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Decameron

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Per che la seguente notte occultamente nella sua camera il fé venire e cominciogli in cotal guisa a favellare: «Cimone, così come gl’iddii sono ottimi e liberali donatori delle cose agli uomini, così sono sagacissimi provatori delle loro virtù, e coloro li quali essi truovano fermi e constanti a tutti i casi, sì come più valorosi, di più alti meriti fanno degni. Essi hanno della tua vertù voluta più certa esperienza che quella che per te si fosse potuta mostrare dentro a’ termini della casa del padre tuo, il quale io conosco abondantissimo di ricchezze: e prima colle pugnenti sollecitudini d’amore da insensato animale, sì come io ho inteso, ti recarono a essere uomo; poi con dura fortuna e al presente con noiosa prigione voglion veder se l’animo tuo si muta da quello che era quando poco tempo lieto fosti della guadagnata preda. Il quale, se quello medesimo è che già fu, niuna cosa tanto lieta ti prestarono quanto è quella che al presente s’apparecchiano a donarti: la quale, acciò che tu l’usate forze ripigli e divenghi animoso, io intendo di dimostrarti. Pasimunda, lieto della tua disaventura e sollecito procuratore della tua morte, quanto può s’affretta di celebrare le nozze della tua Efigenia, acciò che in quelle goda della preda la qual prima lieta fortuna t’avea conceduta e subitamente turbata ti tolse; la qual cosa quanto ti debbia dolere, se così ami come io credo, per me medesimo il cognosco, al quale pari ingiuria alla tua in un medesimo giorno Ormisda suo fratello s’apparecchia di fare, a me, di Cassandrea, la quale io sopra tutte l’altre cose amo. E a fuggire tanta ingiuria e tanta noia della fortuna, niuna via ci veggio da lei essere stata lasciata aperta se non la vertù de’ nostri animi e delle nostre destre, nelle quali aver ci convien le spade e farci far via a te alla seconda rapina e a me alla prima delle due nostre donne; per che, se la tua, non vo’ dir libertà, la qual credo che poco senza la tua donna curi, ma la tua donna t’è cara di riavere, nelle tue mani, volendo me alla mia impresa seguire, l’hanno posta gl’iddii.»

Queste parole tutto feciono lo smarrito animo ritornare in Cimone, e senza troppo rispitto prendere alla risposta, disse: «Lisimaco, né più forte né più fido compagno di me puoi avere a così fatta cosa, se quello me ne dee seguire che tu ragioni; e per ciò quello che a te pare che per me s’abbia a fare, imponlomi e vedera’ti con maravigliosa forza seguire.»

Al quale Lisimaco disse: «Oggi al terzo dì le novelle spose entreranno primieramente nelle case de’ lor mariti, nelle quali tu co’ tuoi compagni armato e con alquanti miei, ne’ quali io mi fido assai, in sul far della sera entreremo, e quelle del mezzo de’ conviti rapite a una nave, la quale io ho fatta segretamente apprestare, ne meneremo, uccidendo chiunque ciò contrastar presummesse.»

Piacque l’ordine a Cimone, e tacito infino al tempo posto si stette in prigione.

Venuto il giorno delle nozze, la pompa fu grande e magnifica, e ogni parte della casa de’ due fratelli fu di lieta festa ripiena. Lisimaco, ogni cosa oportuna avendo appresta, Cimone e’ suoi compagni e similmente i suoi amici, tutti sotto i vestimenti armati, quando tempo gli parve, avendogli prima con molte parole al suo proponimento accesi, in tre parti divise, delle quali cautamente l’una mandò al porto, acciò che niun potesse impedire il salire sopra la nave quando bisognasse; e con l’altre due alle case di Pasimunda venuti, una ne lasciò alla porta, acciò che alcun dentro non gli potesse rinchiudere o a loro l’uscita vietare, e col rimanente insieme con Cimone montò su per le scale. E pervenuti nella sala dove le nuove spose con molte altre donne già a tavola erano per mangiare assettate ordinatamente, fattisi innanzi e gittate le tavole in terra, ciascun prese la sua e, nelle braccia de’ compagni messala, comandarono che alla nave apprestata le menassero di presente.

