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Decameron

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La donna, che da altro dolore stimolata era, rispose adirata dicendo: «Che direste voi, maestro, d’una gran cosa, quando d’una guastadetta d’acqua versata fate sì gran romore? Non se ne truova egli più al mondo?»

A cui il maestro disse: «Donna, tu avvisi che quella fosse acqua chiara; non è così, anzi era un’acqua lavorata da far dormire», e contolle per che cagion fatta l’avea.

Come la donna ebbe questo udito, così s’avisò che Ruggieri quella avesse beuta e per ciò loro fosse paruto morto, e disse: «Maestro, noi nol sapavamo, e per ciò rifatevi dell’altra.» Il maestro, veggendo che altro esser non poteva, fece far della nuova.

Poco appresso la fante, che per comandamento della donna era andata a saper quello che di Ruggier si dicesse, tornò e dissele: «Madonna, di Ruggier dice ogn’uom male, né, per quello che io abbia potuto sentire, amico né parente alcuno è che per aiutarlo levato si sia o si voglia levare; e credesi per fermo che domane lo stradicò il farà impiccare. E oltre a questo vi vo’ dire una nuova cosa, che egli mi pare aver compreso come egli in casa de’ prestator pervenisse: e udite come. Voi sapete bene il legnaiuolo di rimpetto al quale era l’arca dove noi il mettemmo; egli era testé con uno, di cui mostra che quella arca fosse, alla maggior quistion del mondo, ché colui domandava i denari dell’arca sua e il maestro rispondeva che egli non aveva venduta l’arca, anzi gli era la notte stata imbolata. Al quale colui diceva: «Non è così, anzi l’hai venduta alli due giovani prestatori, sì come essi stanotte mi dissero quando in casa loro la vidi allora che fu preso Ruggieri». A cui il legnaiuolo disse: «Essi mentono, per ciò che mai io non la vendei loro ma essi questa notte passata me l’avranno imbolata; andiamo a loro». E sì se ne andarono di concordia a casa i prestatori, e io me ne son qui venuta; e come voi potete vedere, io comprendo che in cotal guisa Ruggieri là dove trovato fu transportato fosse: ma come quivi si risuscitasse, non so vedere io.»

La donna allora comprendendo ottimamente come il fatto stava, disse alla fante ciò che dal medico udito aveva e pregolla che allo scampo di Ruggieri dovesse dare aiuto, sì come colei che, volendo, a un’ora poteva Ruggieri scampare e servare l’onor di lei.

La fante disse: «Madonna, insegnatemi come, e io farò volentieri ogni cosa.»

La donna, sì come colei alla quale strignevano i cintolini, con subito consiglio avendo avvisato ciò che da fare era, ordinatamente di quello la fante informò.

La quale primieramente se n’andò al medico e piagnendo gl’incominciò a dire: «Messere, a me conviene domandarvi perdono d’un gran fallo il quale verso di voi ho commesso.»

Disse il maestro: «E di che?»

E la fante, non restando di lagrimar, disse: «Messer, voi sapete che giovane Ruggieri d’Aieroli sia, al quale, piaccendogli io, tra per paura e per amor mi convenne uguanno divenire amica; e sappiendo egli iersera che voi non c’eravate, tanto mi lusingò, che io in casa vostra nella mia camera a dormir meco il menai, e avendo egli sete né io avendo ove più tosto ricorrere o per acqua o per vino, non volendo che la vostra donna, la quale in sala era, mi vedesse, ricordandomi che nella vostra camera una guastadetta d’acqua aveva veduta, corsi per quella e sì gliele diedi bere e la guastada riposi donde levata l’aveva; di che io truovo che voi in casa un gran romor n’avete fatto. E certo io confesso che io feci male; ma chi è colui che alcuna volta mal non faccia? Io ne son molto dolente d’averlo fatto; non pertanto, per questo e per quello che poi ne seguì, Ruggieri n’è per perdere la persona, per che io quanto più posso vi priego che voi mi perdoniate e mi diate licenzia che io vada a aiutare, in quello che per me si potrà, Ruggieri.»

