Kostenlos

Decameron

Text
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

NOVELLA SESTA

Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfi; la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere a un bagno, fa’ che ella vi va, e credendosi col marito essere stata si truova che con Ricciardo è dimorata.

Niente restava più avanti a dire a Elissa, quando, commendata la sagacità del Zima, la reina impose alla Fiammetta che procedesse con una; la qual tutta ridente rispose: – Madonna, volentieri – e cominciò.

Alquanto è da uscire della nostra città, la quale come d’ogni altra cosa è copiosa, così è d’essempli a ogni materia; e, come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che per l’altro mondo avvenute son raccontare, e per ciò, a Napoli trapassando, come una di queste santesi, che così d’amore schife si mostrano, fusse dallo ’ngegno d’un suo amante prima a sentir d’amore il frutto condotta che i fiori avesse conosciuti: il che a una ora a voi presterà cautela nelle cose che possono avvenire e daravvi diletto dell’avenute.

In Napoli, città antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna altra in Italia, fu già un giovane per nobiltà di sangue chiaro e splendido per molte ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo. Il quale, non obstante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s’innamorò d’una la quale, secondo l’oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l’altre donne napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d’un giovane similmente gentile uomo, chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella, onestissima, più che altra cosa amava e avea caro. Amando adunque Ricciardo Miniatolo questa Catella, e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e l’amor d’una donna si dee potere acquistare e per tutto ciò a niuna cosa potendo del suo disidero pervenire, quasi si disperava; e da amor o non sappiendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di vivere.

E in cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne, che sue parenti erano, fu un dì assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere, per ciò che invano faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro bene avesse che Filippello, del quale ella in tanta gelosia vivea, che ogni uccel che per l’aere volava credeva gliele togliesse. Ricciardo, udito della gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a’ suoi piaceri e cominciò a mostrarsi dell’amor di Catella disperato e per ciò in un’altra gentil donna averlo posto: e per amor di lei cominciò a mostrar d’armeggiare e di giostrare e di far tutte quelle cose le quali per Catella soleva fare. Né guari di tempo ciò fece che quasi a tutti i napoletani, e a Catella altressì, era nell’animo che non più Catella ma questa seconda donna sommamente amasse: e tanto in questo perseverò, che sì per fermo da tutti si teneva, che, non ch’altri, ma Catella lasciò una salvatichezza che con lui avea dell’amor che portarle solea, e dimesticamente, come vicino, andando e vegnendo il salutava come faceva gli altri.

Ora avvenne che, essendo il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l’usanza de’ napoletani, andassero a diportarsi a’ liti del mare e a desinarvi e a cenarvi, Ricciardo, sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua compagnia v’andò e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto, faccendosi prima molto invitare quasi non fosse molto vago di rimanervi. Quivi le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte più loro di ragionare dava materia. A lungo andare, essendo l’una donna andata in qua e l’altra in là, come si fa in quei luoghi, essendo Catella con poche rimasa quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d’un certo amore di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita gelosia e dentro cominciò a arder tutta di disidero di sapere ciò che Ricciardo volesse dire. E poi che alquanto tenuta si fu, non potendo più tenersi, pregò Ricciardo che, per amor di quella donna la quale egli più amava, gli dovesse piacere di farla chiara di ciò che detto aveva di Filippello.

Il quale le disse: «Voi m’avete scongiurato per persona, che io non v’oso negar cosa che voi mi dimandiate, e per ciò io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne farete mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vederete esser vero quello che io vi conterò, ché, quando vogliate, v’insegnerò come vedere il potrete.»