Le novelle spose cominciarono a piagnere e a gridare, e il simigliante l’altre donne e i servidori, e subitamente fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno. Ma Cimone e Lisimaco e’ lor compagni, tirate le spade fuori, senza alcun contasto, data loro da tutti la via, verso le scale se ne vennero; e quelle scendendo, occorse lor Pasimunda, il quale con un gran bastone in mano al romor traeva, cui animosamente Cimone sopra la testa ferì e ricisegliele ben mezza e morto sel fece cadere a’ piedi. All’aiuto del quale correndo il misero Ormisda, similmente da un de’ colpi di Cimon fu ucciso, e alcuni altri che appressar si vollero da’ compagni di Lisimaco e di Cimone fediti e ributtati indietro furono. Essi, lasciata piena la casa di sangue, di romore e di pianto e di tristizia, senza alcuno impedimento stretti insieme con la loro rapina alla nave pervennero: sopra la quale messe le donne e saliti essi e tutti i lor compagni, essendo già il lito pieno di gente armata che alla riscossa delle donne venia, dato de’ remi in acqua lieti andaron pe’ fatti loro.

E pervenuti in Creti, quivi da molti e amici e parenti lietamente ricevuti furono: e sposate le donne e fatta la festa grande, lieti della loro rapina goderono. In Cipri e in Rodi furono i romori e’ turbamenti grandi e lungo tempo per le costoro opere. Ultimamente, interponendosi e nell’un luogo e nell’altro gli amici e i parenti di costoro, trovaron modo che dopo alcuno essilio Cimone con Efigenia lieto si tornò in Cipri e Lisimaco similmente con Cassandrea ritornò in Rodi; e ciascun lietamente con la sua visse lungamente contento nella sua terra.

NOVELLA SECONDA

Costanza ama Martuccio Comito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi, palesaglisi; e egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco con lei in Lipari se ne torna.

La reina, finita sentendo la novella di Panfilo, poscia che molto commendata l’ebbe, a Emilia impose che una dicendone seguitasse; la quale così cominciò.

Ciascun si dee meritamente dilettare di quelle cose alle quali egli vede i guiderdoni secondo le affezioni seguitare: e per ciò che amare merita più tosto diletto che afflizione a lungo andare, con molto mio maggior piacere della presente materia parlando ubidirò la reina, che della precedente non feci il re.

Dovete adunque, dilicate donne, sapere che vicin di Cicilia è una isoletta chiamata Lipari, nella quale non è ancor gran tempo fu una bellissima giovane chiamata Gostanza, d’assai orrevoli genti dell’isola nata; della quale un giovane che dell’isola era, chiamato Martuccio Gomito, assai legiadro e costumato e nel suo mestier valoroso, s’innamorò. La quale sì di lui similmente s’accese, che mai ben non sentiva se non quanto il vedeva; e disiderando Martuccio d’averla per moglie, al padre di lei la fece adimandare, il quale rispose lui esser povero e per ciò non volergliele dare. Martuccio, sdegnato di vedersi per povertà rifiutare, con certi suoi amici e parenti giurò di mai in Lipari non tornare se non ricco; e quindi partitosi, corseggiando cominciò a costeggiare la Barberia, rubando ciascuno che meno poteva di lui: nella qual cosa assai gli fu favorevole la fortuna, se egli avesse saputo porre modo alle felicità sue. Ma non bastandogli d’essere egli e’ suoi compagni in brieve tempo divenuti ricchissimi, mentre che di trasricchire cercavano avvenne che da certi legni di saracini, dopo lunga difesa, co’ suoi compagni fu preso e rubato, e di lor la maggior parte da’ saracini mazzerati e isfondolato il legno, esso menato a Tunisi fu messo in prigione e in lunga miseria guardato.

