Kostenlos

Decameron

Text
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Pietro, stando sopra la quercia quanto più doloroso esser potea, vide in sul primo sonno venir ben venti lupi, li quali tutti, come il ronzin videro, gli furon dintorno. Il ronzin sentendogli, tirata la testa ruppe le cavezzine e cominciò a volersi fuggire, ma essendo intorniato e non potendo gran pezza co’ denti e co’ calci si difese: alla fine da loro atterrato e strozzato fu e subitamente sventrato, e tutti pascendosi, senza altro lasciarvi che l’ossa, il divorarono e andar via. Di che Pietro, al qual pareva del ronzino avere una compagnia e un sostegno delle sue fatiche, forte sbigottì, e imaginossi di non dover mai di quella selva potere uscire.

E essendo già vicino al dì, morendosi egli sopra la quercia di freddo, sì come quegli che sempre da torno guardava si vide innanzi forse un miglio un grandissimo fuoco; per che, come fatto fu il dì chiaro, non senza paura della quercia disceso, verso là si dirizzò e tanto andò, che a quello pervenne; dintorno al quale trovò pastori che mangiavano e davansi buon tempo, da’ quali esso per pietà fu raccolto. E poi che egli mangiato ebbe e fu riscaldato, contata loro la sua disaventura e come quivi solo arrivato fosse, gli domandò se in quelle parti fosse villa o castello dove egli andar potesse. I pastori dissero che ivi forse a tre miglia era un castello di Liello di Campo di Fiore, nel quale al presente era la donna sua; di che Pietro contentissimo gli pregò che alcun di loro infino al castello l’accompagnasse, il che due di loro fecero volentieri.

Al quale pervenuto Pietro e quivi avendo trovato alcun suo conoscente, cercando di trovar modo che la giovane fosse per la selva cercata, fu da parte della donna fatto chiamare; il quale incontanente andò a lei, e vedendo con lei l’Agnolella mai pari letizia non fu alla sua. Egli si struggea tutto d’andarla a abracciare ma per vergogna, la quale avea della donna, lasciava; e se egli fu lieto assai, la letizia della giovane vedendolo non fu minore.

La gentil donna, raccoltolo e fattogli festa e avendo da lui ciò che intervenuto gli era udito, il riprese molto di ciò che contro al piacer de’ parenti suoi far voleva; ma veggendo che egli era pure a questo disposto e che alla giovane aggradiva, disse: «In che m’affatico io? Costor s’amano, costor si conoscono, ciascuno è parimente amico del mio marito, e il lor desiderio è onesto e credo che egli piaccia a Dio, poiché l’uno dalle forche ha campato e l’altro dalla lancia e amenduni dalle fiere salvatiche: e però facciasi.» E a loro rivolta disse: «Se pure questo v’è all’animo di voler essere moglie e marito insieme, e a me: facciasi, e qui le nozze s’ordinino alle spese di Liello; la pace poi tra voi e’ vostri parenti farò io ben fare.»

Pietro lietissimo, e l’Agnolella più, quivi si sposarono; e come in montagna si poté, la gentil donna fé loro onorevoli nozze, e quivi i primi frutti del loro amore dolcissimamente sentirono.

Poi, ivi a parecchi dì, la donna insieme con loro, montati a cavallo e bene accompagnati se ne tornarono a Roma: dove, trovati forte turbati i parenti di Pietro di ciò che fatto aveva, con loro in buona pace il ritornò; e esso con molto riposo e piacere con la sua Agnolella infino alla lor vecchiezza si visse.

NOVELLA QUARTA

Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa e col padre di lei rimane in buona pace.

Tacendosi Elissa, le lode ascoltando dalle sue compagne date alla sua novella, impose la reina a Filostrato che alcuna ne dicesse egli; il quale ridendo incominciò.

