una simigliante alla moglie d’Egano de’ Galluzzi di Bologna, madonna Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza: a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna l’avean veduta, s’accordarono. La qual cosa ascoltando Lodovico, che d’alcuna ancora inamorato non s’era, s’accese in tanto disidero di doverla vedere, che a altro non poteva tenere il suo pensiere; e del tutto disposto d’andare infino a Bologna a vederla e quivi ancora dimorare se ella gli piacesse, fece veduta al padre che al Sepolcro voleva andare: il che con gran malagevolezza ottenne.

Postosi adunque nome Anichino, a Bologna pervenne; e, come la fortuna volle, il dì seguente vide questa donna a una festa e troppo più bella gli parve assai che stimato non avea: per che, inamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna non partirsi se egli il suo amore non acquistasse. E seco divisando che via dovesse a ciò tenere, ogn’altro modo lasciando stare, avvisò che, se divenir potesse famigliar del marito di lei, il qual molti ne teneva, per avventura gli potrebbe venir fatto quel che egli disiderava. Venduti adunque i suoi cavalli e la sua famiglia acconcia in guisa che stava bene, avendo lor comandato che sembiante facessero di non conoscerlo, essendosi accontato coll’oste suo, gli disse che volentier per servidore d’un signore da bene, se alcun ne potesse trovare, starebbe; al quale l’oste disse: «Tu se’ dirittamente famiglio da dovere esser caro a un gentile uomo di questa terra che ha nome Egano, il qual molti ne tiene e tutti gli vuole appariscenti come tu se’: io ne gli parlerò.»

 

E come disse così fece; e avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconciò Anichino; il che, quanto più poté esser, gli fu caro. E con Egano dimorando e avendo copia di vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sì a grado cominciò a servire Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui niuna cosa sapeva fare; e non solamente di sé ma di tutte le sue cose gli aveva commesso il governo.

Avvenne un giorno che, essendo andato Egano a uccellare e Anichino rimaso, madonna Beatrice, che dello amore di lui accorta non s’era ancora (e quantunque seco, lui e’ suoi costumi guardando, più volte molto commendato l’avesse e piacessele), con lui si mise a giucare a scacchi; e Anichino, che di piacerle disiderava, assai acconciamente faccendolo, si lasciava vincere, di che la donna faceva maravigliosa festa. E essendosi da vedergli giucare tutte le femine della donna partite e soli giucando lasciatigli, Anichino gittò un grandissimo sospiro.

La donna guardatolo disse: «Che avesti, Anichino? Duolti così che io ti vinco?»

«Madonna,» rispose Anichino «troppo maggior cosa che questa non è fu cagion del mio sospiro.»

Disse allora la donna: «Deh! dilmi per quanto ben tu mi vuogli.»

Quando Anichino si sentì scongiurare ’per quanto ben tu mi vuogli’ a colei la quale egli sopra ogn’altra cosa amava, egli ne mandò fuori un troppo maggiore che non era stato il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che gli piacesse di dirle qual fosse la cagione de’ suoi sospiri; alla quale Anichin disse: «Madonna, io temo forte che egli non vi sia noia se io il vi dico; e appresso dubito che voi a altra persona nol ridiciate.»

A cui la donna disse: «Per certo egli non mi sarà grave: e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se non quanto ti piaccia, io non dirò mai a altrui.»

Allora disse Anichino: «Poi che voi mi promettete così, e io il vi dirò»; e quasi colle lagrime in su gli occhi le disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove e come di lei s’era innamorato e perché per servidor del marito di lei postosi: e appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere d’aver pietà di lui, e in questo suo segreto e sì fervente disidero di compiacergli; e che, dove questo far non volesse, che ella, lasciandolo star nella forma nella qual si stava, fosse contenta che egli l’amasse.

O singular dolcezza del sangue bolognese! quanto se’ tu sempre stata da commendare in così fatti casi! Mai di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a’ prieghi pieghevole e agli amorosi disiderii arrendevol fosti: se io avessi degne lode da commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia.