In Lipari tornò, non per uno o per due ma per molte e diverse persone, la novella che tutti quegli che con Martuccio erano sopra il legnetto erano stati annegati. La giovane, la quale senza misura della partita di Martuccio era stata dolente, udendo lui con gli altri esser morto, lungamente pianse e seco dispose di non voler più vivere; e non sofferendole il cuore di se medesima con alcuna violenzia uccidere, pensò nuova necessità dare alla sua morte: e uscita segretamente una notte di casa il padre e al porto venutasene, trovò per ventura alquanto separata dall’altre navi una navicella di pescatori, la quale, per ciò che pure allora smontati n’erano i signori di quella, d’albero e di vela e di remi la trovò fornita. Sopra la quale prestamente montata e co’ remi alquanto in mar tiratasi, ammaestrata alquanto dell’arte marineresca sì come generalmente tutte le femine in quella isola sono, fece vela e gittò via i remi e il timone e al vento tutta si commise, avvisando dover di necessità avvenire o che il vento barca senza carico e senza governator rivolgesse, o a alcuno scoglio la percotesse e rompesse, di che ella, eziandio se campar volesse, non potesse ma di necessità annegasse; e avviluppatasi la testa in un mantello nel fondo della barca piagnendo si mise a giacere.

Ma tutto altramenti adivenne che ella avvisato non avea: per ciò che, essendo quel vento che traeva tramontana e questo assai soave, e non essendo quasi mare e ben reggente la barca, il seguente dì alla notte che su montata v’era, in sul vespro ben cento miglia sopra Tunisi a una piaggia vicina a una città chiamata Susa ne la portò. La giovane d’esser più in terra che in mare niente sentiva, sì come colei che mai per alcuno accidente da giacere non aveva il capo levato né di levare intendeva.

Era allora per avventura, quando la barca ferì sopra il lito, una povera feminetta alla marina la quale levava dal sole reti di suoi pescatori. La quale, vedendo la barca, si maravigliò come con la vela piena fosse lasciata percuotere in terra; e pensando che in quella i pescator dormissono, andò alla barca e niuna altra persona che questa giovane vi vide; la quale essalei che forte dormiva chiamò molte volte e, alla fine fattala risentire e all’abito conosciutala che cristiana era, parlando latino la dimandò come fosse che ella quivi in quella barca così soletta fosse arrivata. La giovane, udendo la favella latina, dubitò non forse altro vento l’avesse a Lipari ritornata; e subitamente levatasi in piè riguardò a torno e, non conoscendo le contrade e veggendosi in terra, domandò la buona femina dove ella fosse.

 

A cui la buona femina rispose: «Figliuola mia, tu se’ vicina a Susa in Barberia.»

Il che udito, la giovane, dolente che Idio non le aveva voluto la morte mandare, dubitando di vergogna e non sappiendo che farsi, a piè della sua barca a seder postasi cominciò a piagnere. La buona femina, questo vedendo, ne le prese pietà e tanto la pregò, che in una sua capannetta la menò, e quivi tanto la lusingò, che ella le disse come quivi arrivata fosse; per che, sentendola la buona femina essere ancor digiuna, suo pan duro e alcun pesce e acqua l’apparecchiò e tanto la pregò, che ella mangiò un poco. La Gostanza appresso domandò chi fosse la buona femina che così latin parlava; a cui ella disse che da Trapani era e aveva nome Carapresa e quivi serviva certi pescatori cristiani. La giovane, udendo dire «Carapresa», quantunque dolente fosse molto e non sappiendo ella stessa che ragione a ciò la si movesse, in se stessa prese buono agurio d’aver questo nome udito e cominciò a sperar senza saper che e alquanto a cessare il disiderio della morte: e, senza manifestar chi si fosse né donde, priegò caramente la buona femina che per l’amor di Dio avesse misericordia della sua giovanezza e che alcun consiglio le desse per lo quale ella potesse fuggire che villania fatta non le fosse.