Io sono stato da tante di voi tante volte morso perché io materia da crudeli ragionamenti e da farvi piagner v’imposi, che a me pare, a volere alquanto questa noia ristorare, esser tenuto di dover dire alcuna cosa per la quale io alquanto vi faccia ridere; e per ciò uno amore, non da altra noia che di sospiri e d’una brieve paura con vergogna mescolata a lieto fin pervenuto, in una novelletta assai piccola intendo di raccontarvi.

Non è adunque, valorose donne, gran tempo passato che in Romagna fu un cavaliere assai da bene e costumato, il quale fu chiamato messer Lizio di Valbona, a cui per ventura vicino alla sua vecchiezza una figliuola nacque d’una sua donna chiamata madonna Giacomina. La quale oltre a ogni altra della contrada crescendo divenne bella e piacevole; e per ciò che sola era al padre e alla madre rimasa, sommamente da loro era amata e avuta cara e con maravigliosa diligenza guardata, aspettando essi di far di lei alcun gran parentado. Ora usava molto nella casa di messer Lizio, e molto con lui si riteneva, un giovane bello e fresco della persona il quale era de’ Manardi da Brettinoro, chiamato Ricciardo, del quale niuna altra guardia messer Lizio o la sua donna prendevano che fatto avrebbon d’un lor figliuolo. Il quale, una volta e altra veggendo la giovane bellissima e leggiadra e di laudevoli maniere e costumi e già da marito, di lei fieramente s’innamorò, e con gran diligenza il suo amore teneva occulto. Del quale avvedutasi la giovane, senza schifar punto il colpo, lui similmente cominciò a amare, di che Ricciardo fu forte contento.

E avendo molte volte avuta voglia di doverle alcuna parola dire e dubitando taciutosi, pure una, preso tempo e ardire, le disse: «Caterina, io ti priego che tu non mi facci morire amando.»

La giovane rispose subito: «Volesse Idio che tu non facessi più morir me!»

Questa risposta molto di piacere e d’ardire aggiunse a Ricciardo, e dissele: «Per me non starà mai cosa che a grado ti sia, ma a te sta il trovar modo allo scampo della tua vita e della mia.»

La giovane allora disse: «Ricciardo, tu vedi quanto io sia guardata, e per ciò da me non so veder come tu a me ti possi venire: ma se tu sai veder cosa che io possa senza mia vergogna fare, dillami, e io la farò.»

Ricciardo, avendo più cose pensate, subitamente disse: «Caterina mia dolce, io non so alcuna via vedere, se tu già non dormissi o potessi venire in sul verone che è presso al giardino di tuo padre; dove se io sapessi che tu di notte fossi, senza fallo io m’ingegnerei di venirvi quantunque molto alto sia.»

A cui la Caterina rispose: «Se quivi ti dà il cuor di venire, io mi credo ben far sì che fatto mi verrà di dormirvi.»

Ricciardo disse di sì; e questo detto una volta sola si basciarono alla sfuggita e andar via.

Il dì seguente, essendo già vicino alla fine di maggio, la giovane cominciò davanti alla madre a ramaricarsi che la passata notte per lo soperchio caldo non aveva potuto dormire.

Disse la madre: «O figliuola mia, che caldo fa egli? Anzi non fu egli caldo veruno.»

A cui la Caterina disse: «Madre mia, voi dovreste dire «a mio parere», e forse vi direste il vero; ma voi dovreste pensare quanto sieno più calde le fanciulle che le donne attempate.»

La donna disse allora: «Figliuola mia, così è il vero; ma io non posso fare caldo e freddo a mia posta, come tu forse vorresti. I tempi si convegnon pur sofferir fatti come le stagioni gli danno; forse quest’altra notte sarà più fresco, e dormirai meglio.»

«Ora Idio il voglia,» disse la Caterina «ma non suole essere usanza che andando verso la state le notti si vadano rinfrescando.»

«Dunque,» disse la donna «che vuoi tu che si faccia?»

Rispose la Caterina: «Quando a mio padre e a voi piacesse, io farei volentier fare un letticello in sul verone che è allato alla sua camera e sopra il suo giardino e quivi mi dormirei: e udendo cantar l’usignuolo e avendo il luogo più fresco, molto meglio starei che nella vostra camera non fo.»