La gentil donna, parlando Anichino, il riguardava; e, dando piena fede alle sue parole, con sì fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente, che essa altressì cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro rispose: «Anichino mio dolce, sta’ di buon cuore: né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di signore né d’alcuno altro, ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti, mai mi poté muovere l’animo mio tanto che io alcuno n’amassi; ma tu m’hai fatta in così poco spazio, come le tue parole durate sono, troppo più tua divenire che io non son mia. Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò io il ti dono e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa notte che viene tutta trapassi. E acciò che questo abbia effetto, farai che in su la mezzanotte tu venghi alla camera mia: io lascerò l’uscio aperto, tu sai da qual parte del letto io dormo; verrai là e se io dormissi tanto mi tocca che io mi svegli, e io ti consolerò di così lungo disio come avuto hai. E acciò che tu questo creda, io ti voglio dare un bascio per arra»; e gittatogli il braccio in collo, amorosamente il basciò, e Anichin lei.

Queste cose dette, Anichin lasciata la donna andò a fare alcune sue bisogne, aspettando con la maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse. Egano tornò da uccellare, e come cenato ebbe, essendo stanco, s’andò a dormire, e la donna appresso, e, come promesso avea, lasciò l’uscio della camera aperto. Al quale, all’ora che detta gli era stata, Anichin venne e pianamente entrato nella camera e l’uscio riserrato dentro dal canto donde la donna dormiva se n’andò e, postale la mano in sul petto, lei non dormente trovò. La quale come sentì Anichino esser venuto, presa la sua mano con amendune le sue e tenendol forte, volgendosi per lo letto tanto fece, che Egano che dormiva destò; al quale ella disse: «Io non ti volli iersera dir cosa niuna, per ciò che tu mi parevi stanco; ma dimmi, se Dio ti salvi, Egano, quale hai tu per lo migliore famigliare e più leale e per colui che più t’ami, di quegli che tu in casa hai?»

Rispose Egano: «Che è ciò, donna, di che tu mi domandi? nol conosci tu? Io non ho né ebbi mai alcuno di cui io tanto mi fidassi o fidi o ami, quant’io mi fido e amo Anichino; ma perché me ne domandi tu?»

Anichino, sentendo desto Egano e udendo di sé ragionare, aveva più volte a sé tirata la mano per andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare; ma ella l’aveva sì tenuto e teneva, che egli non s’era potuto partire né poteva. La donna rispose a Egano e disse: «Io il ti dirò. Io mi credeva che fosse ciò che tu di’ e che egli più fede che alcuno altro ti portasse: ma me ha egli sgannata, per ciò che, quando tu andasti oggi a uccellare, egli rimase qui e, quando tempo gli parve, non si vergognò di richiedermi che io dovessi a’ suoi piaceri acconsentirmi; e io, acciò che questa cosa non mi bisognasse con troppe pruove mostrarti e per farlati toccare e vedere, risposi che io era contenta e che stanotte, passata mezzanotte, io andrei nel giardino nostro e a piè del pino l’aspetterei. Ora io per me non intendo d’andarvi; ma se vuogli la fedeltà del tuo famiglio cognoscere, tu puoi leggiermente, mettendoti indosso una delle guarnacche mie e in capo un velo, e andare laggiuso a aspettare se egli vi verrà, ché son certa del sì.»

Egano udendo questo disse: «Per certo io il convengo vedere»; e levatosi, come meglio seppe al buio si mise una guarnacca della donna e un velo in capo e andossene nel giardino e appiè d’un pino cominciò a attendere Anichino.

La donna, come sentì lui levato e uscito della camera, così si levò e l’uscio di quella dentro serrò. Anichino, il quale la maggior paura che avesse mai avuta avea e che quanto potuto avea s’era sforzato d’uscire delle mani della donna e centomilia volte lei e il suo amore e sé, che fidato se n’era, avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva fatto fu il più contento uomo che fosse mai; e essendo la donna tornata nel letto, com’ella volle con lei si spogliò, e insieme presero piacere e gioia per un buono spazio di tempo. Poi, non parendo alla donna che Anichino dovesse più stare, il fece levar suso e rivestire e sì gli disse: «Bocca mia dolce, tu prenderai un buon bastone e andra’tene al giardino e faccendo sembianti d’avermi richesta per tentarmi, come se io fossi dessa, dirai villania a Egano e sonera’mel bene col bastone, per ciò che di questo ne seguirà maraviglioso diletto e piacere.»