Alla donna piacque questo che egli addomandava e più il credette esser vero e giurogli di mai non dirlo. Tirati adunque da una parte, ché da altrui uditi non fossero, Ricciardo cominciò così a dire: «Madonna, se io v’amassi come io già amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi che noiar vi dovesse; ma per ciò che quello amore è passato, me ne curerò meno d’aprirvi il vero d’ogni cosa. Io non so se Filippello si prese giammai onta dell’amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza che io mai da voi amato fossi; ma como che questo sia stato o no, nella mia persona niuna cosa ne mostrò mai. Ma ora, forse aspettando tempo quando ha creduto che io abbia men di sospetto, mostra di volere fare a me quello che io dubito che egli non tema che io facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna mia; e per quello che io truovo, egli l’ha da non troppo tempo in qua segretissimamente con più ambasciate sollecitata, le quali io ho tutte da lei risapute, e ella ha fatte le risposte secondo che io l’ho imposto. Ma pure stamane, anzi che io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era, per che io chiamai la donna mia e la dimandai quello che colei dimandasse. Ella mi disse: Egli è lo stimol di Filippello, il qual tu con fargli risposte e dargli speranza m’hai fatto recare addosso; e dice che del tutto vuol sapere quello che io intendo di fare e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente a un bagno in questa terra; e di questo mi priega e grava: e se non fosse che tu m’hai fatti, non so perché, tener questi mercati, io me lo avrei per maniera levato da dosso, che egli mai non avrebbe guatato là dove io fossi stata.’ Allora mi parve che questi procedesse troppo innanzi e che più non fosse da sofferire, e di dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceva la vostra intera fede per la quale io fui già presso alla morte. E acciò che voi non credeste queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia a colei che l’aspettava questa risposta, che ella era presta d’esser domane in su la nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si partì da lei. Ora non credo io che voi crediate che io la vi mandassi: ma se io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverebbe me in luogo di colei cui trovarvi si crede, e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei avvedere con cui stato fosse e quello onore che a lui se ne convenisse ne gli farei: e questo faccendo, credo sì fatta vergogna gli fia, che a una ora la ’ngiuria che a voi e a me far vuole vendicata sarebbe.»

Catella, udendo questo, senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a’ suoi inganni, secondo il costume de’ gelosi subitamente diede fede alle parole, e certe cose state davanti cominciò a attare a questo fatto; e di subita ira accesa, rispose che questo farà ella certamente, non era egli sì gran fatica a fare, e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sì fatta vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo. Ricciardo, contento di questo e parendogli che ’l suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con molte altre parole la vi confermò su e fece la fede maggiore, pregandola nondimeno che dir non dovesse già mai d’averlo udito da lui; il che ella sopra la sua fé gliel promise.

La mattina seguente Ricciardo se n’andò a una buona femina che quel bagno che egli aveva a Catella detto teneva, e le disse ciò che egli intendeva di fare e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto potesse. La buona femina, che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri e con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse. Aveva costei nella casa, ove il bagno era, una camera oscura molto, sì come quella nella quale niuna finestra che lume rendesse rispondea. Questa, secondo l’amaestramento di Ricciardo, acconciò la buona femina e fecevi entro un letto, secondo che poté il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise e cominciò a aspettar Catella.

La donna, udite le parole di Ricciardo e a quelle data più fede che non le bisognava, piena di sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d’altro pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era usato di fare. Il che ella vedendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non era, seco medesima dicendo: «Veramente costui ha l’animo a quella donna con la qual domane si crede aver piacere e diletto, ma fermamente questo non avverrà.» E sopra cotal pensiero e imaginando come dir gli dovesse quando con lui stata fosse quasi tutta la notte dimorò.

Ma che più? Venuta la nona, Catella prese sua compagnia e senza mutare altramente consiglio se n’andò a quel bagno il quale Ricciardo l’aveva insegnato; e quivi trovata la buona femina la domandò se Filippello stato vi fosse quel dì.

A cui la buona femina ammaestrata da Ricciardo disse: «Sete voi quella donna che gli dovete venire a parlare?»

Catella rispose: «Sì, sono.»

«Adunque,» disse la buona femina «andatevene da lui.»

Catella, che cercando andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi. Ricciardo, vedendola venire, lieto si levò in piè e in braccio ricevutala disse pianamente: «Ben vegna l’anima mia!» Catella, per mostrarsi bene d’essere altra che ella non era, abbracciò e basciò lui e fecegli la festa grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da lui conosciuta. La camera era oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta; né per lungamente dimorarvi riprendevan gli occhi più di potere. Ricciardo la condusse in su il letto, e quivi, senza favellare in guisa che scorger si potesse la voce, per grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell’una parte che dell’altra stettero.