La madre allora disse: «Figliuola, confortati: io il dirò a tuo padre, e come egli vorrà così faremo.»

Le quali cose udendo messer Lizio dalla sua donna, per ciò che vecchio era e da questo forse un poco ritrosetto, disse: «Che rusignuolo è questo a che ella vuol dormire? Io la farò ancora adormentare al canto delle cicale.»

Il che la Caterina sappiendo, più per isdegno che per caldo non solamente la seguente notte non dormì ma ella non lasciò dormir la madre, pur del gran caldo dolendosi; il che avendo la madre sentito, fu la mattina a messer Lizio e gli disse: «Messere, voi avete poco cara questa giovane: che vi fa egli perché ella sopra quel veron si dorma? Ella non ha in tutta notte, trovato luogo di caldo; e oltre a ciò maravigliatevi voi perché egli le sia in piacere l’udir cantar l’usignuolo, che è una fanciullina? I giovani son vaghi delle cose simiglianti a loro.»

Messer Lizio udendo questo disse: «Via, faccialevisi un letto tale quale egli vi cape e fallo fasciar da torno d’alcuna sargia: e dormavi e oda cantar l’usignuolo a suo senno.»

La giovane, saputo questo, prestamente vi fece fare un letto; e dovendovi la sera vegnente dormire, tanto attese che ella vide Ricciardo e fecegli un segno posto tra loro, per lo quale egli intese ciò che far si dovea. Messer Lizio, sentendo la giovane essersi andata a letto, serrato uno uscio che della sua camera andava sopra ’l verone, similmente s’andò a dormire. Ricciardo, come d’ogni parte sentì le cose chete, con l’aiuto d’una scala salì sopra un muro, e poi di ’n su quel muro appiccandosi a certe morse d’un altro muro, con gran fatica e pericolo se caduto fosse, pervenne in sul verone, dove chetamente con grandissima festa dalla giovane fu ricevuto; e dopo molti basci si coricarono insieme e quasi per tutta la notte diletto e piacer presono l’un dell’altro, molte volte faccendo cantar l’usignuolo. E essendo le notti piccole e il diletto grande e già al giorno vicino, il che essi non credevano, e sì ancora riscaldati sì dal tempo e sì dallo scherzare, senza alcuna cosa adosso s’adormentarono, avendo la Caterina col destro braccio abracciato sotto il collo Ricciardo e con la sinistra mano presolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare.

E in cotal guisa dormendo, senza svegliarsi sopravenne il giorno, e messer Lizio si levò; e ricordandosi la figliuola dormire sopra ’l verone, chetamente l’uscio aprendo disse: «Lasciami vedere come l’usignuolo ha fatto questa notte dormire la Caterina.» E andato oltre pianamente levò alto la sargia della quale il letto era fasciato, e Ricciardo e lei vide ignudi e iscoperti dormire abbracciati nella guisa di sopra mostrata; e avendo ben conosciuto Ricciardo, di quindi s’uscì e andonne alla camera della sua donna e chiamolla, dicendo: «Su tosto, donna, lievati e vieni a vedere che tua figliuola è stata sì vaga dell’usignuolo, che ella l’ha preso e tienlosi in mano.»

 

Disse la donna: «Come può questo essere?»

Disse messer Lizio: «Tu il vedrai se tu vien tosto.»

La donna, affrettatasi di vestire, chetamente seguitò messer Lizio; e giunti amenduni al letto e levata la sargia, poté manifestamente vedere madonna Giacomina come la figliuola avesse preso e tenesse l’usignuolo il quale ella tanto disiderava d’udir cantare.