Anichino levatosi e nel giardino andatosene con un pezzo di saligastro in mano, come fu presso al pino e Egano il vide venire, così levatosi come con grandissima festa riceverlo volesse, gli si faceva incontro; al quale Anichin disse: «Ahi malvagia femina, dunque ci se’ venuta e hai creduto che io volessi o voglia al mio signore far questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte!», e alzato il bastone lo incominciò a sonare.

Egano, udendo questo e veggendo il bastone, senza dir parola cominciò a fuggire, e Anichino appresso sempre dicendo: «Via, che Dio vi metta in malanno, rea femina, ché io il dirò domattina a Egano per certo.»

Egano, avendone avute parecchi delle buone, come più tosto poté se ne tornò alla camera; il quale la donna domandò se Anichin fosse al giardin venuto. Egano disse: «Così non fosse egli, per ciò che, credendo esso che io fossi te, m’ha con un bastone tutto rotto e dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina: e per certo io mi maravigliava forte di lui che egli con animo di far cosa che mi fosse vergogna t’avesse quelle parole dette; ma per ciò che così lieta e festante ti vede, ti volle provare.»

Allora disse la donna: «Lodato sia Idio che egli ha me provata con parole e te con fatti; e credo che egli possa dire che io porti con più pazienzia le parole che tu i fatti non fai. Ma poi che tanta fede ti porta, si vuole aver caro e fargli onore.»

Egano disse: «Per certo tu di’ il vero.»

E da questo prendendo argomento, era in opinione d’avere la più leal donna e il più fedel servidore che mai avesse alcun gentile uomo; per la qual cosa, come che poi più volte con Anichino e egli e la donna ridesser di questo fatto, Anichino e la donna ebbero assai agio di quello per avventura avuto non avrebbeno a far di quello che loro era diletto e piacere, mentre a Anichin piacque dimorar con Egano in Bologna.

NOVELLA OTTAVA

Un diviene geloso della moglie, e ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei; il marito se n’accorge, e mentre seguita l’amante la donna mette in luogo di sé nel letto un’altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei; li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.

Stranamente pareva a tutti madonna Beatrice essere stata maliziosa in beffare il suo marito, e ciascuno affermava dovere essere stata la paura d’Anichino grandissima quando tenuto forte dalla donna l’udì dire che egli d’amore l’aveva richesta. Ma poi che il re vide Filomena tacersi, verso Neifile voltosi disse: – Dite voi —; la qual, sorridendo prima un poco, cominciò.

Belle donne, gran peso mi resta se io vorrò con una bella novella contentarvi, come quelle che davanti hanno detto contentate v’hanno; del quale con l’aiuto di Dio io spero assai bene scaricarmi.

Dovete dunque sapere che nella nostra città fu già un ricchissimo mercatante chiamato Arriguccio Berlinghieri, il quale scioccamente, sì come ancora oggi fanno tutto ’l dì i mercatanti, pensò di volere ingentilire per moglie; e prese una giovane gentil donna male a lui convenientesi, il cui nome fu monna Sismonda. La quale, per ciò che egli, sì come i mercatanti fanno, andava molto da torno e poco con lei dimorava, s’innamorò d’un giovane chiamato Ruberto, il quale lungamente vagheggiata l’avea. E avendo presa sua dimestichezza e quella forse men discretamente usando, per ciò che sommamente le dilettava, avvenne, o che Arriguccio alcuna cosa ne sentisse o come che s’andasse, egli ne diventò il più geloso uomo del mondo e lascionne stare l’andar da torno e ogn’altro suo fatto e quasi tutta la sua sollicitudine aveva posta in guardar ben costei, né mai adormentato si sarebbe se lei primieramente non avesse sentita entrar nel letto: per la qual cosa la donna sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col suo Ruberto esser poteva.