 

Ma poi che a Catella parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così di fervente ira accesa cominciò a parlare: «Ahi quanto è misera la fortuna delle donne e come è male impiegato l’amor di molte ne’ mariti! Io, misera me, già sono otto anni, t’ho più che la mia vita amato, e tu, come io sentito ho, tutto ardi e consumiti nell’amore d’una donna strana, reo e malvagio uom che tu se’! Or con cui ti credi tu essere stato? Tu se’ stato con colei la quale con false lusinghe tu hai, già è assai, ingannata mostrandole amore e essendo altrove innamorato. Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleal che tu se’: ascolta se tu riconosci la voce mia, io son ben dessa; e parmi mille anni che noi siamo al lume, ché io ti possa svergognare come tu se’ degno, sozzo cane vituperato che tu se’. Oimè, misera me! a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore? A questo can disleale che, credendosi in braccio avere una donna strana, m’ha più di carezze e d’amorevolezze fatte in questo poco tempo che qui stata son con lui, che in tutto l’altro rimanente che stata son sua. Tu se’ bene oggi, can rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare così debole e vinto e senza possa! Ma lodato sia Idio, che il tuo campo, non l’altrui, hai lavorato, come tu ti credevi. Non maraviglia che stanotte tu non mi ti appressasti! tu aspettavi di scaricare le some altrove e volevi giugnere molto fresco cavaliere alla battaglia: ma lodato sia Idio e il mio avvedimento, l’acqua è pur corsa alla ingiù come ella doveva! Ché non rispondi, reo uomo? ché non di’ qualche cosa? se’ tu divenuto mutolo udendomi? In fé di Dio io non so a che io mi tengo che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti! Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento? Par Dio! tanto sa altri quanto altri; non t’è venuto fatto, io t’ho avuti miglior bracchi alla coda che tu non credevi.»

Ricciardo in se medesimo godeva di queste parole e senza rispondere alcuna cosa l’abbracciava e basciava, e più che mai le facea le carezze grandi; per che ella seguendo il suo parlar diceva: «Sì, tu mi credi ora con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se’, e rapaceficare e racconsolare; tu se’ errato: io non sarò mai di questa cosa consolata infino a tanto che io non te ne vitupero in presenzia di quanti parenti e amici e vicini noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo, così bella come sia la moglie di Ricciardo Minutolo? non sono io così gentil donna? ché non rispondi, sozzo cane? che ha colei più di me? Fatti in costà, non mi toccare, ché tu hai troppo fatto d’arme per oggi. Io so bene che oggimai, poscia che tu conosci chi io sono, che tu ciò che tu facessi faresti a forza: ma, se Dio mi dea la grazia sua, io te ne farò ancora patir voglia; e non so a che io mi tengo che io non mando per Ricciardo, il quale più che sé m’ha amata e mai non poté vantarsi che io il guatassi pure una volta; e non so che male si fosse a farlo. Tu hai creduto avere la moglie qui, e è come se avuta l’avessi in quanto per te non è rimaso: dunque, se io avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare.»

Ora le parole furono assai e il ramarichio della donna grande: pure alla fine Ricciardo, pensando che se andare ne lasciasse con questa credenza molto di male ne potrebbe seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello inganno nel quale era; e recatasela in braccio e presala bene sì che partire non si poteva, disse: «Anima mia dolce, non vi turbate: quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno m’ha insegnato avere, e sono il vostro Ricciardo.»