Il medico udendo costei, con tutto che ira avesse, motteggiando rispose: «Tu te n’hai data la perdonanza tu stessa, per ciò che, dove tu credesti questa notte un giovane avere che molto bene il pilliccion ti scotesse, avesti un dormiglione; e per ciò va e procaccia la salute del tuo amante e per innanzi ti guarda di più in casa non menarlo, ché io ti pagherei di questa volta e di quella.»

Alla fante per la prima broccata parendo aver ben procacciato, quanto più tosto poté se n’andò alla prigione dove Ruggieri era e tanto il prigionier lusingò, che egli lasciò a Ruggier favellare; la quale, poi che informato l’ebbe di ciò che risponder dovesse allo stradicò se scampar volesse, tanto fece che allo stradicò andò davanti.

Il quale, prima che ascoltar la volesse, per ciò che fresca e gagliarda era, volle una volta attaccar l’uncino alla cristianella di Dio, e ella, per essere meglio udita, non ne fu punto schifa; e dal macinio levatasi disse: «Messere, voi avete qui Ruggieri d’Aieroli preso per ladro, e non è così il vero.» E cominciatasi dal capo gli contò la storia infin la fine, come ella, sua amica, in casa il medico menato l’avea e come gli avea data bere l’acqua adoppiata non conoscendola, e come per morto l’avea nell’arca messo; e appresso questo ciò che tra maestro legnaiuolo e il signor dell’arca aveva udito gli disse, per quello mostrandogli come in casa i prestatori fosse pervenuto Ruggieri.

Lo stradicò, veggendo che leggier cosa era a ritrovare se ciò fosse vero, prima il medico domandò se vero fosse dell’acqua, e trovò che così era stato: e appresso fatti richiedere il legnaiuolo e colui di cui stata era l’arca e’ prestatori, dopo molte novelle trovò li prestatori la notte passata aver l’arca imbolata e in casa messalasi. Ultimamente mandò per Ruggieri, e domandatolo dove la sera dinanzi albergato fosse, rispose che dove albergato si fosse non sapeva ma ben si ricordava che andato era a albergare con la fante del maestro Mazzeo, nella camera della quale aveva bevuta acqua per gran sete ch’avea, ma che poi di lui stato si fosse, se non quando in casa i prestatori destandosi s’era trovato in una arca, egli non sapea. Lo stradicò, queste cose udendo e gran piacer pigliandone, e alla fante e a Ruggieri e al legnaiuolo e a’ prestatori più volte ridir la fece.

Alla fine, cognoscendo Ruggieri essere innocente, condannati i prestatori che imbolata avevan l’arca in diece once, liberò Ruggieri; il che quanto a lui fosse caro, niun ne domandi, e alla sua donna fu carissimo oltre misura. La qual poi con lui insieme e con la cara fante, che dare gli aveva voluto delle coltella, più volte rise e ebbe festa, il loro amore e il loro sollazzo sempre continuando di bene in meglio: il che vorrei che così a me avvenisse ma non d’esser messo nell’arca.

CONCLUSIONE

Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avevano contristati, questa ultima di Dioneo le fece ben tanto ridere, e spezialmente quando disse lo stradicò aver l’uncino attaccato, che esse si poterono della compassione avuta dell’altre ristorare. Ma veggendo il re che il sole cominciava a farsi giallo e il termine della sua signoria era venuto, con assai piacevoli parole alle belle donne si scusò di ciò che fatto avea, cioè d’aver fatto ragionare di materia così fiera come è quella della infelicità degli amanti; e fatta la scusa, in piè si levò e della testa si tolse la laurea, e aspettando le donne a cui porre la dovesse, piacevolemente sopra il capo biondissimo della Fiammetta la pose dicendo: – Io pongo a te questa corona sì come a colei la quale meglio dell’aspra giornata d’oggi, che alcuna altra, con quella di domane queste nostre compagne racconsolar saprai.