Or pure, avendo molti pensieri avuti a dover trovare alcun modo d’esser con essolui e molto ancora da lui essendone sollicitata, le venne pensato di tener questa maniera: che, con ciò fosse cosa che la sua camera fosse lungo la via e ella si fosse molte volte accorta che Arriguccio assai a adormentarsi penasse ma poi dormiva saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la mezzanotte all’uscio della casa e d’andargli a aprire e a starsi alquanto con essolui mentre il marito dormiva forte. E a fare che ella il sentisse quando venuto fosse, in guisa che persona non se ne accorgesse, divisò di mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera, il quale con l’un de’ capi vicino alla terra aggiugnesse, e l’altro capo mandatol basso infin sopra ’l palco e conducendolo al letto suo, quello sotto i panni mettere, e quando essa nel letto fosse, legallosi al dito grosso del piede; e appresso mandato questo a dire a Ruberto, gl’impose che, quando venisse, dovesse lo spago tirare, e ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare e andrebbegli a aprire; e se egli non dormisse, ella il terrebbe fermo e tirerebbelo a sé, acciò che egli non aspettasse. La qual cosa piacque a Ruberto: e assai volte andatovi, alcuna gli venne fatto d’esser con lei e alcuna no.

 

Ultimamente, continuando costoro questo artificio così fatto, avvenne una notte che, dormendo la donna e Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne questo spago trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al dito della donna legato, disse seco stesso: «Questo dee essere qualche inganno.» E avvedutosi poi che lo spago usciva fuori per la finestra, l’ebbe per fermo: per che, pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò e stette attento per vedere quel che questo volesse dire. Né stette guari che Ruberto venne e tirato lo spago, come usato era, Arriguccio si sentì; e non avendoselo ben saputo legare, e Ruberto, avendo tirato forte e essendogli lo spago in man venuto, intese di doversi aspettare; e così fece.

Arriguccio, levatosi prestamente e prese sue armi, corse all’uscio per dover vedere chi fosse costui e per fargli male. Ora era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante, un fiero uomo e un forte; e giunto all’uscio e non aprendolo soavemente come soleva far la donna, e Ruberto che aspettava, sentendolo, s’avvisò esser ciò che era, cioè che colui che l’uscio apriva fosse Arriguccio: per che prestamente cominciò a fuggire, e Arriguccio a seguitarlo. Ultimamente, avendo Ruberto un gran pezzo fuggito e colui non cessando di seguitarlo, essendo altressì Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, e incominciarono l’uno a volere offendere e l’altro a difendersi.

La donna, come Arriguccio aprì la camera svegliatasi e trovatosi tagliato lo spago dal dito, incontanente s’accorse che il suo inganno era scoperto: e sentendo Arriguccio esser corso dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che doveva potere avvenire, chiamò la fante sua, la quale ogni cosa sapeva, e tanto la predicò, che ella in persona di sé nel suo letto la mise, pregandola che senza farsi conoscere quelle busse pazientemente ricevesse che Arriguccio le desse, per ciò che ella ne le renderebbe sì fatto merito, che ella non avrebbe cagione donde dolersi. E spento il lume che nella camera ardeva, di quella s’uscì e nascosa in una parte della casa cominciò a aspettare quello che dovesse avvenire.

Essendo tra Arriguccio e Ruberto la zuffa, i vicini della contrada sentendola e levatisi cominciarono loro a dir male, e Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver potuto sapere chi il giovane si fosse o d’alcuna cosa offenderlo, adirato e di mal talento, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua; e pervenuto nella camera adiratamente cominciò a dire: «Ove se’ tu, rea femina? Tu hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l’hai fallita!» E andatosene al letto, credendosi la moglie pigliare, prese la fante, e quanto egli poté menare le mani e’ piedi tante pugna e tanti calci le diede, tanto che tutto il viso l’amaccò; e ultimamente le tagliò i capegli, sempre dicendole la maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse.

La fante piagneva forte, come colei che aveva di che; e ancora che ella alcuna volta dicesse «Oimè! mercé per Dio!», o «Non più!», era sì la voce dal pianto rotta e Arriguccio impedito dal suo furore, che discerner non poteva più quella esser d’un’altra femina che della moglie. Battutala adunque di santa ragione e tagliatile i capelli, come dicemmo, disse: «Malvagia femina, io non intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi fratelli e dirò loro le tue buone opere, e appresso che essi vengan per te e faccianne quello che essi credono che loro onor fia e menintene: ché per certo in questa casa non starai tu mai più.» E così detto, uscito della camera, la serrò di fuori e andò tutto sol via.

