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Decameron

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GIORNATA SETTIMA

FINISCE LA SESTA GIORNATA DEL DECAMERON: INCOMINCIA LA SETTIMA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI DIONEO, SI RAGIONA DELLE BEFFE, LE QUALI O PER AMORE O PER SALVAMENTO DI LORO LE DONNE HANNO GIÀ FATTE A’ SUOI MARITI, SENZA ESSERSENE AVVEDUTI O SÌ.


INTRODUZIONE

Ogni stella era già delle parti d’oriente fuggita, se non quella sola la qual noi chiamiamo Lucifero che ancora luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco levatosi con una gran salmeria n’andò nella Valle delle Donne per quivi disporre ogni cosa secondo l’ordine e il comandamento avuto dal suo signore. Appresso alla quale andata non stette guari a levarsi il re, il quale lo strepito de’ caricanti e delle bestie aveva desto; e levatosi fece le donne e’ giovani tutti parimente levare. Né ancora spuntavano li raggi del sole ben bene, quando tutti entrarono in cammino; né era ancora lor paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri uccelli, quanto quella mattina pareva; da’ canti de’ quali accompagnati infino nella Valle delle Donne n’andarono, dove da molti più ricevuti, parve loro che essi della loro venuta si rallegrassero. Quivi intorniando quella e riproveggendo tutta da capo, tanto parve loro più bella che il dì passato, quanto l’ora del dì era più alla bellezza di quella conforme. E poi che col buon vino e co’ confetti ebbero il digiun rotto, acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati, cominciarono a cantare e la valle insieme con essoloro, sempre quelle medesime canzoni dicendo che essi dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non volessono esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano.

Ma poi che l’ora del mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci albori e agli altri belli arbori vicine, al bel laghetto, come al re piacque, così andarono a sedere; e, mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a grandissime schiere: il che, come di riguardare, così talvolta dava cagione di ragionare. Ma poi che venuta fu la fine del desinare e le vivande e le tavole furon rimosse, ancora più lieti che prima cominciarono a cantare. Quindi, essendo in più luoghi per la piccola valle fatti letti e tutti dal discreto siniscalco di sarge francesche e di capoletti intorniati e chiusi, con licenzia del re, a cui piacque, si poté andare a dormire; e chi dormir non volle, degli altri loro diletti usati pigliar poteva a suo piacer. Ma venuta già l’ora che tutti levati erano e tempo era da riducersi a novellare, come il re volle, non guari lontani al luogo dove mangiato aveano, fatti in su l’erba tappeti distendere e vicini al lago a seder postisi, comandò il re a Emilia che cominciasse; la quale lietamente così cominciò a dir sorridendo.

NOVELLA PRIMA

Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l’uscio suo; desta la moglie, e ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno a incantare con una orazione, e il picchiare si rimane.

Signor mio, a me sarebbe stato carissimo, quando stato fosse piacere a voi, che altra persona che io avesse a così bella materia, come è quella di che parlar dobbiamo, dato cominciamento; ma poi che egli v’agrada che io tutte l’altre assicuri, e io il farò volentieri. E ingegnerommi, carissime donne, di dir cosa che vi possa essere utile nell’avvenire, per ciò che, se così son l’altre come io paurose e massimamente della fantasima (la quale sallo Iddio che io non so che cosa si sia né ancora alcuna trovai che ’l sapesse, come che tutte ne temiamo igualmente), a quella cacciar via quando da voi venisse, notando bene la mia novella, potrete una santa e buona orazione e molto a ciò valevole apparare.

Egli fu già in Firenze nella contrada di San Brancazio uno stamaiuolo, il quale fu chiamato Gianni Lotteringhi, uomo più avventurato nella sua arte che savio in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice, era molto spesso fatto capitano de’ laudesi di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro, e altri così fatti uficetti aveva assai sovente, di che egli da molto più si teneva: e ciò gli avveniva per ciò che egli molto spesso, sì come agiato uomo, dava di buone pietanze a’ frati. Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa e quale scapolare ne traevano spesso, gl’insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone di santo Alesso e il lamento di san Bernardo e la lauda di donna Matelda e cotali altri ciancioni, li quali egli avea molto cari e tutti per la salute dell’anima sua se gli serbava molto diligentemente.