Carapresa, udendo costei, a guisa di buona femina, lei nella capannetta lasciata, prestamente raccolte le sue reti a lei ritornò, e tutta nel suo mantello stesso chiusala in Susa con seco la menò; e quivi pervenuta le disse: «Gostanza, io ti menerò in casa d’una bonissima donna saracina, alla quale io fo molto spesso servigio di sue bisogne, e ella è donna antica e misericordiosa; io le ti raccomanderò quanto io potrò il più e certissima sono che ella ti riceverà volentieri e come figliuola ti tratterà, e tu, con lei stando, t’ingegnerai a tuo potere servendola d’acquistare la grazia sua insino a tanto che Idio ti mandi miglior ventura»; e come ella disse così fece.

La donna, la quale vecchia era oramai, udita costei, guardò la giovane nel viso e cominciò a lagrimare e presala le basciò la fronte, e poi per la mano nella sua casa ne la menò, nella quale ella con alquante altre femine dimorava senza alcuno uomo, e tutte di diverse cose lavoravano di lor mano, di seta, di palma, di cuoio diversi lavorii faccendo. De’ quali la giovane in pochi dì apparò a fare alcuno e con loro insieme incominciò a lavorare, e in tanta grazia e buono amore venne della buona donna e dell’altre, che fu maravigliosa cosa; e in poco spazio di tempo, mostrandogliele esse, il lor linguaggio apparò.

Dimorando adunque la giovane in Susa, essendo già stata a casa sua pianta per perduta e per morta, avvenne che, essendo re di Tunisi uno che si chiamava Meriabdela, un giovane di gran parentado e di molta potenza, il quale era in Granata, dicendo che a lui il reame di Tunisi apparteneva, fatta grandissima moltitudine di gente, sopra il re di Tunisi se ne venne per cacciarlo del regno.

Le quali cose venendo a orecchie a Martuccio Gomito in prigione, il quale molto bene sapeva il barbaresco, e udendo che il re di Tunisi faceva grandissimo sforzo a sua difesa, disse a un di quegli li quali lui e’ suoi compagni guardavano: «Se io potessi parlare al re, e’ mi dà il cuore che io gli darei un consiglio per lo quale egli vincerebbe la guerra sua.»

La guardia disse queste parole al suo signore, il quale al re il rapportò incotanente; per la qual cosa il re comandò che Martuccio gli fosse menato; e domandato da lui che consiglio il suo fosse, gli rispose così: «Signor mio, se io ho bene in altro tempo, che io in queste vostre contrade usato sono, riguardato alla maniera la quale tenete nelle vostre battaglie, mi pare che più con arcieri che con altro quelle facciate; e per ciò, ove si trovasse modo che agli arcieri del vostro avversario mancasse il saettamento e i vostri n’avessero abbondevolmente, io avviso che la vostra battaglia si vincerebbe.»

A cui il re disse: «Senza dubbio, se cotesto si potesse fare, io mi crederei essere vincitore.»

Al quale Martuccio disse: «Signor mio, dove voi vogliate, egli si potrà ben fare, e udite come. A voi convien far fare corde molto più sottili agli archi de’ vostri arcieri che quelle che per tutti comunalmente s’usano e appresso far fare saettamento, le cocche del quale non sien buone se non a queste corde sottili; e questo convien che sia sì segretamente fatto, che il vostro avversario nol sappia, per ciò che egli ci troverebbe modo. E la cagione per che io dico questo è questa: poi che gli arcieri del vostro nemico avranno il suo saettamento saettato e i nostri il suo, sapete che di quello che i vostri saettato avranno converrà, durando la battaglia, che i vostri nemici ricolgano, e a’ nostri converrà ricoglier del loro; ma gli avversarii non potranno il saettamento saettato da’ vostri adoperare per le picciole cocche che non riceveranno le corde grosse, dove a’ nostri avverrà il contrario del saettamento de’ nemici, per ciò che la sottil corda riceverà ottimamente la saetta che avrà larga cocca: e così i vostri saranno di saettamento copiosi, dove gli altri n’avranno difetto.»