Come monna Sismonda, che ogni cosa udita aveva, sentì il marito essere andato via, così, aperta la camera e racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che piangeva forte; la quale come poté il meglio racconsolò e nella camera di lei la rimise, dove poi chetamente fattala servire e governare, sì di quello d’Arriguccio medesimo la sovvenne, che ella si chiamò per contenta. E come la fante nella sua camera rimessa ebbe, così prestamente il letto della sua rifece e quella tutta racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna persona giaciuta vi fosse, e raccese la lampana e sé rivestì e racconciò, come se ancora a letto non si fosse andata; e accesa una lucerna e presi suoi panni, in capo della scala si pose a sedere e cominciò a cucire e a aspettare quello a che il fatto dovesse riuscire.

Arriguccio, uscito di casa sua, quanto più tosto poté n’andò alla casa de’ fratelli della moglie, e quivi tanto picchiò, che fu sentito e fugli aperto. Li fratelli della donna, che eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio era, tutti si levarono e fatto accendere de’ lumi vennero a lui e domandaronlo quello che egli a quella ora e così solo andasse cercando. A’ quali Arriguccio, cominciandosi dallo spago che trovato aveva legato al dito del piè di monna Sismonda, infino all’ultimo di ciò che trovato e fatto avea narrò loro; e per fare loro intera testimonianza di ciò che fatto avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver credeva lor pose in mano, aggiugnendo che per lei venissero e quel ne facessero che essi credessero che al loro onore appartenesse, per ciò che egli non intendeva di mai più in casa tenerla. I fratelli della donna, crucciati forte di ciò che udito avevano e per fermo tenendolo, contro a lei innanimati, fatti accender de’ torchi, con intenzione di farle un mal giuoco con Arriguccio si misero in via e andaronne a casa sua. Il che veggendo la madre di loro, piagnendo gl’incominciò a seguitare or l’uno e or l’altro pregando che non dovessero queste cose così subitamente credere senza vederne altro o saperne, per ciò che il marito poteva per altra cagione esser crucciato con lei e averle fatto male e ora apporle questo per iscusa di sé; dicendo ancora che ella si maravigliava forte come ciò potesse essere avvenuto, per ciò che ella conosceva ben la sua figliuola, sì come cole’ che infino da piccolina l’aveva allevata, e molte altre parole simiglianti.

Pervenuti adunque a casa d’Arriguccio e entrati dentro, cominciarono a salir le scale; li quali monna Sismonda sentendo venir disse: «Chi è là?»

Alla quale l’un de’ fratelli rispose: «Tu il saprai bene, rea femina, chi è.»

Disse allora monna Sismonda: «Ora che vorrà dir questo? Domine aiutaci!» e levatasi in piè disse: «Fratelli miei, voi siate i ben venuti; che andate voi cercando a questa ora tutti e tre?»

Costoro, avendola veduta sedere e cuscire e senza alcuna vista nel viso d’essere stata battuta, dove Arriguccio aveva detto che tutta l’aveva pesta, alquanto nella prima giunta si maravigliarono e rifrenarono l’impeto della loro ira e domandarolla come stato fosse quello di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se ogni cosa non dicesse loro.

La donna disse: «Io non so ciò che io mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto.» Arriguccio, vedendola, la guatava come smemorato, ricordandosi che egli l’aveva dati forse mille punzoni per lo viso e graffiatogliele e fattole tutti i mali del mondo, e ora la vedeva come se di ciò niente fosse stato. In brieve i fratelli le dissero ciò che Arriguccio loro aveva detto e dello spago e delle battiture e di tutto.

La donna, rivolta a Arriguccio, disse: «Oimè, marito mio, che è quel ch’i’ odo? Perché fai tu tener me rea femina con tua gran vergogna, dove io non sono, e te malvagio uomo e crudele di quello che tu non se’? E quando fostù questa notte più in questa casa, non che con meco? o quando mi battesti? Io per me non me ne ricordo.»