Ora aveva costui una bellissima donna e vaga per moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu figliuola di Mannuccio dalla Cuculia, savia e avveduta molto; la quale, conoscendo la semplicità del marito, essendo innamorata di Federigo di Neri Pegolotti, il quale bello e fresco giovane era, e egli di lei, ordinò con una sua fante che Federigo le venisse a parlare a un luogo molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata, al quale ella si stava tutta la state; e Gianni alcuna volta vi veniva a cenare e a albergo, e la mattina se ne tornava a bottega e talora a’ laudesi suoi. Federigo, che ciò senza modo disiderava, preso tempo un dì che imposto gli fu, in sul vespro se n’andò là su e, non venendovi la sera Gianni, a grande agio e con molto piacere cenò e albergò con la donna; e ella standogli in braccio la notte gl’insegnò da sei delle laude del suo marito. Ma non intendendo essa che questa fossi così l’ultima volta come stata era la prima né Federigo altressì, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse a andar per lui, ordinarono insieme a questo modo: che egli ognindì, quando andasse o tornasse da un suo luogo che alquanto più suso era, tenesse mente in una vigna la quale allato alla casa di lei era e egli vedrebbe un teschio d’asino in su un palo di quegli della vigna: il quale quando col muso volto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera di notte se ne venisse a lei, e se non trovasse l’uscio aperto pianamente picchiasse tre volte e ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio volto verso Fiesole, non vi venisse per ciò che Gianni vi sarebbe. E in questa maniera faccendo molte volte insieme si ritrovarono.

Ma tra l’altre volte una avvenne che, dovendo Federigo cenare con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere due grossi capponi, avvenne che Gianni, che venire non vi doveva, molto tardi vi venne: di che la donna fu molto dolente, e egli e ella cenarono un poco di carne salata che da parte aveva fatta lessare. E alla fante fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte vuova fresche e un fiasco di buon vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa e dove ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a piè d’un pesco che era allato a un pratello quelle cose ponesse. E tanto fu il cruccio che ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Federigo venisse e dicessegli che Gianni v’era e che egli quelle cose dell’orto prendesse. Per che, andatisi ella e Gianni a letto, e similmente la fante, non stette guari che Federigo venne e toccò una volta pianamente la porta, la quale sì vicina alla camera era, che Gianni incontanente il sentì, e la donna altressì; ma, acciò che Gianni nulla suspicar potesse di lei, di dormire fece sembiante.

E stando un poco, Federigo picchiò la seconda volta: di che Gianni maravigliandosi punzechiò un poco la donna e disse: «Tessa, odi tu quel ch’io? E’ pare che l’uscio nostro sia tocco.»

La donna, che molto meglio di lui udito l’avea, fece vista di svegliarsi, e disse: «Come di’? eh?»

«Dico» disse Gianni «ch’e’ pare che l’uscio nostro sia tocco.»

Disse la donna: «Tocco? Oimè, Gianni mio, or non sai tu quello ch’egli è? Egli è la fantasima, della quale io ho avuta a queste notti la maggior paura che mai s’avesse, tale che, come io sentita l’ho, ho messo il capo sotto né mai ho avuto ardir di trarlo fuori sì è stato dì chiaro.»

Disse allora Gianni: «Va’, donna, non aver paura se ciò è, ché io dissi dianzi il Te lucis e la ’ntemerata e tante altre buone orazioni, quando a letto ci andammo, e anche segnai il letto di canto in canto al nome del Patre e del Filio e dello Spirito Sancto, che temere non ci bisogna: ché ella non ci può, per potere ch’ella abbia, nuocere.»

La donna, acciò che Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse, diliberò del tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni v’era; e disse al marito: «Bene sta, tu di’ tue parole tu; io per me non mi terrò mai salva né sicura se noi non la ’ncantiamo, poscia che tu ci se’.»

Disse Gianni: «O come s’incanta ella?»

Disse la donna: «Ben la so io incantare, ché l’altrieri, quando io andai a Fiesole alla perdonanza, una di quelle romite, che è, Gianni mio, pur la più santa cosa che Iddio tel dica per me, vedendomene così paurosa, m’insegnò una santa e buona orazione e disse che provata l’avea più volte avanti che romita fosse, e sempre l’era giovato. Ma sallo Iddio che io non avrei mai avuto ardire d’andare sola a provarla; ma ora che tu ci se’, io voi che noi andiamo a incantarla.»

Gianni disse che molto gli piacea; e levatisi se ne vennero amenduni pianamente all’uscio, al quale ancor di fuori Federigo, già sospettando, aspettava; e giunti quivi, disse la donna a Gianni: «Ora sputerai, quando io il ti dirò.»

Disse Gianni: «Bene.»

