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Decameron

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Folco e Ughetto occultamente dal duca avean sentito, e da lor le lor donne, perché presa la Ninetta fosse, il che forte dispiacque loro; e ogni studio ponevano in far che dal fuoco la Ninetta dovesse campare, al quale avvisavano che giudicata sarebbe, sì come colei che molto ben guadagnato l’avea; ma tutto pareva niente, per ciò che il duca pur fermo a volerne far giustizia stava. La Magdalena, la quale bella giovane era e lungamente stata vagheggiata dal duca senza mai aver voluta far cosa che gli piacesse, imaginando che piacendogli potrebbe la sirocchia dal fuoco sottrarre, per un cauto ambasciadore gli significò sé essere a ogni suo comandamento, dove due cose ne dovesser seguire: la prima, che ella la sua sorella salva e libera dovesse riavere; l’altra, che questa cosa fosse segreta. Il duca, udita l’ambasciata e piaciutagli, lungamente seco pensò se fare il volesse, e alla fine vi s’accordò e rispose che era presto. Fatto adunque di consentimento della donna, quasi da loro informar si volesse del fatto, sostenere una notte Folco e Ughetto, a albergare se n’andò segretamente con la Magdalena. E fatto prima sembiante d’avere la Ninetta messa in un sacco e doverla quella notte stessa fare in mar mazzerare, seco la rimenò alla sua sorella e per prezzo di quella notte gliele donò, la mattina nel dipartirsi pregandola che quella notte, la quale prima era stata nel loro amore, non fosse l’ultima; e oltre a questo le ’mpose che via ne mandasse la colpevole donna, acciò che a lui non fosse biasimo o non gli convenisse da capo contro di lei incrudelire.

La mattina seguente Folco e Ughetto, avendo udito la Ninetta la notte essere stata mazzerata e credendolo, furon liberati; e alla lor casa per consolar le lor donne della morte della sorella tornati, quantunque la Magdalena s’ingegnasse di nasconderla molto, pur s’accorse Folco che ella v’era: di che egli si maravigliò molto e subitamente suspicò, già avendo sentito che il duca aveva la Magdalena amata, e domandolla come questo esser potesse che la Ninetta quivi fosse. La Magdalena ordì una lunga favola a volergliele mostrare, poco da lui, che malizioso era, creduta. Il quale a doversi dire il vero la costrinse; la quale dopo molte parole gliele disse. Folco, da dolor vinto e in furor montato, tirata fuori una spada, lei invano mercé addomandante uccise.

E temendo l’ira e la giustizia del duca, lei lasciata nella camera morta, se n’andò colà ove la Ninetta era, e con viso infintamente lieto le disse: «Tosto andianne là dove diterminato è da tua sorella che io ti meni, acciò che più non venghi alle mani del duca.» La qual cosa la Ninetta credendo e come paurosa disiderando di partirsi, con Folco, senza altro commiato chiedere alla sorella, essendo già notte si mise in via e con que’ denari a’ quali Folco poté por mano, che furon pochi; e alla marina andatisene, sopra una barca montarono, né mai si seppe dove arrivati si fossero.

Venuto il dì seguente e essendosi la Magdalena trovata uccisa, furono alcuni che, per invidia e odio che a Ughetto portavano, subitamente al duca l’ebbero fatto sentire: per la qual cosa il duca, che molto la Magdalena amava, focosamente alla casa corso, Ughetto prese e la sua donna; e loro, che di queste cose niente ancor sapeano, cioè della partita di Folco e della Ninetta, constrinse a confessar sé insieme con Folco esser della morte della Magdalena colpevole. Per la qual confessione costoro meritamente della morte temendo, con grande ingegno coloro che gli guardavano corruppero, dando loro una certa quantità di denari li quali nella lor casa nascosti per li casi oportuni guardavano: e con le guardie insieme, senza avere spazio di potere alcuna lor cosa torre, sopra una barca montati di notte se ne fuggirono a Rodi, dove in povertà e in miseria vissero non gran tempo.

Adunque a così fatto partito il folle amore di Restagnone e l’ira della Ninetta sé condussero e altrui.

NOVELLA QUARTA

Gerbino, contra la fede data dal re Guiglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre una sua figliuola; la quale uccisa da quegli che su v’erano, loro uccide, e a lui è poi tagliata la testa.