La Fiammetta, li cui capelli eran crespi, lunghi e d’oro e sopra li candidi e dilicati omeri ricadenti e il viso ritondetto con un color vero di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolati tutto splendido, con due occhi in testa che parean d’un falcon pellegrino e con una boccuccia piccolina li cui labbri parevan due rubinetti, sorridendo rispose: – Filostrato, e io la prendo volentieri; e acciò che meglio t’aveggi di quel che fatto hai, infino a ora voglio e comando che ciascun s’apparecchi di dover doman ragionare di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse. – La qual proposizione a tutti piacque: e essa, fattosi il siniscalco venire e delle cose oportune con lui insieme avendo disposto, tutta la brigata da seder levandosi per infino all’ora della cena lietamente licenziò.

Costoro adunque, parte per lo giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi qua e chi là, a prender secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all’ora della cena. La qual venuta, tutti raccolti, come usati erano, appresso della bella fonte con grandissimo piacere e ben serviti cenarono. E da quella levatisi, sì come usati erano, al danzare e al cantar si diedono; e menando Filomena la danza disse la reina: – Filostrato, io non intendo deviare da’ miei passati; ma sì come essi hanno fatto così intendo che per lo mio comandamento si canti una canzone; e per ciò che io son certa che tali sono le tue canzoni chenti sono le tue novelle, acciò che più giorni che questo non sien turbati de’ tuoi infortunii, vogliamo che una ne dichi qual più ti piace.

Filostrato rispose che volentieri; e senza indugio in cotal guisa cominciò a cantare:

 
Lagrimando dimostro
quanto si dolga con ragione il core
d’esser tradito sotto fede, Amore.
Amore, allora che primieramente
ponesti in lui colei per cui sospiro
senza sperar salute,
sì piena la mostrasti di virtute,
che lieve reputava ogni martiro
che per te nella mente,
ch’è rimasa dolente,
fosse venuto; ma il mio errore
ora conosco, e non senza dolore.
Fatto m’ha conoscente dello ’nganno
vedermi abbandonato da colei
in cui sola sperava;
ch’allora ch’io più esser mi pensava
nella sua grazia e servidore a lei,
senza mirare al danno
del mio futuro affanno,
m’accorsi lei aver l’altrui valore
dentro raccolto e me cacciato fore.
Com’io conobbi me di fuor cacciato,
nacque nel core un pianto doloroso
che ancor vi dimora:
e spesso maladico il giorno e l’ora
che pria m’apparve il suo viso amoroso
d’alta biltate ornato
e più che mai infiammato!
La fede mia, la speranza e l’ardore
va bestemmiando l’anima che more.
Quanto mio duol senza conforto sia,
signor, tu ’l puoi sentir, tanto ti chiamo
con dolorosa voce:
e dicoti che tanto e sì mi cuoce,
che per minor martir la morte bramo.
Venga dunque, e la mia
vita crudele e ria
termini col suo colpo, e mio furore,
ch’ove ch’io vada il sentirò minore.
Nulla altra via, niuno altro conforto
mi resta più che morte alla mia doglia.
Dallami dunque omai,
pon fine, Amor, con essa alli miei guai,
e ’l cor di vita sì misera spoglia.
Deh fallo, poi ch’a torto
m’è gioia tolta e diporto.
Fa’ costei lieta, morend’io, signore,
come l’hai fatta di nuovo amadore.
Ballata mia, se alcun non t’appara
io non men curo, per ciò che nessuno,
com’io, ti può cantare.
Una fatica sola ti vo’ dare:
che tu ritruovi Amore, e a lui solo uno
quanto mi sia discara
la trista vita amara
dimostri appien, pregandol che ’n migliore
porto ne ponga per lo suo onore.
 

Dimostrarono le parole di questa canzone assai chiaro qual fosse l’animo di Filostrato e la cagione: e forse più dichiarato l’avrebbe l’aspetto di tal donna nella danza era, se le tenebre della sopravenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non avesser nascoso. Ma poi che egli ebbe a quella posta fine, molte altre cantate ne furono infino a tanto che l’ora dell’andare a dormir sopravenne: per che, comandandolo la reina, ciascuna alla sua camera si raccolse.