Al re, il quale savio signore era, piacque il consiglio di Martuccio; e interamente seguitolo, per quello trovò la sua guerra aver vinta; laonde sommamente Martuccio venne nella sua grazia e per conseguente in grande e ricco stato.

Corse la fama di queste cose per la contrada e agli orecchi della Gostanza pervenne Martuccio Gomito esser vivo, il quale lungamente morto aveva creduto; per che l’amor di lui, già nel cuor di lei intiepidito, con subita fiamma si raccese e divenne maggiore e la morta speranza suscitò. Per la qual cosa alla buona donna con cui dimorava interamente ogni suo accidente aperse, e le disse sé disiderare d’andare a Tunisi, acciò che gli occhi saziasse di ciò che gli orecchi con le ricevute voci fatti gli aveano disiderosi. La quale il suo disiderio le lodò molto; e, come sua madre stata fosse, entrata in una barca con lei insieme a Tunisi andò, dove con la Gostanza in casa d’una sua parente fu ricevuta onorevolemente. E essendo con lei andata Carapresa, la mandò a sentire quello che di Martuccio trovar potesse; e trovato lui esser vivo e in grande stato e rapportogliele, piacque alla gentil donna di volere esser colei che a Martuccio significasse quivi a lui esser venuta la sua Gostanza.

E andatasene un dì là dove Martuccio era, gli disse: «Martuccio, in casa mia è capitato un tuo servidore che vien da Lipari, e quivi ti vorrebbe segretamente parlare; e per ciò, per non fidarmene a altri, sì come egli ha voluto, io medesimo tel sono venuto a significare.» Martuccio la ringraziò e appresso lei alla sua casa se n’andò.

Quando la giovane il vide, presso fu che di letizia non morì, e non potendosene tenere subitamente con le braccia aperte gli corse al collo e abbracciollo, e per compassione de’ passati infortunii e per la presente letizia, senza potere alcuna cosa dire, teneramente cominciò a lagrimare. Martuccio, veggendo la giovane, alquanto maravigliandosi soprastette e poi sospirando disse: «O Gostanza mia, or se’ tu viva? Egli è buon tempo che io intesi che tu perduta eri, né a casa nostra di te alcuna cosa si sapeva»; e questo detto, teneramente lagrimando l’abracciò e basciò. La Gostanza gli raccontò ogni suo accidente e l’onor che ricevuto avea dalla gentil donna con la quale dimorata era.

Martuccio, dopo molti ragionamenti da lei partitosi, al re suo signore n’andò e tutto gli raccontò, cioè gli suoi casi e quegli della giovane, aggiugnendo che con sua licenzia intendeva secondo la nostra legge di sposarla. Il re si maravigliò di queste cose; e fatta la giovane venire e da lei udendo che così era come Martuccio aveva detto, disse: «Adunque l’hai tu per marito molto ben guadagnato.» E fatti venire grandissimi e nobili doni, parte a lei ne diede e parte a Martuccio, dando loro licenzia di fare intra sé quello che più fosse a grado a ciascheduno.

Martuccio, onorata molto la gentil donna con la quale la Gostanza dimorata era e ringraziatala di ciò che in servigio di lei aveva adoperato e donatile doni quali a lei si confaceano e accomandatala a Dio, non senza molte lagrime dalla Gostanza, si partì; e appresso, con licenzia del re sopra un legnetto montati, e con lor Carapresa, con prospero vento a Lipari ritornarono, dove fu sì grande la festa, che dire non si potrebbe giammai. Quivi Martuccio la sposò e grandi e belle nozze fece; e poi appresso con lei insieme in pace e in riposo lungamente goderono del loro amore.

NOVELLA TERZA

Pietro Boccamazza si fugge con l’Agnolella; truova ladroni: la giovane fugge per una selva e è condotta a un castello, Pietro è preso e delle mani de’ ladron fugge e dopo alcuno accidente capita a quel castello dove l’Agnolella era; e sposatala con lei se ne torna a Roma.