La Lauretta, fornita la sua novella, taceva, e fra la brigata chi con un chi con un altro della sciagura degli amanti si dolea, e chi l’ira della Ninetta biasimava, e chi una cosa e chi altra diceva; quando il re, quasi da profondo pensier tolto, alzò il viso e a Elissa fé segno che appresso dicesse; la quale umilmente incominciò.

Piacevoli donne, assai son coloro che credono Amor solamente dagli occhi acceso le sue saette mandare, coloro schernendo che tener vogliono che alcun per udita si possa innamorare; li quali essere ingannati assai manifestamente apparirà in una novella la qual dire intendo, nella quale non solamente ciò la fama, senza aversi veduto giammai, avere operato vedrete ma ciascuno a misera morte aver condotto vi fia manifesto.

Guiglielmo secondo, re di Cicilia, come i ciciliani vogliono, ebbe due figliuoli, l’uno maschio e chiamato Ruggieri, l’altro femina, chiamata Gostanza. Il quale Ruggieri, anzi che il padre morendo, lasciò un figliuolo nominato Gerbino, il quale, dal suo avolo con diligenzia allevato, divenne bellissimo giovane e famoso in prodezza e in cortesia. Né solamente dentro a’ termini di Cicilia stette la sua fama racchiusa ma in varie parti del mondo sonando in Barberia era chiarissima, la quale in quei tempi al re di Cicilia tributaria era. E tra gli altri alle cui orecchi la magnifica fama delle virtù e della cortesia del Gerbin venne, fu a una figliuola del re di Tunisi, la qual, secondo che ciascun che veduta l’aveva ragionava, era una delle più belle creature che mai dalla natura fosse stata formata, e la più costumata e con nobile e grande animo. La quale, volentieri de’ valorosi uomini ragionare udendo, con tanta affezione le cose valorosamente operate dal Gerbino da uno e da un altro raccontate raccolse, e sì le piacevano, che essa, seco stessa imaginando come fatto esser dovesse, ferventemente di lui s’innamorò, e più volentieri che d’altro di lui ragionava e chi ne ragionava ascoltava.

D’altra parte era, sì come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama della bellezza parimente e del valor di lei, e non senza gran diletto né invano gli orecchi del Gerbino aveva tocchi: anzi, non meno che di lui la giovane infiammata fosse, lui di lei aveva infiamato. Per la qual cosa infino a tanto che con onesta cagione dall’avolo d’andare a Tunisi la licenzia impetrasse, disideroso oltre modo di vederla, a ogni suo amico che là andava imponeva che a suo potere il suo segreto e grande amor facesse, per quel modo che migliore gli paresse, sentire e di lei novelle gli recasse. De’ quali alcuno sagacissimamente il fece, gioie da donne portandole, come i mercatanti fanno, a vedere; e interamente l’ardore del Gerbino apertole, lui e le sue cose a’ suoi comandamenti offerse apparecchiate. La quale con lieto viso e l’ambasciadore e l’ambasciata ricevette: e rispostovi che egli di pari amore ardeva, una delle sue più care gioie in testimonianza di ciò gli mandò. La quale il Gerbino con tanta allegrezza ricevette, con quanta qualunque cara cosa ricever si possa, e a lei per costui medesimo più volte scrisse e mandò carissimi doni, con lei certi trattati tenendo da doversi, se la fortuna conceduto l’avesse, vedere e toccare.

Ma andando le cose in questa guisa e un poco più lunghe che bisognato non sarebbe, ardendo d’una parte la giovane e d’altra il Gerbino, avvenne che il re di Tunisi la maritò al re di Granata: di che ella fu crucciosa oltre modo, pensando che non solamente per lunga distanzia al suo amante s’allontanava ma che quasi del tutto tolta gli era; e se modo veduto avesse, volentieri, acciò che questo avvenuto non fosse, fuggita si sarebbe dal padre e venutasene al Gerbino. Similmente il Gerbino, questo maritaggio sentendo, senza misura ne viveva dolente e seco spesso pensava, se modo veder potesse, di volerla torre per forza se avvenisse che per mare a marito n’andasse.