Il che Catella udendo, e conoscendolo alla voce, subitamente si volle gittar del letto ma non poté; ond’ella volle gridare ma Ricciardo le chiuse con l’una delle mani la bocca e disse: «Madonna, egli non può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto il tempo della vita vostra; e se voi criderete o in alcuna maniera farete che questo si senta mai per alcuna persona, due cose n’averranno. L’una fia, di che non poco vi dee calere, che il vostro onore e la vostra buona fama fia guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui a inganno v’abbia fatta venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e per doni che io v’abbia promessi, li quali per ciò che così compiutamente dati non v’ho come speravate, vi siete turbata e queste parole e questo romor ne fate: e voi sapete che la gente è più acconcia a creder il male che il bene, e per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi. Appresso questo ne seguirà tra vostro marito e me mortal nimistà, e potrebbe sì andare la cosa, che io ucciderei altressì tosto lui, come egli me: di che mai voi non dovreste esser poi né lieta né contenta. E per ciò, cuor del corpo mio, non vogliate a una ora vituperar voi e mettere in pericolo e in briga il vostro marito e me. Voi non siete la prima né sarete l’ultima la quale è ingannata: né io non v’ho ingannata per torvi il vostro ma per soverchio amore che io vi porto e son disposto sempre a portarvi, e a essere vostro umilissimo servidore. E come che sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io posso e vaglio vostre state sieno e al vostro servigio, io intendo che da quinci innanzi sieno più che mai. Ora voi siete savia nell’altre cose e così son certo che sarete in questa.»

Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole, piangeva forte; e come che molto turbata fosse e molto si ramaricasse, nondimeno diede tanto luogo la ragione alle vere parole di Ricciardo, che ella cognobbe esser possibile a avvenire ciò che Ricciardo diceva, e per ciò disse: «Ricciardo, io non so come Domenedio mi si concederà che io possa comportare la ’ngiuria e lo ’nganno che fatto m’hai. Non voglio gridar qui, dove la mia simplicità e soperchia gelosia mi condusse, ma di questo vivi sicuro, che io non sarò mai lieta se in un modo o in un altro io non mi veggio vendica di ciò che fatto m’hai; e per ciò lasciami, non mi tener più: tu hai avuto ciò che disiderato hai e ha’mi straziata quanto t’è piaciuto. Tempo hai di lasciarmi: lasciami, io te ne priego.»

Ricciardo, che conoscea l’animo suo ancora troppo turbato, s’avea posto in cuore di non lasciarla mai se la sua pace non riavesse: per che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla, tanto disse e tanto pregò e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò; e di pari volontà di ciascuno gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme. E conoscendo allora la donna quanto più saporiti fossero i basci dell’amante che quegli del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel giorno innanzi l’amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro amore. Idio faccia noi goder del nostro.

NOVELLA SETTIMA

Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo, parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il marito di lei da morte, ché lui gli era provato che aveva ucciso, e co’ fratelli il pacefica; e poi saviamente con la sua donna si gode.

Già si taceva Fiammetta lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente a Emilia commise il ragionare; la quale incominciò.

A me piace nella nostra città ritornare, donde alle due passate piacque di dipartirsi, e come un nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.

Fu adunque in Firenze un nobile giovane il cui nome fu Tedaldo degli Elisei, il quale d’una donna, monna Ermellina chiamata e moglie d’uno Aldobrandino Palermini, innamorato oltre misura per li suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo disiderio. Al qual piacere la fortuna, nemica de’ felici, s’oppose: per ciò che, qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo compiaciuto un tempo, del tutto si tolse dal volergli più compiacere, né a non volere non solamente alcuna sua ambasciata ascoltare ma veder in alcuna maniera: di che egli entrò in fiera malinconia e ispiacevole, ma sì era questo suo amor celato, che della sua malinconia niuno credeva ciò essere la cagione.

E poi che egli in diverse maniere si fu molto ingegnato di racquistare l’amore che senza sua colpa gli pareva aver perduto, e ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo, per non far lieta colei, che del suo male era cagione, di vederlo consumar, si dispose. E presi quegli denari che aver poté, segretamente, senza far motto a amico o a parente, fuor che a un suo compagno il quale ogni cosa sapea, andò via e pervenne a Ancona, Filippo di San Lodeccio faccendosi chiamare; e quivi con un ricco mercatante accontatosi, con lui si mise per servidore e in su una sua nave con lui insieme n’andò in Cipri. I costumi del quale e le maniere piacquero sì al mercatante, che non solamente buon salario gli assegnò ma il fece in parte suo compagno, oltre a ciò gran parte de’ suoi fatti mettendogli tra le mani: li quali esso fece sì bene e con tanta sollecitudine, che esso in pochi anni divenne buono e ricco mercatante e famoso. Nelle quali faccende, ancora che spesso della sua crudel donna si ricordasse e fieramente fosse da amor trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta constanza che sette anni vinse quella battaglia. Ma avvenne che, udendo egli un dì in Cipri cantare una canzone già da lui stata fatta, nella quale l’amore che alla sua donna portava e ella a lui e il piacere che di lei aveva si raccontava, avvisando questo non dover potere essere che ella dimenticato l’avesse, in tanto disidero di rivederla s’accese, che, più non potendo soffrir, si dispose a tornare a Firenze.