Di che la donna, tenendosi forte di Ricciardo ingannata, volle gridare e dirgli villania: ma messer Lizio le disse: «Donna, guarda che per quanto tu hai caro il mio amore tu non facci motto, ché in verità, poscia che ella l’ha preso, egli sì sarà suo. Ricciardo è gentile uomo e ricco giovane; noi non possiamo aver di lui altro che buon parentado: se egli si vorrà a buon concio da me partire, e’ gli converrà che primieramente la sposi, sì che egli si troverà aver messo l’usignuolo nella gabbia sua e non nell’altrui.» Di che la donna racconsolata, veggendo il marito non esser turbato di questo fatto e considerando che la figliuola aveva avuta la buona notte e erasi ben riposata e aveva l’usignuol preso, si tacque.

Né guari dopo queste parole stettero, che Ricciardo si svegliò; e veggendo che il giorno era chiaro si tenne morto e chiamò la Caterina dicendo: «Oimè, anima mia, come faremo, che il giorno è venuto e hammi qui colto?»

Alle quali parole messer Lizio, venuto oltre e levata la sargia, rispose: «Faren bene.»

Quando Ricciardo il vide, parve che gli fosse il cuore del corpo strappato; e levatosi a sedere in su il letto disse: «Signor mio, io vi cheggio mercé per Dio. Io conosco, sì come disleale e malvagio uomo, aver meritata morte, e per ciò fate di me quello che più vi piace: ben vi priego io, se esser può, che voi abbiate della mia vita mercé e che io non muoia.»

A cui messer Lizio disse: «Ricciardo, questo non meritò l’amore il quale io ti portava e la fede la quale io aveva in te; ma pur, poi che così è e a tanto fallo t’ha trasportato la giovanezza, acciò che tu tolga a te la morte e a me la vergogna, sposa per tua legittima moglie la Caterina, acciò che, come ella è stata questa notte tua, così sia mentre ella viverà. E in questa guisa puoi e la mia pace e la tua salvezza acquistare: e ove tu non vogli così fare, raccomanda a Dio l’anima tua.»

Mentre queste parole si dicevano la Caterina lasciò l’usignuolo, e ricopertasi cominciò fortemente a piagnere e a pregare il padre che a Ricciardo perdonasse; e d’altra parte pregava Ricciardo che quel facesse che messer Lizio volea, acciò che con sicurtà e lungo tempo potesseno insieme di così fatte notti avere. Ma a ciò non furono troppi prieghi bisogno: per ciò che d’una parte la vergogna del fallo commesso e la voglia dello emendare e d’altra la paura del morire e il disidero dello scampare, e oltre a questo l’ardente amore e l’appetito del possedere la cosa amata, liberamente e senza alcuno indugio gli fecer dire sé essere apparecchiato a far ciò che a messer Lizio piaceva.

Per che, messer Lizio fattosi prestare a madonna Giacomina uno de’ suoi anelli, quivi, senza mutarsi, in presenzia di loro Ricciardo per sua moglie sposò la Caterina. La qual cosa fatta, messer Lizio e la donna partendosi dissono: «Riposatevi oramai, ché forse maggior bisogno n’avete che di levarvi.»

Partiti costoro, i giovani si rabracciarono insieme, e non essendo più che sei miglia camminati la notte, altre due anzi che si levassero ne camminarono e fecer fine alla prima giornata. Poi levati e Ricciardo avuto più ordinato ragionamento con messer Lizio, pochi dì appresso, sì come si conveniva, in presenza degli amici e de’ parenti da capo sposò la giovane e con gran festa se ne la menò a casa e fece onorevoli e belle nozze; e poi con lei lungamente in pace e in consolazione uccellò agli usignuoli e di dì e di notte quanto gli piacque.

NOVELLA QUINTA

Guidotto da Cremona lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla e muorsi; la qual Giannol di Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza: azzuffansi insieme; riconoscesi la fanciulla esser sirocchia di Giannole e dassi per moglie a Minghino.