E la donna cominciò l’orazione e disse: «Fantasima, fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n’andrai: va nell’orto, a piè del pesco grosso troverai unto bisunto e cento cacherelli della gallina mia: pon bocca al fiasco e vatti via, e non far mal né a me né a Gianni mio», e così detto, disse al marito: «Sputa, Gianni» e Gianni sputò.

E Federigo, che di fuori era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta la malinconia aveva sì gran voglia di ridere, che scoppiava e pianamente, quando Gianni sputava, diceva: «I denti.» La donna, poi che in questa guisa ebbe tre volte incantata la fantasima, a letto se ne tornò col marito.

 

Federigo, che con lei di cenar s’aspettava, non avendo cenato e avendo bene le parole della orazione intese, se n’andò nell’orto e a piè del pesco grosso trovati i due capponi e ’l vino e l’uova a casa se ne gli portò e cenò a grande agio; e poi dell’altre volte ritrovandosi con la donna, molto di questa incantazione rise con essolei.

Vera cosa è che alcuni dicono che la donna aveva ben volto il teschio dello asino verso Fiesole, ma un lavoratore per la vigna passando v’aveva entro dato d’un bastone e fattol girare intorno intorno, e era rimaso volto verso Firenze, e per ciò Federigo, credendo esser chiamato, v’era venuto; e che la donna aveva fatta l’orazione in questa guisa: «Fantasima, fantasima, fatti con Dio, ché la testa dell’asino non vols’io, ma altri fu, che tristo il faccia Iddio, e io son qui con Gianni mio»; per ché, andatosene, senza albergo e senza cena era rimaso. Ma una mia vicina, la quale è una donna molto vecchia, mi dice che l’una e l’altra fu vera, secondo che ella aveva, essendo fanciulla, saputo; ma che l’ultimo non a Gianni Lotteringhi era avvenuto, ma a uno che si chiamò Gianni di Nello, che stava in Porta San Piero, non meno sofficiente lavaceci che fosse Gianni Lotteringhi. E per ciò, donne mie care, nella vostra elezione sta di torre qual più vi piace delle due, o volete amendune: elle hanno grandissima virtù a così fatte cose, come per esperienzia avete udito: apparatele, e potravvi ancor giovare.

NOVELLA SECONDA

Peronella mette un suo amante in un doglio tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l’ha a uno che dentro v’è a vedere se saldo gli pare: il quale, saltatone fuori, il fa radere al marito e poi portarsenelo a casa sua.

Con grandissime risa fu la novella d’Emilia ascoltata e l’orazione per buona e per santa commendata da tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse; il quale incominciò.

Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d’udirlo dire a alcuno, ma il dovreste voi medesime andar dicendo per tutto, acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le donne d’altra parte anche sanno: il che altro che utile esser non vi può, per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a volerlo ingannare. Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che voi similemente, volendo, ne sapreste beffare? È adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento di tempo per salvezza di sé al marito facesse.

Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, e esso con l’arte sua, che era muratore, e ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che un giovane de’ leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei: e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei si dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; e essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n’entrasse: e così molte volte fecero.

Ma pur trall’altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò; e trovato l’uscio serrato dentro, picchiò e dopo ’l picchiare cominciò seco a dire: «O Iddio, lodato sia tu sempre, ché, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona e d’onesta giovane di moglie! Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci usci’, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse.»

Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse: «Oimè! Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò: e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta: forse che ti vide egli quando tu c’entrasti! Ma per l’amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò a aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa.»

Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all’uscio aprì al marito e con un mal viso disse: «Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co’ ferri tuoi in mano: e se tu fai così, di che viverem noi? onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli, che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio, che n’arda la nostra lucerna? Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me, di tanta fatica quanta è quella che io duro: e tu mi torni a casa colle mani spenzolate quando tu dovresti essere a lavorare.» E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo: «Oimè, lassa me, dolente me, in che mal’ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s’ha menata a casa! L’altre si danno buon tempo cogli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non abbia chi due o chi tre, e godono e mostrano a’ mariti la luna per lo sole; e io, misera me! perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura: io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre! Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo dimolti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò: e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare!»

Disse il marito: «Deh! donna, non ti dar malinconia, per Dio! egli è il vero che io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva. Egli è oggi la festa di santo Galeone e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d’un mese, ché io ho venduto a costui, che tu vedi qui con meco, il doglio, il qual tu sai che già è cotanto ha tenuta la casa impacciata; e dammene cinque gigliati.»