E, messa ogni sua cosa in ordine, se ne venne con un suo fante solamente a Ancona; dove essendo ogni sua roba giunta, quella ne mandò a Firenze a alcuno amico dell’ancontano suo compagno, e egli celatamente, in forma di pellegrino che dal Sepolcro venisse, col fante suo se ne venne appresso; e in Firenze giunti, se ne andò a uno alberghetto di due fratelli che vicino era alla casa della sua donna. Né prima andò in altra parte che davanti alla casa di lei, per vederla se potesse; ma egli vide le finestre e le porti e ogni cosa serrata, di che egli dubitò forte che morta non fosse o di quindi mutatasi. Per che, forte pensoso, verso la casa de’ fratelli se n’andò, davanti la quale vide quatro suoi fratelli tutti di nero vestiti, di che egli si maravigliò molto: e conoscendosi in tanto trasfigurato e d’abito e di persona da quello che esser soleva quando si partì, che di leggier non potrebbe essere stato riconosciuto, sicuramente s’accostò a un calzolaio e domandollo perché di nero fossero vestiti coloro.

Al quale il calzolaio rispose: «Coloro sono di nero vestiti per ciò che non sono quindici dì che un lor fratello che di gran tempo non c’era stato, che avea nome Tedaldo, fu ucciso: e parmi intendere che egli abbiano provato alla corte che uno che ha nome Aldobrandino Palermini, il quale è preso, l’uccidesse, per ciò che egli voleva bene alla moglie e eraci tornato sconosciuto per esser con lei.»

Maravigliossi forte Tedaldo che alcuno in tanto il somigliasse, che fosse creduto lui, e della sciagura d’Aldobrandin gli dolfe. E avendo sentito che la donna era viva e sana, essendo già notte, pieno di varii pensieri se ne tornò all’albergo; e poi che cenato ebbe insieme col fante suo quasi nel più alto della casa fu messo a dormire. Quivi, sì per li molti pensieri che lo stimolavano e sì per la malvagità del letto e forse per la cena ch’era stata magra, essendo già la metà della notte andata, non s’era ancor potuto Tedaldo adormentare: per che, essendo desto, gli parve in su la mezzanotte sentire d’in su il tetto della casa scender nella casa persone, e appresso per le fessure dell’uscio della camera vide là su venire un lume. Per che, chetamente alla fessura accostatosi, cominciò a guardare che ciò volesse dire; e vide una giovane assai bella tener questo lume, e verso lei venir tre uomini che del tetto quivi eran discesi; e dopo alcuna festa insieme fattasi, disse l’uno di loro alla giovane: «Noi possiamo, lodato sia Idio, oggimai star sicuri, per ciò che noi sappiamo fermamente che la morte di Tedaldo Elisei è stata provata da’ fratelli addosso a Aldobrandin Palermini, e egli l’ha confessata e già è scritta la sentenzia: ma ben si vuol nondimeno tacere, per ciò che, se mai si risapesse che noi fossimo stati, noi saremmo a quel medesimo pericolo che è Aldobrandino.» E questo detto con la donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne scesono e andarsi a dormire.

 

Tedaldo, udito questo, cominciò a riguardare quanti e quali fossero gli errori che potevano cadere nelle menti degli uomini, prima pensando a’ fratelli che uno strano avevan pianto e sepellito in luogo di lui, e appresso lo innocente per falsa suspizione accusato e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, e oltre a ciò la cieca severità delle leggi e de’ rettori, li quali assai volte, quasi solleciti investigatori delli errori, incrudelendo fanno il falso provare, e sé ministri dicono della giustizia e di Dio, dove sono della iniquità e del diavolo essecutori. Appresso questo alla salute d’Aldobrandino il pensier volse e seco ciò che a fare avesse compose.