Niuno ne fu tra tutti che la novella d’Emilia non commendasse; la quale conoscendo la reina esser finita, volta a Elissa, che ella continuasse le ’mpose; la quale, d’ubidire disiderosa, incominciò.

A me, vezzose donne, si para dinanzi una malvagia notte da due giovanetti poco discreti avuta; ma per ciò che a essa seguitarono molti lieti giorni, sì come conforme al nostro proposito mi piace di raccontarla.

In Roma, la quale come è oggi coda così già fu capo del mondo, fu un giovane, poco tempo fa, chiamato Pietro Boccamazza, di famiglia tralle romane assai onorevole, il quale s’innamorò d’una bellissima e vaga giovane chiamata Agnolella, figliuola d’uno ch’ebbe nome Gigliuozzo Saullo, uomo plebeio ma assai caro a’ romani. E amandola, tanto seppe operare, che la giovane cominciò non meno a amar lui che egli amasse lei. Pietro, da fervente amor costretto e non parendogli più dover sofferir l’aspra pena che il disiderio che avea di costei gli dava, la domandò per moglie; la qual cosa come i suoi parenti seppero, tutti furono a lui e biasimatogli forte ciò che egli voleva fare; e d’altra parte fecero dire a Gigliuozzo Saullo che a niun partito attendesse alle parole di Pietro, per ciò che, se ’l facesse, mai per amico né per parente l’avrebbero.

Pietro, veggendosi quella via impedita per la qual sola si credeva potere al suo disio pervenire, volle morir di dolore; e se Gigliuozzo l’avesse consentito, contro al piacere di quanti parenti avea per moglie la figliuola avrebbe presa. Ma pur si mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avrebbe effetto; e per interposita persona sentito che a grado l’era, con lei si convenne di doversi con lui di Roma fuggire. Alla qual cosa dato ordine, Pietro una mattina per tempissimo levatosi con lei insieme montò a cavallo, e presero il cammin verso Alagna, là dove Pietro aveva certi amici de’ quali esso molto si confidava: e così cavalcando, non avendo spazio di far nozze per ciò che temevano d’esser seguitati, del loro amore andando insieme ragionando, alcuna volta l’un l’altro basciava.

Ora avvenne che, non essendo a Pietro troppo noto il cammino, come forse otto miglia da Roma dilungati furono, dovendo a man destra tenere si misero per una via a sinistra; né furono guari più di due miglia cavalcati che essi si videro vicini a un castelletto del quale, essendo stati veduti, subitamente uscirono da dodici fanti. E già essendo loro assai vicini, la giovane gli vide, per che gridando disse: «Pietro, campiamo, ché noi siamo assaliti!», e come seppe, verso una selva grandissima volse il suo ronzino, e tenendogli gli sproni stretti al corpo, attenendosi all’arcione. Il ronzino, sentendosi pugnere, correndo per quella selva ne la portava.

Pietro, che più al viso di lei andava guardando che al cammino, non essendosi tosto come lei de’ fanti che venieno avveduto, mentre che egli sanza vedergli ancora andava guardando donde venissero, fu da lor sopragiunto e preso e fatto del ronzino smontare; e domandato chi egli era, e avendol detto, costor cominciaron fra loro a aver consiglio e a dire: «Questi è degli amici de’ nemici nostri: che ne dobbian fare altro se non torgli quei panni e quel ronzino e impiccarlo per dispetto degli Orsini a una di queste querce?»