 

GIORNATA QUINTA

FINISCE LA QUARTA GIORNATA DEL DECAMERON: INCOMINCIA LA QUINTA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI FIAMMETTA, SI RAGIONA DI CIÒ CHE A ALCUNO AMANTE, DOPO ALCUNI FIERI O SVENTURATI ACCIDENTI, FELICEMENTE AVVENISSE.


INTRODUZIONE

Era già l’oriente tutto bianco e li surgenti raggi per tutto il nostro emisperio avevan fatto chiaro, quando Fiammetta da’ dolci canti degli uccelli, li quali la prima ora del giorno su per gli albuscelli tutti lieti cantavano, incitata su si levò e tutte l’altre e i tre giovani fece chiamare; e con soave passo a’ campi discesa, per l’ampia pianura su per le rugiadose erbe, infino a tanto che alquanto il sol fu alzato, con la sua compagnia, d’una cosa e d’altra con lor ragionando, diportando s’andò. Ma sentendo che già i solar raggi si riscaldavano, verso la loro stanza volse i passi: alla qual pervenuti, con ottimi vini e con confetti il leggiere affanno avuto fé ristorare, e per lo dilettevole giardino infino all’ora del mangiare si diportarono. La qual venuta, essendo ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata, poi che alcuna stampita e una ballatetta o due furon cantate, lietamente, secondo che alla reina piacque, si misero a mangiare. E quello ordinatamente e con letizia fatto, non dimenticato il preso ordine del danzare, e con gli strumenti e con le canzoni alquante danzette fecero. Appresso alle quali infino a passata l’ora del dormire la reina licenziò ciascheduno; de’ quali alcuni a dormire andarono e altri al lor sollazzo per lo bel giardino si rimasero. Ma tutti, un poco passata la nona, quivi, come alla reina piacque, vicini alla fonte secondo l’usato modo si ragunarono; e essendosi la reina a seder posta pro tribunali, verso Panfilo riguardando, sorridendo a lui impose che principio desse alle felici novelle. Il quale a ciò volentier si dispose e così disse.

NOVELLA PRIMA

Cimone amando divien savio e Efigenia sua donna rapisce in mare: è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Eugenia e Cassandrea nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.

Molte novelle, dilettose donne, a dover dar principio a così lieta giornata come questa sarà, per dovere essere da me raccontate mi si paran davanti: delle quali una più nell’animo me ne piace, per ciò che per quella potrete comprendere non solamente il felice fine per lo quale a ragionare incominciamo, ma quanto sian sante, quanto poderose e di quanto ben piene le forze d’Amore, le quali molti, senza saper che si dicano, dannano e vituperano a gran torto: il che, se io non erro, per ciò che innamorate credo che siate, molto vi dovrà esser caro.

Adunque (sì come noi nell’antiche istorie de’ cipriani abbiam già letto) nell’isola di Cipri fu un nobilissimo uomo il quale per nome fu chiamato Aristippo, oltre a ogni altro paesano di tutte le temporali cose ricchissimo: e se d’una cosa sola non l’avesse la fortuna fatto dolente, più che altro si potea contentare. E questo era che egli, tra gli altri suoi figliuoli, n’aveva uno il quale di grandezza e di bellezza di corpo tutti gli altri giovani trapassava, ma quasi matto era e di perduta speranza, il cui vero nome era Galeso; ma, per ciò che mai né per fatica di maestro né per lusinga o battitura del padre o ingegno d’alcuno altro gli s’era potuto metter nel capo né lettera né costume alcuno, anzi con la voce grossa e deforme e con modi più convenienti a bestia che a uomo, quasi per ischerno da tutti era chiamato Cimone, il che nella lor lingua sonava quanto nella nostra «bestione». La cui perduta vita il padre con gravissima noia portava; e già essendosi ogni speranza a lui di lui fuggita, per non aver sempre davanti la cagione del suo dolore, gli comandò che alla villa n’andasse e quivi co’ suoi lavoratori si dimorasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e l’usanza degli uomini grossi gli eran più a grado che le cittadine.