E come levato fu la mattina, lasciato il suo fante, quando tempo gli parve, solo se n’andò verso la casa della sua donna. E per ventura trovata la porta aperta, entrò dentro e vide la sua donna sedere in terra in una saletta terrena che ivi era, e era tutta piena di lagrime e d’amaritudine; e quasi per compassione ne lagrimò, e avvicinatolesi disse: «Madonna, non vi tribolate: la vostra pace è vicina.»

La donna, udendo costui, levò alto il viso e piangendo disse: «Buon uomo, tu mi pari un pellegrin forestiere: che sai tu di pace o di mia afflizione?»

Rispose allora il pellegrino: «Madonna, io son di Constantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertir le vostre lagrime in riso e a liberare da morte il vostro marito.»

«Come,» disse la donna «se tu di Constantinopoli se’ e giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io ci siamo?»

Il pellegrino, di capo fattosi, tutta la istoria dell’angoscia d’Aldobrandino raccontò e a lei disse chi ella era, quanto tempo stata maritata e altre cose assai, le quali egli molto ben sapeva, de’ fatti suoi. Di che la donna si maravigliò forte e avendolo per uno profeta gli s’inginocchiò a’ piedi, per Dio pregandolo che, se per la salute d’Aldobrandino era venuto, che egli s’avacciasse per ciò che il tempo era brieve.

Il pellegrino, mostrandosi molto santo uomo, disse: «Madonna, levate su e non piagnete e attendete bene a quello che io vi dirò, e guarderetevi bene di mai a alcun non ridirlo. Per quello che Idio mi riveli, la tribulazione la qual voi avete n’è per un peccato, il quale voi commetteste già, avvenuta, il quale Domenedio ha voluto in parte purgare con questa noia, e vuol del tutto che per voi s’amendi; se non, sì ricadereste in troppo maggiore affanno.»

Disse allora la donna: «Messere, io ho peccati assai, né so qual Domenedio più un che un altro si voglia che io m’amendi; e per ciò, se voi il sapete, ditelmi, e io ne farò ciò che io potrò per ammendarlo.»

«Madonna,» disse allora il pellegrino «io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per saperlo meglio, ma per ciò che voi medesima dicendolo n’abbiate più rimordimento. Ma vegnamo al fatto. Ditemi, ricordavi egli che voi mai aveste alcuno amante?»

La donna, udendo questo, gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo che mai alcuna persona saputo l’avesse, quantunque di que’ dì, che ucciso era stato colui che per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse per certe parolette non ben saviamente usate dal compagno di Tedaldo che ciò sapea; e rispose: «Io veggio che Idio vi dimostra tutti i segreti degli uomini, e per ciò io son disposta a non celarvi i miei. Egli è il vero che nella mia giovanezza io amai sommamente lo sventurato giovane la cui morte è apposta al mio marito: la qual morte io ho tanto pianta, quanto dolent’è a me, per ciò che, quantunque io rigida e salvatica verso lui mi mostrassi anzi la sua partita, né la sua partita né la sua lunga dimora né ancora la sventurata morte mai me l’hanno potuto trarre del cuore.»

A cui il pellegrin disse: «Lo sventurato giovane che fu morto non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sì. Ma ditemi: qual fu la cagione per la quale voi con lui vi turbaste? offesevi egli giammai?»

A cui la donna rispose: «Certo no che egli non m’offese mai, ma la cagione del cruccio furono le parole d’un maladetto frate dal quale io una volta mi confessai; per ciò che, quando io gli dissi l’amore il quale io a costui portava e la dimestichezza che io aveva seco, mi fece un romore in capo che ancor mi spaventa, dicendomi che, se io non me ne rimanessi, io n’andrei in bocca del diavolo nel profondo del Ninferno e sarei messa nel fuoco pennace. Di che sì fatta paura m’entrò, che io del tutto mi disposi a non voler più la dimestichezza di lui e, per non averne cagione, né sua lettera né sua ambasciata più volli ricevere: come che io credo, se più fosse perseverato (come, per quello che io presumma, egli se ne andò disperato), veggendolo io consumare come si fa la neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe piegato, per ciò che niun disidero al mondo maggiore avea.»