Aveva ciascuna donna, la novella dell’usignuolo ascoltando, tanto riso, che ancora, quantunque Filostrato ristato fosse di novellare, non per ciò esse di ridere si potevan tenere. Ma pur, poi che alquanto ebbero riso, la reina disse: – Sicuramente, se tu ieri ci affligesti, tu ci hai oggi tanto dileticate, che niuna meritamente di te si dee ramaricare. – E avendo a Neifile le parole rivolte, le ’mpose che novellasse; la quale lietamente così cominciò a parlare.

Poi che Filostrato ragionando in Romagna è intrato, a me per quella similmente gioverà d’andare alquanto spaziandomi col mio novellare.

Dico adunque che già nella città di Fano due lombardi abitarono, de’ quali l’un fu chiamato Guidotto da Cremona e l’altro Giacomin da Pavia, uomini omai attempati e stati nella lor gioventudine quasi sempre in fatti d’arme e soldati. Dove, venendo a morte Guidotto e niun figliuolo avendo né altro amico o parente di cui più si fidasse che di Giacomin facea, una sua fanciulla d’età forse di diece anni e ciò che egli al mondo avea, molto de’ suoi fatti ragionatogli, gli lasciò e morissi.

Avvenne in questi tempi che la città di Faenza, lungamente in guerra e in mala ventura stata, alquanto in miglior disposizion ritornò, e fu a ciascun che ritornar vi volesse liberamente conceduto il potervi tornare; per la qual cosa Giacomino, che altra volta dimorato v’era e piacendogli la stanza, là con ogni sua cosa si tornò, e seco ne menò la fanciulla lasciatagli da Guidotto, la quale egli come propria figliuola amava e trattava.

La quale crescendo divenne bellissima giovane quanto alcuna altra che allora fosse nella città; e così come era bella, era costumata e onesta: per la qual cosa da diversi fu cominciata a vagheggiare, ma sopra tutti due giovani assai leggiadri e da bene igualmente le posero grandissimo amore, in tanto che per gelosia insieme s’incominciarono a avere in odio fuor di modo: e chiamavasi l’uno Giannole di Severino e l’altro Minghino di Mingole. Né era alcun di loro, essendo ella d’età di quindici anni, che volentier non l’avesse per moglie presa se da’ suoi parenti fosse stato sofferto: per che, veggendolasi per onesta cagion vietare, ciascuno a doverla, in quella guisa che meglio potesse, avere si diede a procacciare.

Aveva Giacomino in casa una fante attempata e un fante che Crivello aveva nome, persona sollazzevole e amichevole assai: col quale Giannole dimesticatosi molto, quando tempo gli parve, ogni suo amor discoperse pregandolo che a dovere il suo disidero ottenere gli fosse favorevole, gran cose se ciò facesse promettendogli. Al quale Crivello disse: «Vedi, in questo io non potrei per te altro adoperare se non che, quando Giacomino andasse in alcuna parte a cenare, metterti là dove ella fosse, per ciò che, volendole io dir parole per te, ella non mi starebbe mai a ascoltare. Questo, s’el ti piace, io il ti prometto e farollo; fa tu poi, se tu sai, quello che tu creda che bene stea.»

Giannole disse che più non volea e in questa concordia rimase.

Minghino d’altra parte aveva dimesticata la fante e con lei tanto adoperato, che ella avea più volte ambasciate portate alla fanciulla e quasi del suo amor l’aveva accesa; e oltre a questo gli aveva promesso di metterlo con lei come avvenisse che Giacomino per alcuna cagione da sera fuori di casa andasse.

Avvenne adunque, non molto tempo appresso queste parole, che, opera di Crivello, Giacomino andò con un suo amico a cenare; e fattolo sentire a Giannole, compose con lui che, quando un certo cenno facesse, egli venisse e troverebbe l’uscio aperto. La fante d’altra parte, niente di questo sappiendo, fece sentire a Minghino che Giacomino non vi cenava, e gli disse che presso della casa dimorasse, sì che quando vedesse un segno ch’ella farebbe, egli venisse e entrassesene dentro. Venuta la sera, non sappiendo i due amanti alcuna cosa l’un dell’altro, ciascun sospettando dell’altro, con certi compagni armati a dovere entrare in tenuta andò: Minghino co’ suoi a dovere il segno aspettar si ripose in casa d’un suo amico vicin della giovane, Giannole co’ suoi alquanto dalla casa stette lontano.