Andatosene adunque Cimone alla villa e quivi nelle cose pertinenti a quella essercitandosi, avvenne che un giorno, passato già il mezzodì, passando egli da una possessione a un’altra con un suo bastone in collo, entrò in un boschetto il quale era in quella contrada bellissimo, e, per ciò che del mese di maggio era, tutto era fronzuto. Per lo quale andando, s’avenne, sì come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’ canti del quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento indosso tanto sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea, e era solamente dalla cintura in giù coperta d’una coltre bianchissima e sottile; e a’ piè di lei similmente dormivano due femine e uno uomo, servi di questa giovane.

La quale come Cimon vide, non altramenti che se mai più forma di femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna cosa, con ammirazion grandissima la incominciò intentissimo a riguardare; e nel rozzo petto, nel quale per mille ammaestramenti non era alcuna impressione di cittadinesco piacere potuta entrare, sentì destarsi un pensiero il quale nella materiale e grossa mente gli ragionava costei essere la più bella cosa che già mai per alcun vivente veduta fosse. E quinci cominciò a distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d’oro estimava, la fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia e sommamente il petto, poco ancora rilevato: e di lavoratore, di bellezza subitamente giudice divenuto, seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali ella da alto sonno gravati teneva chiusi; e per vedergli più volte ebbe volontà di destarla. Ma parendogli oltre modo più bella che l’altre femine per adietro da lui vedute, dubitava non fosse alcuna dea; e pur tanto di sentimento avea, che egli giudicava le divine cose essere di più reverenza degne che le mondane, e per questo si riteneva, aspettando che da se medesima si svegliasse; e come che lo ’ndugio gli paresse troppo, pur, da non usato piacer preso, non si sapeva partire.

Avvenne adunque che dopo lungo spazio la giovane, il cui nome era Efigenia, prima che alcun de’ suoi si risentì, e levato il capo e aperti gli occhi e veggendosi sopra il suo bastone appoggiato star davanti Cimone, si maravigliò forte e disse: «Cimone, che vai tu a questa ora per questo bosco cercando?»

Era Cimone, sì per la sua forma e sì per la sua rozzezza e sì per la nobiltà e richezza del padre, quasi noto a ciascun del paese. Egli non rispose alle parole d’Efigenia alcuna cosa; ma come gli occhi di lei vide aperti, così in quegli fiso cominciò a guardare, seco stesso parendogli che da quegli una soavità si movesse la quale il riempiesse di piacere mai da lui non provato.

Il che la giovane veggendo, cominciò a dubitare non quel suo guardar così fiso movesse la sua rusticità a alcuna cosa che vergogna le potesse tornare: per che, chiamate le sue femine, si levò su dicendo: «Cimone, rimanti con Dio.»

A cui allora Cimon rispose: «Io ne verrò teco.»

E quantunque la giovane sua compagnia rifiutasse, sempre di lui temendo, mai da sé partir nol poté infino a tanto che egli non l’ebbe infino alla casa di lei accompagnata; e di quindi n’andò a casa il padre, affermando sé in niuna guisa più in villa voler ritornare: che quantunque grave fosse al padre e a’ suoi, pure il lasciarono stare aspettando di vedere qual cagion fosse quella che fatto gli avesse mutar consiglio.