Disse allora il pellegrino: «Madonna, questo è sol quel peccato che ora vi tribola. Io so fermamente che Tedaldo non vi fece forza alcuna: quando voi di lui v’innamoraste, di vostra propria volontà il faceste, piacendovi egli, e come voi medesima voleste a voi venne e usò la vostra dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti tanta di piacevolezza gli mostraste, che, s’egli prima v’amava, in ben mille doppi faceste l’amor raddoppiare. E se così fu, che so che fu, qual cagion vi dovea poter muovere a torglivi così rigidamente? Queste cose si volevan pensare innanzi tratto; e se credavate dovervene, come di mal far, pentere, non farle. Così come egli divenne vostro, così diveniste voi sua. Che egli non fosse vostro potavate voi fare a ogni vostro piacere, sì come del vostro; ma il voler torre voi a lui che sua eravate, questa era ruberia e sconvenevole cosa dove sua volontà stata non fosse. Or voi dovete sapere che io son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se io ne parlo alquanto largo a utilità di voi, non mi si disdice come farebbe a un altro. E egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio gli conosciate che per adietro non pare che abbiate fatto. Furon già i frati santissimi e valenti uomini, ma quegli che oggi frati si chiamano e così vogliono esser tenuti, niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né quella altressì è di frate, per ciò che, dove dagl’inventori de’ frati furono ordinate strette e misere e di grossi panni e dimostratrici dell’animo, il quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in così vile abito avviluppava, essi oggi le fanno larghe e doppie e lucide e di finissimi panni, e quelle in forma hanno recate leggiadra e pontificale, in tanto che paoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze, come con le lor robe i secolari fanno, non si vergognano. E quale col giacchio il pescatore d’occupar ne’ fiumi molti pesci a un tratto, così costoro, con le fimbrie ampissime avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche femine e uomini d’avilupparvi sotto s’ingegnano, e è loro maggior sollecitudine che d’altro essercizio. E per ciò, acciò che io più vero parli, non le cappe de’ frati hanno costoro ma solamente i colori delle cappe. E dove gli antichi la salute disideravan degli uomini, quegli d’oggi disiderano le femine e le ricchezze; e tutto il loro studio hanno posto e pongono in ispaventare con romori e con dipinture le menti degli sciocchi e in monstrare che con limosine i peccati si purghino e con le messe, acciò che a loro che per viltà, non per divozione, son rifuggiti a farsi frati e per non durar fatica, porti questi il pane, colui mandi il vino, quell’altro faccia la pietanza per l’anima de’ lor passati. E certo egli è il vero che le elemosine e le orazioni purgano i peccati; ma se coloro che le fanno vedessero a cui le fanno o il conoscessero, più tosto o a sé il guarderieno o dinanzi a altrettanti porci il gitterieno. E per ciò che essi conoscono quanti meno sono i possessori d’una gran ricchezza tanto più stanno a agio, ognuno con romori, con ispaventamenti s’ingegna di rimuovere altrui da quello a che esso di rimaner solo disidera. Essi sgridano contra gli uomini la lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femine; essi dannan l’usura e i malvagi guadagni, acciò che, fatti restitutori di quegli, si possan fare le cappe più larghe, procacciare i vescovadi e l’altre prelature maggiori di ciò che mostrato hanno dovere menare a perdizion chi l’avesse. E quando di queste cose, e di molte altre che sconce fanno, ripresi sono, l’avere risposto «Fate quello che noi diciamo e non quello che noi facciamo» estimano che sia degno scaricamento d’ogni grave peso, quasi più alle pecore sia possibile l’esser constanti e di ferro che a’ pastori. E quanti sien quegli a’ quali essi fanno cotal risposta, che non la ’ntendono per lo modo che essi la dicono, gran parte di loro il sanno. Vogliono gli odierni frati che voi facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le borse di denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castità, siate pazienti, perdoniate le ’ngiurie, guardiatevi del mal dire: cose tutte buone, tutte oneste, tutte sante; ma queste perché? Perché essi possan far quello che, se i secolari faranno, essi