Il re di Tunisi, sentendo alcuna cosa di questo amore e del proponimento del Gerbino, e del suo valore e della potenzia dubitando, venendo il tempo che mandare ne la dovea, al re Guiglielmo mandò significando ciò che fare intendeva, e che, sicurato da lui che né dal Gerbino né da altri per lui in ciò impedito sarebbe, lo ’ntendeva di fare. Il re Guiglielmo, che vecchio signore era né dello innamoramento del Gerbino aveva alcuna cosa sentita, non immaginandosi che per questo adomandata fosse tal sicurtà, liberamente la concedette e in segno di ciò mandò al re di Tunisi un suo guanto. Il quale, poi che la sicurtà ricevuta ebbe, fece una grandissima e bella nave nel porto di Cartagine apprestare e fornirla di ciò che bisogno aveva a chi su vi doveva andare e ornarla e acconciarla per su mandarvi la figliuola in Granata: né altro aspettava che tempo.

La giovane donna, che tutto questa sapeva e vedeva, occultamente un suo servidore mandò a Palermo e imposegli che il bel Gerbino da sua parte salutasse e gli dicesse come ella infra pochi dì era per andarne in Granata; per che ora si parrebbe se così fosse valente uomo come si diceva e se cotanto l’amasse quanto più volte significato l’avea. Costui, a cui imposta fu, ottimamente fé l’ambasciata e a Tunisi ritornossi. Gerbino, questo udendo e sappiendo che il re Guiglielmo suo avolo data avea la sicurtà al re di Tunisi, non sapeva che farsi: ma pur da amor sospinto, avendo le parole della donna intese e per non parer vile, andatosene a Messina, quivi prestamente fece due galee sottili armare, e messivi su di valenti uomini con esse sopra la Sardigna n’andò, avvisando quindi dovere la nave della donna passare.

Né fu di lungi l’effetto al suo avviso; per ciò che pochi dì quivi fu stato, che la nave con poco vento, non guari lontana al luogo dove aspettandola riposto s’era, sopravenne: la qual veggendo Gerbino a’ suoi compagni disse: «Signori, se voi così valorosi siete com’io vi tegno, niuno di voi senza aver sentito o sentire amore credo che sia, senza il quale, sì come io meco medesimo estimo, niun mortal può alcuna vertù o bene in sé avere; e se innamorati stati siete o sete, leggier cosa vi fia comprendere il mio disio. Io amo: amor m’indusse a darvi la presente fatica; e ciò che io amo nella nave che qui davanti ne vedete dimora, la quale, insieme con quella cosa che io più disidero, è piena di grandissime ricchezze; le quali, se valorosi uomini siete, con poca fatica, virilmente combattendo, acquistar possiamo. Della qual vittoria io non cerco che in parte mi venga se non una donna, per lo cui amore i’ muovo l’arme: ogni altra cosa sia vostra liberamente infin da ora. Andiamo adunque e bene avventurosamente assagliamo la nave; Idio, alla nostra impresa favorevole, senza vento prestarle la ci tien ferma.»

 

Non erano al bel Gerbino tante parole bisogno, per ciò che i messinesi che con lui erano, vaghi della rapina, già con l’animo erano a far quello di che il Gerbino gli confortava con le parole; per che, fatto un grandissimo romore nella fine del suo parlare che così fosse, le trombe sonarono e, prese l’armi, dierono de’ remi in acqua e alla nave pervennero. Coloro che sopra la nave erano, veggendo di lontan venir le galee, non potendosi partire, s’apprestarono alla difesa. Il bel Gerbino, a quella pervenuto, fé comandare che i padroni di quella sopra le galee mandati fossero, se la battaglia non voleano. I saracini, certificati chi erano e che domandassero, dissero sé esser contro alla fede lor data dal re da loro assaliti: e in segno di ciò mostrarono il guanto del re Guglielmo e del tutto negaron di mai, se non per battaglia vinti, arrendersi o cosa che sopra la nave fosse lor dare. Gerbino, il quale sopra la poppa della nave veduta aveva la donna troppo più bella assai che egli seco non estimava, infiammato più che prima al mostrar del guanto rispose che quivi non avea falconi al presente perché guanto v’avesse luogo, e per ciò, ove dar non volesser la donna, a ricever la battaglia s’apprestassero. La qual senza più attendere, a saettare e a gittar pietre l’un verso l’altro fieramente incominciarono, e lungamente con danno di ciascuna delle parti in tal guisa combatterono.