Essendo adunque a Cimone nel cuore, nel quale niuna dottrina era potuta entrare, entrata la saetta d’Amore per la bellezza d’Efigenia, in brevissimo tempo, d’uno in altro pensiero pervenendo, fece maravigliare il padre e tutti i suoi e ciascuno altro che il conoscea. Egli primieramente richiese il padre che il facesse andare di vestimenti e d’ogni altra cosa ornato come i fratelli di lui andavano: il che il padre contentissimo fece. Quindi usando co’ giovani valorosi e udendo i modi, quali a’ gentili uomini si convenieno e massimamente agl’innamorati, prima, con grandissima ammirazione d’ognuno, in assai brieve spazio di tempo non solamente le prime lettere apparò ma valorosissimo tra’ filosofanti divenne. E appresso questo, essendo di tutto ciò cagione l’amore il quale a Efigenia portava, non solamente la rozza voce e rustica in convenevole e cittadina ridusse, ma di canto divenne maestro e di suono, e nel cavalcare e nelle cose belliche, così marine come di terra, espertissimo e feroce divenne. E in brieve, acciò che io non vada ogni particular cosa delle sue virtù raccontando, egli non si compié il quarto anno dal dì del suo primiero innamoramento, che egli riuscì il più leggiadro e il meglio costumato e con più particulari virtù che altro giovane alcuno che nell’isola fosse di Cipri.

Che dunque, piacevoli donne, diremo di Cimone? Certo niuna altra cosa se non che l’alte vertù dal cielo infuse nella valorosa anima fosseno da invidiosa fortuna in picciolissima parte del suo cuore con legami fortissimi legate e racchiuse, li quali tutti Amor ruppe e spezzò, sì come molto più potente di lei; e come eccitatore degli adormentati ingegni, quelle da crudele obumbrazione offuscate con la sua forza sospinse in chiara luce, apertamente mostrando di che luogo tragga gli spiriti a lui subgetti e in quale gli conduca co’ raggi suoi.

Cimone, adunque, quantunque amando Efigenia in alcune cose, sì come i giovani amanti molto spesso fanno, trasandasse, nondimeno Aristippo, considerando che amor l’avesse di montone fatto tornare uno uomo, non solo pazientemente il sostenea ma in seguir ciò in tutti i suoi piaceri il confortava. Ma Cimone, che d’esser chiamato Galeso rifiutava ricordandosi che così da Efigenia era stato chiamato, volendo onesto fine porre al suo disio, più volte fece tentare Cipseo, padre d’Efigenia, che lei per moglie gli dovesse dare; ma Cipseo rispose sempre sé averla promessa a Pasimunda, nobile giovane rodiano, al quale non intendeva venirne meno.

E essendo delle pattovite nozze d’Efigenia venuto il tempo e il marito mandato per lei, disse seco Cimone: «Ora è tempo di mostrare, o Efigenia, quanto tu sii da me amata. Io son per te divenuto uomo: e se io ti posso avere, io non dubito di non divenire più glorioso che alcuno idio: e per certo io t’avrò o io morrò.»

E così detto, tacitamente alquanti nobili giovani richesti che suoi amici erano, e fatto segretamente un legno armare con ogni cosa oportuna a battaglia navale, si misse in mare, attendendo il legno sopra il quale Efigenia trasportata doveva essere in Rodi al suo marito. La quale, dopo molto onore fatto dal padre di lei agli amici del marito, entrata in mare, verso Rodi dirizzaron la proda e andar via. Cimone, il quale non dormiva, il dì seguente col suo legno gli sopragiunse, e di ’n su la proda a quegli che sopra il legno d’Efigenia erano forte gridò: «Arrestatevi, calate le vele, o voi aspettate d’esser vinti e sommersi in mare.»

 

Gli avversarii di Cimone avevano l’arme tratte sopra coverta e di difendersi s’apparecchiavano: per che Cimone, dopo le parole preso un rampicone di ferro, quello sopra la poppa de’ rodiani, che via andavan forte, gittò e quella alla proda del suo legno per forza congiunse; e fiero come un leone, sanza altro seguito d’alcuno aspettare, sopra la nave de’ rodiani saltò, quasi tutti per niente gli avesse; e spronandolo amore, con maravigliosa forza fra’ nemici con un coltello in man si mise e or questo e or quello ferendo quasi pecore gli abbattea. Il che vedendo i rodiani, gittando in terra l’armi, quasi a una voce tutti si confessaron prigioni.