far non potranno. Chi non sa che senza denari la poltroneria non può durare? Se tu ne’ tuoi diletti spenderai i denari, il frate non potrà poltroneggiar nell’Ordine; se tu andrai alle femine da torno, i frati non avranno lor luogo; se tu non sarai paziente o perdonator d’ingiurie, il frate non ardirà di venirti a casa a contaminare la tua famiglia. Perché vo io dietro a ogni cosa? Essi s’accusano quante volte nel cospetto degl’intendenti fanno quella scusa. Perché non si stanno egli innanzi a casa, se astinenti e santi non si credon potere essere? o se pure a questo dar si vogliono, perché non seguitano quell’altra santa parola dell’Evangelio «Incominciò Cristo a fare e a insegnare?» Facciano in prima essi, poi ammaestrin gli altri. Io n’ho de’ miei dì mille veduti vagheggiatori, amatori, visitatori non solamente delle donne secolari ma de’ monisteri; e pur di quegli che maggior romor fanno in su i pergami! A quegli adunque così fatti andrem dietro? Chi ’l fa, fa quel che vuole, ma Idio sa se egli fa saviamente. Ma posto pur che in questo sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò disse, cioè che gravissima colpa sia rompere la matrimonial fede, non è molto maggiore il rubare uno uomo? non è molto maggiore l’ucciderlo o il mandarlo in essilio tapinando per lo mondo? Questo concederà ciascuno. L’usare la dimestichezza d’uno uomo una donna è peccato naturale: il rubarlo o ucciderlo o il discacciarlo da malvagità di mente procede. Che voi rubaste Tedaldo già di sopra v’ho dimostrato togliendogli voi che sua di vostra spontanea volontà eravate divenuta. Appresso dico che, in quanto in voi fu, voi l’uccideste per ciò che per voi non rimase, mostrandovi ognora più crudele, che egli non s’uccidesse con le sue mani: e la legge vuol che colui che è cagione del mal che si fa sia in quella medesima colpa che colui che ’l fa. E che voi del suo essilio e dell’essere andato tapin per lo mondo sette anni non siate cagione, questo non si può negare, sì che molto maggior peccato avete commesso in qualunque s’è l’una di queste tre cose dette che nella sua dimestichezza non commettavate. Ma veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose? Certo non fece: voi medesima già confessato l’avete; senza che io so che egli più che sé v’ama. Niuna cosa fu mai tanto onorata, tanto essaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogni altra donna, quanto eravate voi da lui se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto di voi potea favellare. Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertà tutta nelle vostre mani era da lui rimessa. Non era egli nobile giovane? non era egli tra gli altri suoi cittadini bello? non era egli valoroso in quelle cose che a’ giovani s’appartengono? non amato, non avuto caro, non volentier veduto da ogni uomo? Né di questo direte di no. Adunque, come, per detto d’un fraticello pazzo, bestiale e invidioso, poteste voi alcuno proponimento crudele pigliare contro a lui? Io non so che errore s’è quello delle donne, le quali gli uomini schifano e prezzangli poco; dove esse, pensando a quello che elle sono e quanta e qual sia la nobiltà da Dio oltre a ogni altro animale data all’uomo, si dovrebbon gloriare quando da alcuno amate sono, e colui aver sommamente caro e con ogni sollecitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che da amarla non si rimovesse giammai. Il che come voi faceste, mossa dalle parole d’un frate, il qual per certo doveva essere alcun brodaiuolo manicator di torte, voi il vi sapete: e forse che disiderava egli di porre sé in quel luogo onde egli s’ingegnava di cacciare altrui. Questo peccato adunque è quello che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le sue operazion mena a effetto, non ha voluto lasciare impunito: e così come voi senza ragion v’ingegnaste di torre voi medesima a Tedaldo, così il vostro marito senza ragione per Tedaldo è stato e è ancora in pericolo e voi in tribulazione. Dalla quale se liberata esser volete, quello che a voi convien promettere e molto maggiormente fare, è questo: se mai avviene che Tedaldo del suo lungo sbandeggiamento qui torni, la vostra grazia, il vostro amore, la vostra benivolenzia e dimestichezza gli rendiate e in quello stato il ripogniate nel quale era avanti che voi scioccamente credeste al matto frate.»