Ultimamente, veggendosi Gerbino poco util fare, preso un legnetto che di Sardigna menato aveano e in quel messo fuoco, con amendue le galee quello accostò alla nave. Il che veggendo i saracini e conoscendo sé di necessità o doversi arrendere o morire, fatto sopra coverta la figliuola del re venire, che sotto coverta piagnea, e quella menata alla proda della nave e chiamato il Gerbino, presente agli occhi suoi lei gridante mercé e aiuto svenarono, e in mar gittandola disson: «Togli, noi la ti diamo qual noi possiamo e chente la tua fede l’ha meritata.»

Gerbino, veggendo la crudeltà di costoro, quasi di morir vago, non curando di saetta né di pietra, alla nave si fece accostare; e quivi su malgrado di quanti ve n’eran montato, non altramenti che un leon famelico nell’armento de’ giovenchi venuto or questo or quello svenando prima co’ denti e con l’unghie la sua ira sazia che la fame, con una spada in mano or questo or quel tagliando de’ saracini crudelmente molti n’uccise Gerbino; e già crescente il fuoco nell’accesa nave, fattone a’ marinari trarre quello che si poté per appagamento di loro, giù se ne scese con poco lieta vittoria de’ suoi avversarii avere acquistata. Quindi, fatto il corpo della bella donna ricoglier di mare, lungamente e con molte lagrime il pianse, e in Cicilia tornandosi, in Ustica, piccioletta isola quasi a Trapani di rimpetto, onorevolmente il fé sepellire; e a casa più doloroso che altro uomo si tornò.

Il re di Tunisi, saputa la novella, suoi ambasciadori di nero vestiti al re Guiglielmo mandò, dogliendosi della fede che gli era stata male observata: e raccontarono il come. Di che il re Guiglielmo turbato forte, né vedendo via da poter lor giustizia negare, ché la dimandavano, fece prendere il Gerbino: e egli medesimo, non essendo alcun de’ baron suoi che con prieghi da ciò si sforzasse di rimuoverlo, il condannò nella testa e in sua presenzia gliele fece tagliare, volendo avanti senza nepote rimanere che esser tenuto re senza fede.

Adunque così miseramente in pochi giorni i due amanti, senza alcun frutto del loro amore aver sentito, di mala morte morirono com’io v’ho detto.

NOVELLA QUINTA

I fratelli d’Ellisabetta uccidon l’amante di lei: egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterato; ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico, e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, e ella se ne muore di dolor poco appresso.

Finita la novella d’Elissa e alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse: la quale, tutta piena di compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo un pietoso sospiro incominciò.

La mia novella, graziose donne, non sarà di genti di sì alta condizione come costor furono de’ quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura non sarà men pietosa: e a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l’accidente avvenne.

Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano; e avevano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in un lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva; il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte Lisabetta guatato, avvenne che egli le incominciò stranamente a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.

E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare, che una notte, andando Lisabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto aveva la passata notte d’Elisabetta e di Lorenzo raccontò; e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso.

E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano, avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menaron Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se n’accorse. E in Messina tornatisi dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati.

Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollecitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente, che l’uno de’ fratelli disse: «Che vuol dir questo? che hai tu a far di Lorenzo, che tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene.» Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse; e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi sempre aspettando si stava.

Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava e essendosi alla fine piagnendo adormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e co’ panni tutti stracciati e fracidi: e parvele che egli dicesse: «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’atristi e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono.» E disegnatole il luogo dove sotterato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve.

La giovane, destatasi e dando fede alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire alcuna cosa a’ fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto. E avuta la licenzia d’andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d’una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto poté là se n’andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto: per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto volentier tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che poté gli spiccò dallo ’mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si dipartì e tornossene a casa sua.

Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi ne’ quali si pianta la persa o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo; e poi messavi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e quegli da niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci o delle sue lagrime non innaffiava giammai. E per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso: e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea.

Il basilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto; e servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da’ suoi vicin fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: «Noi ci siamo accorti che ella ogni dì tiene la cotal maniera.» Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecero portar via questo testo; il quale non ritrovando ella con grandissima instanzia molte volte richiese, e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo adimandare, e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora sì consumata, che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei essere quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse: e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n’andarono a Napoli.

La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo adimandando, piagnendo si morì, e così il suo disaventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:

Qual esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta, et cetera.