Crivello e la fante, non essendovi Giacomino, s’ingegnavano di mandare l’un l’altro via. Crivello diceva alla fante: «Come non ti vai tu a dormire oramai? che ti vai tu pure avviluppando per casa?»

E la fante diceva a lui: «Ma tu perché non vai per signorto? che aspetti tu oramai qui, poi hai cenato?»

E così l’uno non poteva l’altro far mutar di luogo.

Ma Crivello, conoscendo l’ora posta con Giannole esser venuta, disse seco: «Che curo io di costei? Se ella non starà cheta, ella potrà aver delle sue»; e fatto il segno posto andò a aprir l’uscio e Giannole prestamente venuto con due de’ compagni andò dentro, e trovata la giovane nella sala la presono per menarla via. La giovane cominciò a resistere e a gridar forte, e la fante similmente; il che sentendo Minghino prestamente co’ suoi compagni là corse, e veggendo la giovane già fuor dell’uscio tirare, tratte le spade fuori, gridaron tutti: «Ahi traditori, voi siete morti; la cosa non andrà così: che forza è questa?»; e questo detto gl’incominciarono a ferire.

E d’altra parte la vicinanza uscita fuori al romore e co’ lumi e con arme, cominciarono questa cosa a biasimare e a aiutar Minghino; per che, dopo lunga contesa, Minghino tolse la giovane a Giannole e rimisela in casa di Giacomino. Né prima si partì la mischia, che i sergenti del capitan della terra vi sopragiunsero e molti di costor presero: e tra gli altri furon presi Minghino e Giannole e Crivello, e in prigione menatine. Ma poi racquietata la cosa e Giacomino essendo tornato e di questo accidente molto malinconoso, essaminando come stato fosse e trovato che in niuna cosa la giovane aveva colpa, alquanto si diè più pace, proponendo seco, acciò che più simil caso non avvenisse, di doverla come più tosto potesse maritare.

La mattina venuta, i parenti dell’una parte e dell’altra, avendo la verità del fatto sentita e conoscendo il male che a’ presi giovani ne poteva seguire volendo Giacomino quello adoperare che ragionevolmente avrebbe potuto, furono a lui e con dolci parole il pregarono che alla ingiuria ricevuta dal poco senno de’ giovani non guardasse tanto, quanto all’amore e alla benivolenza la qual credevano che egli a loro che il pregavano portasse, offerendo appresso se medesimi e i giovani che il male avevan fatto a ogni ammenda che a lui piacesse di prendere.

Giacomino, il quale de’ suoi dì assai cose vedute avea e era di buon sentimento, rispose brievemente: «Signori, se io fossi a casa mia come io sono alla vostra, mi tengo io sì vostro amico, che né di questo né d’altro io non farei se non quanto vi piacesse; e oltre a questo più mi debbo a’ vostri piaceri piegare in quanto voi a voi medisimi avete offeso, per ciò che questa giovane, forse come molti stimano, non è da Cremona né da Pavia, anzi è faentina, come che io né ella né colui da cui io l’ebbi non sapessimo mai di cui si fosse figliuola: per che di quello che pregate tanto sarà per me fatto quanto me ne imporrete.»