E essendosi tutti a questo consiglio accordati, avevano a Pietro comandato che si spogliasse; il quale spogliandosi, già del suo male indovino, avvenne che un guato di ben venticinque fanti subitamente uscì adosso a costoro gridando: «Alla morte, alla morte !» Li quali, soprapresi da questo, lasciato star Pietro, si volsero alla lor difesa; ma veggendosi molti meno che gli assalitori, cominciarono a fuggire, e costoro a seguirgli. La qual cosa Pietro veggendo, subitamente prese le cose sue e salì sopra il suo ronzino e cominciò quanto poteva a fuggire per quella via donde aveva veduto che la giovane era fuggita. Ma non vedendo per la selva né via né sentiero, né pedata di caval conoscendovi, poscia che a lui parve esser sicuro e fuor delle mani di coloro che preso l’aveano e degli altri ancora da cui quegli erano stati assaliti, non ritrovando la sua giovane, più doloroso che altro uomo cominciò a piagnere e a andarla or qua or là per la selva chiamando; ma niuna persona gli rispondeva, e esso non ardiva a tornare adietro e andando innanzi non conosceva dove arrivar si dovesse; e d’altra parte delle fiere che nelle selve sogliono abitare aveva a un’ora di se stesso paura e della sua giovane, la qual tuttavia gli pareva vedere o da orso o da lupo strangolare.

 

Andò adunque questo Pietro sventurato tutto il giorno per questa selva gridando e chiamando, a tal ora tornando indietro che egli si credeva innanzi andare; e già, tra per lo gridare e per lo piagnere e per la paura e per lo lungo digiuno, era sì vinto, che più avanti non poteva. E vedendo la notte sopravenuta, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, trovata una grandissima quercia, smontato del ronzino a quella il legò, e appresso, per non esser dalle fiere divorato la notte, su vi montò; e poco appresso, levatasi la luna e ’l tempo essendo chiarissimo, non avendo Pietro ardire d’adormentarsi per non cadere, come che, perché pure agio avuto n’avesse, il dolore né i pensieri che della sua giovane avea non l’avrebber lasciato; per che egli, sospirando e piagnendo e seco la sua disaventura maladicendo, vegghiava.

La giovane fuggendo, come davanti dicemmo, non sappiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dove più gli pareva la ne portava, si mise tanto fralla selva, che ella non poteva vedere il luogo donde in quella entrata era: per che, non altramenti che avesse fatto Pietro, tutto il dì, ora aspettando e ora andando e piagnendo e chiamando e della sua sciagura dolendosi, per lo salvatico luogo s’andò avvolgendo. Alla fine, veggendo che Pietro non venia, essendo già vespro s’abbattè a un sentieruolo, per lo qual messasi e seguitandolo il ronzino, poi che più di due miglia fu cavalcata, di lontano si vide davanti una casetta, alla quale essa come più tosto poté se n’andò; e quivi trovò un buono uomo attempato molto con una sua moglie che similmente era vecchia.

Li quali, quando la videro sola, dissero: «O figliuola, che vai tu a quest’ora così sola faccendo per questa contrada?»

La giovane piagnendo rispose che aveva la sua compagnia nella selva smarrita e domandò come presso fosse Alagna; a cui il buono uomo rispose: «Figliuola mia, questa non è la via d’andare a Alagna; egli ci ha delle miglia più di dodici.»

Disse allora la giovane: «E come ci sono abitanze presso da potere albergare?»

A cui il buono uomo rispose: «Non ci sono in luogo niun sì presso, che tu di giorno vi potessi andare.»

Disse la giovane allora: «Piacerebbevi egli, poi che altrove andar non posso, di qui ritenermi per l’amor di Dio stanotte?»

Il buono uomo rispose: «Giovane, che tu con noi ti rimanga per questa sera n’è caro; ma tuttavia ti vogliam ricordare che per queste contrade e di dì e di notte e d’amici e di nemici vanno di male brigate assai, le quali molte volte ne fanno di gran dispiaceri e di gran danni; e se per isciagura, essendoci tu, ce ne venisse alcuna, e’, veggendoti bella e giovane come tu se’, e’ ti farebbono dispiacere e vergogna, e noi non te ne potremmo aiutare. Vogliantelo aver detto, acciò che tu poi, se questo avvenisse, non ti possi di noi ramaricare.»