Disse allora Peronella: «E tutto questo è del dolor mio: tu, che se’ uomo e vai attorno e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’ mai appena fuor dell’uscio, veggendo lo ’mpaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette a un buon uomo, il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo fosse.»

Quando il marito udì questo, fu più che contento e disse a colui che venuto era per esso: «Buono uomo, vatti con Dio, ché tu odi che mia mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque.»

Il buono uom disse: «In buona ora sia!» e andossene.

E Peronella disse al marito: «Vien su tu, poscia che tu ci se’, e vedi con lui insieme i fatti nostri.»

Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se d’alcuna cosa gli bisognasse temere o provedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio; e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire: «Dove se’, buona donna?»

Al quale il marito, che già veniva, disse: «Eccomi, che domandi tu?»

Disse Giannello: «Qual se’ tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio.»

Disse il buono uomo: «Fate sicuramente meco, ché io son suo marito.»

Disse allora Giannello: «Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l’unghie, e però io nol terrei se io nol vedessi prima netto.»

Disse allora Peronella: «No, per quello non rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto.»

E il marito disse: «Sì bene», e posti giù i ferri suoi e ispogliatosi in camiscione, si fece accendere un lume e dare una radimadia e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l’un de’ bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: «Radi quivi e quivi e anche colà» e «Vedine qui rimase un micolino.»

E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, a effetto recò il giovinil desiderio; il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, e egli scostatosi e la Peronella tratto il capo del doglio e il marito uscitone fuori.

Per che Peronella disse a Giannello: «Te’ questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo.»

Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che egli era contento; e datigli sette gigliati a casa sel fece portare.

NOVELLA TERZA

Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava vermini al figlioccio.

Non seppe sì Filostrato parlare obscuro delle cavalle partice, che l’avedute donne non ne ridessono, sembiante faccendo di rider d’altro. Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, a Elissa impose che ragionasse; la quale, disposta a ubidire, incominciò.

Piacevoli donne, lo ’ncantar della fantasima d’Emilia m’ha fatto tornare alla memoria una novella d’un’altra incantagione, la quale, quantunque così bella non sia come fu quella, per ciò che altra alla nostra materia non me ne occorre al presente, la racconterò.

Voi dovete sapere che in Siena fu già un giovane assai leggiadro e d’orrevole famiglia, il quale ebbe nome Rinaldo; e amando sommamente una sua vicina, e assai bella donna e moglie d’un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza sospetto, dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non vedendone alcuno e essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire: e accontatosi col marito di lei, per quel modo che più onesto gli parve gliele disse, e fu fatto. Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa divenuto compare e avendo alquanto d’albritrio più colorato di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione con parole le fece conoscere che ella molto davanti negli atti degli occhi suoi avea conosciuto: ma poco per ciò gli valse, quantunque d’averlo udito non dispiacesse alla donna.

Adivenne non guari poi, che che si fosse la ragione, che Rinaldo si rendé frate, e chente che egli trovasse la pastura egli perseverò in quello. E avvegna che egli alquanto, di que’ tempi che frate si fece, avesse dall’un de’ lati posto l’amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di tempo, senza lasciar l’abito, se le riprese; e cominciò a dilettarsi d’apparere e di vestir di buon panni e d’essere in tutte le sue cose leggiadretto e ornato e a fare delle canzoni e de’ sonetti e delle ballate e a cantare, e tutto pieno d’altre cose a queste simili.

Ma che dico io di frate Rinaldo nostro di cui parliamo? Quali son quegli che così non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d’apparir grassi, d’apparir coloriti nel viso, d’apparir morbidi ne’ vestimenti e in tutte le cose loro, e non come colombi ma come galli tronfi colla cresta levata pettoruti procedono: e che è peggio (lasciamo stare d’aver le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di varii confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con oli, di bottacci di malvagia e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati ma botteghe di speziali o d’unguentarii appaiono più tosto a’ riguardanti) essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche e il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili e il più sani; e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl’infermano, alle quali si suole per medicina dare la castità e ogn’altra cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi che altri non conosca, oltra la sottil vita, le vigilie lunghe, l’orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti rendere, e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quatro cappe per uno, non di tintillani né d’altri panni gentili ma di lana grossa fatti e di natural colore, a cacciare il freddo e non a apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provega come all’anime de’ semplici che gli nutricano fa bisogno.