Alli quali Cimon disse: «Giovani uomini, né vaghezza di preda né odio che io abbia contra di voi mi fece partir di Cipri a dovervi in mezzo mare con armata mano assalire. Quel che mi mosse è a me grandissima cosa a avere acquistata e a voi è assai leggiera a concederlami con pace: e ciò è Efigenia, da me sopra ogni altra cosa amata, la quale non potendo io avere dal padre di lei come amico e con pace, da voi come nemico e con l’armi m’ha costretto amore a acquistarla. E per ciò intendo io d’esserle quello che esserle dovea il vostro Pasimunda: datelami e andate con la grazia di Dio.»

I giovani, li quali più forza che liberalità costrignea, piagnendo Efigenia a Cimon concedettono; il quale vedendola piagnere disse: «Nobile donna, non ti sconfortare; io sono il tuo Cimone, il quale per lungo amore t’ho molto meglio meritata d’avere che Pasimunda per promessa fede.»

Tornossi adunque Cimone, lei già avendo sopra la sua nave fatta portare senza alcuna altra cosa toccare de’ rodiani, a’ suoi compagni, e loro lasciò andare. Cimone adunque, più che altro uomo contento dell’acquisto di così cara preda, poi che alquanto di tempo ebbe posto in dover lei piagnente racconsolare, diliberò co’ suoi compagni non essere da tornare in Cipri al presente: per che, di pari diliberazion di tutti, verso Creti, dove quasi ciascuno e massimamente Cimone per antichi parentadi e novelli e per molta amistà si credevano insieme con Efigenia esser sicuri, dirizzaron la proda della lor nave.

Ma la fortuna, la quale assai lietamente l’acquisto della donna avea conceduto a Cimone, non stabile, subitamente in tristo e amaro pianto mutò la inestimabile letizia dello innamorato giovane. Egli non erano ancora quatro ore compiute poi che Cimone li rodiani aveva lasciati, quando, sopravegnente la notte, la quale Cimone più piacevole che alcuna altra sentita giammai aspettava, con essa insieme surse un tempo fierissimo e tempestoso, il quale il cielo di nuvoli e mare di pistilenziosi venti riempié; per la qual cosa né poteva alcun veder che si fare o dove andarsi, né ancora sopra la nave tenersi a dover fare alcun servigio. Quanto Cimone di ciò si dolesse non è da dimandare. Egli pareva che gl’iddii gli avessero conceduto il suo disio acciò che più noia gli fosse il morire, del quale senza esso prima si sarebbe poco curato. Dolevansi similmente i suoi compagni, ma sopra tutti si doleva Efigenia, forte piangendo e ogni percossa dell’onda temendo: e nel suo pianto aspramente maladiceva l’amor di Cimone e biasimava il suo ardire, affermando per niuna altra cosa quella tempestosa fortuna esser nata, se non perché gl’iddii non volevano che colui, il quale lei contra li lor piaceri voleva aver per isposa, potesse del suo presuntuoso disiderio godere, ma vedendo lei prima morire egli appresso miseramente morisse.

Con così fatti lamenti e con maggiori, non sappiendo che farsi i marinari, divenendo ognora il vento più forte, senza sapere conoscere dove s’andassero, vicini all’isola di Rodi pervennero; né conoscendo per ciò che Rodi si fosse quella, con ogni ingegno, per campar le persone, si sforzarono di dovere in essa pigliar terra se si potesse. Alla qual cosa la fortuna fu favorevole e lor perdusse in un piccolo seno di mare, nel quale poco avanti a loro li rodiani stati da Cimon lasciati erano con la lor nave pervenuti; né prima s’accorsero sé avere all’isola di Rodi afferrato che, surgendo l’aurora e alquanto rendendo il cielo più chiaro, si videro forse per una tratta d’arco vicini alla nave il giorno davanti da lor lasciata. Della qual cosa Cimone senza modo dolente, temendo non gli avvenisse quello che gli avvenne, comandò che ogni forza si mettesse a uscir quindi, e poi dove alla fortuna piacesse gli trasportasse, per ciò che in alcuna parte peggio che quivi esser non poteano. Le forze si misero grandi a dovere di quindi uscire ma invano: il vento potentissimo poggiava in contrario, in tanto che, non che essi del picciol seno uscir potessero, ma, o volessero o no, gli sospinse alla terra.