La giovane, veggendo che l’ora era tarda, ancora che le parole del vecchio la spaventassero, disse: «Se a Dio piacerà, Egli ci guarderà e voi e me di questa noia; la quale se pur m’avenisse, è molto men male esser dagli uomini straziata che sbranata per li boschi dalle fiere.»

E così detto, discesa del suo ronzino, se n’entrò nella casa del povero uomo e quivi con essoloro di quello che avevano poveramente cenò, e appresso tutta vestita in su un lor letticello con loro insieme a giacer si gittò: né in tutta la notte di sospirar né di piagnere la sua sventura e quella di Pietro, del quale non sapea che si dovesse sperare altro che male, non rifinò.

E essendo già vicino al matutino, ella sentì un gran calpestio di gente andare: per la qual cosa levatasi, se n’andò in una gran corte, che la piccola casetta di dietro a sé avea, e vedendo dall’una delle parti di quella molto fieno, in quello s’andò a nascondere, acciò che, se quella gente quivi venisse, non fosse così tosto trovata. E appena di nasconder compiuta s’era, che coloro, che una gran brigata di malvagi uomini era, furono alla porta della piccola casa; e fattosi aprire e dentro entrati e trovato il ronzin della giovane ancora con tutta la sella, domandaron chi vi fosse.

Il buono uomo, non vedendo la giovane, rispose: «Niuna persona ci è altri che noi: ma questo ronzino, a cui che fuggito si sia, ci capitò iersera, e noi cel mettemmo in casa acciò che i lupi nol manicassero.»

«Adunque» disse il maggiore della brigata «sarà egli buon per noi, poi che altro signore non ha.»

Sparti adunque costor tutti per la piccola casa, parte n’andò nella corte: e poste giù lor lance e lor tavolacci, avvenne che uno di loro, non sappiendo altro che farsi, gittò la sua lancia nel fieno e assai vicin fu a uccidere la nascosa giovane e ella a palesarsi, per ciò che la lancia le venne allato alla sinistra poppa, tanto che col ferro le stracciò de’ vestimenti, laonde ella fu per mettere un grande strido temendo d’esser fedita; ma ricordandosi là dove era, tutta riscossasi, stette cheta. La brigata, chi qua e chi là, cotti lor cavretti e loro altra carne e mangiato e bevuto, s’andaron pe’ fatti loro e menaronsene il ronzin della giovane.

E essendo già dilungati alquanto, il buono uomo cominciò a domandar la moglie: «Che fu della nostra giovane che iersera ci capitò, ché io veduta non la ci ho poi che noi ci levammo?»

La buona femina rispose che non sapea e andonne guatando.

La giovane, sentendo coloro esser partiti, uscì del fieno: di che il buono uomo forte contento, poi che vide che alle mani di coloro non era venuta e faccendosi già dì, le disse: «Omai che il dì ne viene, se ti piace noi t’accompagneremo infino a un castello che è presso di qui cinque miglia, e serai in luogo sicuro; ma converratti venire a piè, per ciò che questa mala gente che ora di qui si parte se n’ha menato il ronzin tuo.» La giovane, datasi pace di ciò, gli pregò per Dio che al castello la menassero; per che entrati in via in su la mezza terza vi giunsero.

Era il castello d’uno degli Orsini, il quale si chiamava Liello di Campo di Fiore, e per ventura v’era una sua donna, la qual bonissima e santa donna era; e veggendo la giovane, prestamente la ricognobbe e con festa la ricevette e ordinatamente volle sapere come quivi arrivata fosse. La giovane gliele contò tutto. La donna, che cognoscea similmente Pietro, sì come amico del marito di lei, dolente fu del caso avvenuto; e udendo dove stato fosse preso, s’avisò che morto fosse stato. Disse adunque alla giovane: «Poi che così è che Pietro tu non sai, tu dimorerai qui meco infino a tanto che fatto mi verrà di potertene sicuramente mandare a Roma.»