 

Così adunque ritornato frate Rinaldo ne’ primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare; e cresciutagli baldanza, con più instanzia che prima non faceva la cominciò a sollicitare a quello che egli di lei disiderava. La buona donna, veggendosi molto sollicitare e parendole frate Rinaldo forse più bello che non pareva, essendo un dì molto da lui infestata a quello ricorse che fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato, e disse: «Come, frate Rinaldo, o fanno così fatte cose i frati?»

A cui frate Rinaldo rispose: «Madonna, qualora io avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri e non frate.»

La donna fece bocca da ridere e disse: «Oimè trista! voi siete mio compare: come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male, e io ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato: e per certo, se ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste.»

A cui frate Rinaldo disse: «Voi siete una sciocca se per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma de’ maggiori perdona Iddio a chi si pente. Ma ditemi: chi è più parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a battesimo o vostro marito che il generò?»

La donna rispose: «È più suo parente mio marito.»

«E voi dite il vero,» disse il frate «e vostro marito non si giace con voi?»

«Mai sì» rispose la donna.

«Adunque» disse il frate «e io, che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito.»

La donna, che loica non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero, e ripose: «Chi saprebbe rispondere alle vostre savie parole?»; e appresso, non obstante il comparatico, si recò a dover fare i suoi piaceri. Né incominciarono per una volta ma sotto la coverta del comparatico avendo più agio, perché la sospezione era minore, più e più volte si ritrovarono insieme.

Ma tra l’altre una avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna e vedendo quivi niuna persona essere altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco de’ colombi a insegnarle il paternostro, egli colla donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n’entrarono nella camera e dentro serratisi sopra un lettuccio da sedere, che in quella era, s’incominciarono a trastullare. E in questa guisa dimorando, avvenne che il compar tornò e, senza esser sentito da alcuno, fu all’uscio della camera e picchiò e chiamò la donna.

Madonna Agnesa, questo sentendo, disse: «Io son morta, ché ecco il marito mio: ora si pure avvedrà egli qual sia la cagione della nostra dimestichezza.»

Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare, in tonicella; il quale questo udendo disse: «Voi dite vero: se io fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe; ma se voi gli aprite e egli mi truovi così, niuna scusa ci potrà essere.»

La donna, da subito consiglio aiutata, disse: «Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio e ascolterete bene ciò che io gli dirò, sì che le vostre parole poi s’accordino colle mie: e lasciate fare a me.»

Il buono uomo non era ancora ristato di picchiare, che la moglie rispose «Io vengo a te», e levatasi, con un buon viso se n’andò all’uscio della camera e aperselo e disse: «Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, e Iddio il ci mandò; ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro.»

Quando il bescio sanctio udì questo, tutto svenne e disse: «Come?»

«O marido mio,» disse la donna «e’ gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti ch’è’ fosse morto e non sapeva né che mi far né che mi dire, se non che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella e recatoselo in collo disse: «Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, gli quali gli s’appressano al cuore e ucciderebbolo troppo bene; ma non abbiate paura, ché io gl’incanterò e farogli morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vederete il fanciul sano come voi vedeste mai». E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì le fece dire al compagno suo nel più alto luogo della nostra casa, e egli e io qua entro ce n’entrammo. E per ciò che altri che la madre del fanciullo non può essere a così fatto servigio, perché altri non c’impacciasse, qui ci serrammo; e ancora l’ha egli in braccio, e credom’io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l’orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è già tutto tornato in sé.»

Il santoccio credendo queste cose, tanto l’affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose l’animo allo ’nganno fattogli dalla moglie ma gittato un gran sospiro disse: «Io il voglio andare a vedere.»

Disse la donna: «Non andare, ché tu guasteresti ciò che s’è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu vi puoi andare e chiamerotti.»

Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea e erasi rivestito a bello agio e avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò: «O comare, non sent’io di costà il compare?»

Rispose il santoccio: «Messer sì.»

«Adunque» disse frate Rinaldo «venite qua»; il santoccio andò là, al quale frate Rinaldo disse: «Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu, che voi nol vedeste vivo a vespro; e farete di far porre una statua di cera della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li meriti del quale Idio ve n’ha fatta grazia.»

Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che della fossa il traesse, il cominciò a basciare e a render grazie al suo compare che guerito gliele avea. Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro ma forse più di quatro n’aveva insegnati alla fanticella e donatale una borsetta di refe bianco la quale a lui aveva donata una monaca e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere e udire ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne giuso e entrato nella camera disse: «Frate Rinaldo, quelle quatro orazioni che m’imponeste, io l’ho dette tutte.»