I valenti uomini, udendo costei essere di Faenza, si maravigliarono; e rendute grazie a Giacomino della sua liberale risposta, il pregarono che gli piacesse di dover loro dire come costei alle mani venuta gli fosse e come sapesse lei essere faentina; a’ quali Giacomin disse: «Guidotto da Cremona fu mio compagno e amico; e venendo a morte mi disse che quando questa città da Federigo imperadore fu presa, andatoci a ruba ogni cosa, egli entrò co’ suoi compagni in una casa e quella trovò di roba piena esser dagli abitanti abandonata, fuor solamente da questa fanciulla, la qual, d’età di due anni o in quel torno, lui sagliente su per le scale chiamò padre. Per la qual cosa a lui venuta di lei compassione, insieme con tutte le cose della casa seco ne la portò a Fano: e quivi morendo, con ciò che egli avea costei mi lasciò, imponendomi che quando tempo fosse io la maritassi e quello che stato fosse suo le dessi in dota. E venuta nella età da marito, non m’è venuto fatto di poterla dare a persona che mi piaccia: fare ’l volentieri anzi che altro caso simile a quel d’iersera me ne avvenisse.»

 

Era quivi intra gli altri un Guiglielmino da Medicina, che con Guidotto era stato a questo fatto e molto ben sapeva la cui casa stata fosse quella che Guidotto avea rubata; e vedendolo ivi tra gli altri, gli s’accostò e disse: «Bernabuccio, odi tu ciò che Giacomin dice?»

Disse Bernabuccio: «Sì, e testé vi pensava più, per ciò che io mi ricordo che in quegli rimescolamenti io perdei una figlioletta di quella età che Giacomin dice.»

A cui Guiglielmin disse: «Per certo questa è dessa, per ciò che io mi trovai già in parte ove io udii a Guidotto divisare dove la ruberia avesse fatta e conobbi che la tua casa era stata; e per ciò ramemorati se a alcun segnale riconoscerla credessi e fanne cercare, ché tu troverai fermamente che ella è tua figliuola.»

Per che pensando Bernabuccio si ricordò lei dovere avere una margine a guisa d’una crocetta sovra l’orecchia sinistra, stata d’una nascenza che fatta gli avea poco davanti a quello accidente tagliare: per che, senza alcuno indugio pigliare, accostatosi a Giacomino che ancora era quivi, il pregò che in casa sua il menasse e veder gli facesse questa giovane. Giacomino il vi menò volentieri e lei fece venire dinanzi da lui. La quale come Bernabuccio vide, così tutto il viso della madre di lei, che ancora bella donna era, gli parve vedere; ma pur, non stando a questo, disse a Giacomino che di grazia voleva da lui poterle un poco levare i capelli sopra la sinistra orecchia, di che Giacomino fu contento. Bernabuccio, accostatosi a lei che vergognosamente stava, levati con la man dritta i capelli, la croce vide; laonde veramente conoscendo lei essere la sua figliuola teneramente cominciò a piagnere e a abbracciarla, come che ella si contendesse.

E volto a Giacomin disse: «Fratel mio, questa è mia figliuola; la mia casa fu quella che fu da Guidotto rubata, e costei nel furor subito vi fu dentro dalla mia donna e sua madre dimenticata, e infino a qui creduto abbiamo che costei nella casa, che mi fu quel dì stesso arsa, ardesse.»

La giovane, udendo questo e vedendo l’uomo attempato e dando alle parole fede e da occulta vertù mossa, sostenendo li suoi abbracciamenti, con lui teneramente cominciò a piagnere. Bernabuccio di presente mandò per la madre di lei e per altre sue parenti e per le sorelle e per li fratelli di lei; e a tutti mostratala e narrando il fatto, dopo mille abbracciamenti, fatta la festa grande, essendone Giacomino forte contento, seco a casa sua ne la menò.

Saputo questo il capitano della città, che valoroso uomo era, e conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di Bernabuccio e fratel carnal di costei, avvisò di volersi del fallo commesso da lui mansuetamente passare: e intromessosi in queste cose, con Bernabuccio e con Giacomino insieme a Giannole e a Minghino fece far pace; e a Minghino con gran piacer di tutti i suoi parenti diede per moglie la giovane, il cui nome era Agnesa, e con loro insieme liberò Crivello e gli altri che impacciati v’erano per questa cagione.

E Minghino appresso lietissimo fece le nozze belle e grandi, e a casa menatalasi, con lei in pace e in bene poscia più anni visse.