Alla quale come pervennero, dalli marinari rodiani della lor nave discesi furono riconosciuti; de’ quali prestamente alcun corse a una villa ivi vicina dove i nobili giovani rodiani n’erano andati, e loro narrò quivi Cimone con Efigenia sopra la lor nave per fortuna, sì come loro, essere arrivati. Costoro udendo questo lietissimi, presi molti degli uomini della villa, prestamente furono al mare; e Cimone, che già co’ suoi disceso aveva preso consiglio di fuggire in alcuna selva vicina, insieme tutti con Efigenia furon presi e alla villa menati; e di quindi, venuto dalla città Lisimaco, appo il quale quello anno era il sommo maestrato de’ rodiani, con grandissima compagnia d’uomini d’arme, Cimone e’ suoi compagni tutti ne menò in prigione, sì come Pasimunda, al quale le novelle eran venute, aveva, col senato di Rodi dolendosi, ordinato.

In così fatta guisa il misero e innamorato Cimone perdé la sua Efigenia poco davanti da lui guadagnata, senza altro averle tolto che alcun bascio. Efigenia da molte nobili donne di Rodi fu ricevuta e riconfortata sì del dolore avuto della sua presura e sì della fatica sostenuta del turbato mare; e appo quelle stette infino al giorno diterminato alle sue nozze. A Cimone e a’ suoi compagni, per la libertà il dì davanti data a’ giovani rodiani, fu donata la vita, la qual Pasimunda a suo poter sollecitava di far lor torre, e a prigion perpetua fur dannati: nella quale, come si può credere, dolorosi stavano e senza speranza mai d’alcun piacere. Ma Pasimunda quanto poteva l’apprestamento sollecitava delle future nozze.

La fortuna, quasi pentuta della subita iniuria fatta a Cimone, nuovo accidente produsse per la sua salute. Aveva Pasimunda un fratello minor di tempo di lui ma non di virtù, il quale avea nome Ormisda, stato in lungo trattato di dover torre per moglie una nobile giovane e bella della città, e era chiamata Cassandrea, la quale Lisimaco sommamente amava; e erasi il matrimonio per diversi accidenti più volte frastornato. Ora veggendosi Pasimunda per dovere con grandissima festa celebrare le sue nozze, pensò ottimamente esser fatto se in questa medesima festa, per non tornare più alle spese e al festeggiare, egli potesse fare che Ormisda similmente menasse moglie: per che co’ parenti di Cassandrea rincominciò le parole e perdussele a effetto; e insieme egli e ’l fratello con loro diliberarono che quello medesimo dì che Pasimunda menasse Efigenia, quello Ormisda menasse Cassandrea.

La qual cosa sentendo Lisimaco, oltre modo gli dispiacque, per ciò che si vedeva della sua speranza privare, nella quale portava che, se Ormisda non la prendesse, fermamente doverla avere egli. Ma, sì come savio, la noia sua dentro tenne nascosa e cominciò a pensare in che maniera potesse impedire che ciò non avesse effetto, né alcuna via vide possibile se non il rapirla. Questo gli parve agevole per lo uficio il quale aveva, ma troppo più disonesto il reputava che se l’uficio non avesse avuto: ma in brieve, dopo lunga diliberazione, l’onestà diè luogo a amore, e prese per partito, che che avvenir ne dovesse, di rapir Cassandrea. E pensando della compagnia che a far questo dovesse avere e dell’ordine che tener dovesse, si ricordò di Cimone, il quale co’ suoi compagni in prigione avea; e immaginò niuno altro compagno migliore né più fido dover potere avere che Cimone in questa cosa.