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Decameron

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Il famigliar d’Osbech, il cui nome era Antioco, a cui la bella donna era a guardia rimasa, ancora che attempato fosse, veggendola così bella, senza servare al suo amico e signor fede di lei s’innamorò: e sappiendo la lingua di lei (il che molto a grado l’era, sì come a colei alla quale parecchi anni a guisa quasi di sorda e di mutola era convenuta vivere, per lo non aver persona inteso né essa essere stata intesa da persona), da amore incitato cominciò seco tanta familiarità a pigliare in pochi dì, che non dopo molto, non avendo riguardo al signor loro che in arme e in guerra era, fecero la dimestichezza non solamente amichevole ma amorosa divenire, l’uno dell’altro pigliando sotto le lenzuola maraviglioso piacere.

Ma sentendo costoro Osbech esser vinto e morto e Basano ogni cosa venir pigliando, insieme per partito presero di quivi non aspettarlo; ma, presa grandissima parte che quivi eran d’Osbech, insieme nascosamente se n’andarono a Rodi, e quivi non guari di tempo dimorarono, che Antioco infermò a morte. Col quale tornando per ventura un mercatante cipriano, da lui molto amato e sommamente suo amico, sentendosi egli verso la fine venire, pensò di volere e le sue cose e la sua cara donna lasciare a lui.

E già alla morte vicino, amenduni gli chiamò così dicendo: «Io mi veggio senza alcuno fallo venir meno; il che mi duole, per ciò che di vivere mai non mi giovò come ora faceva. È il vero che d’una cosa contentissimo muoio, per ciò che, pur dovendo morire, mi veggio morir nelle braccia di quelle due persone le quali io più amo che alcune altre che al mondo ne sieno, cioè nelle tue, carissimo amico, e in quelle di questa donna, la quale io più che me medesimo ho amata poscia che io la conobbi. È il vero che grave m’è, lei sentendo qui forestiera e senza aiuto e senza consiglio, morendomi io, rimanere, e più sarebbe grave ancora, se io qui non sentissi te, il quale io credo che quella cura di lei avrai per amor di me che di me medesimo avresti; e per ciò quanto più posso ti priego che, s’egli avviene che io muoia, che le mie cose e ella ti sieno raccomandate, e quello dell’une e dell’altra facci che credi che sieno consolazione dell’anima mia. E te, carissima donna, priego che dopo la mia morte me non dimentichi, acciò che io di là vantar mi possa che io di qua amato sia dalla più bella donna che mai formata fosse dalla natura. Se di queste due cose voi mi darete intera speranza, senza niun dubbio n’andrò consolato.»

L’amico mercatante e la donna similmente, queste parole udendo, piangevano; e avendo egli detto, il confortarono e promisongli sopra la lor fede di quel fare che egli pregava, se avvenisse che el morisse. Il quale non stette guari che trapassò e da loro fu onorevolmente fatto sepellire.

Poi, pochi dì appresso, avendo il mercatante cipriano ogni suo fatto in Rodi spacciato e in Cipri volendosene tornare sopra una cocca di catalani che v’era, domandò la bella donna quello che far volesse, con ciò fosse cosa che a lui convenisse in Cipri tornare. La donna rispose che con lui, se gli piacesse, volentieri se ne andrebbe, sperando che per amor d’Antioco da lui come sorella sarebbe trattata e riguardata. Il mercatante rispose che d’ogni suo piacere era contento: e acciò che da ogni ingiuria, che sopravenire le potesse avanti che in Cipri fosser, la difendesse, disse che era sua moglie. E sopra la nave montati, data loro una cameretta nella poppa, acciò che i fatti non paressero alle parole contrarii, con lei in un lettuccio assai piccolo si dormiva. Per la qual cosa avvenne quello che né dell’un né dell’altro nel partir da Rodi era stato intendimento: cioè che incitandogli il buio e l’agio e ’l caldo del letto, le cui forze non son piccole, dimentica l’amistà e l’amor d’Antioco morto, quasi da iguali appetito tirati, cominciatisi a stuzzicare insieme, prima che a Baffa giugnessero, là onde era il cipriano, insieme fecero parentado; e a Baffa pervenuti, più tempo insieme col mercatante si stette.

Avvenne per ventura che a Baffa venne per alcuna sua bisogna un gentile uomo il cui nome era Antigono, la cui età era grande ma il senno maggiore e la ricchezza piccola, per ciò che in assai cose intramettendosi egli ne’ servigi del re di Cipri gli era la fortuna stata contraria. Il quale, passando un giorno davanti la casa dove la bella donna dimorava, essendo il cipriano mercatante andato con sua mercatantia in Erminia, gli venne per ventura a una finestra della casa di lei questa donna veduta; la qual, per ciò che bellissima era, fisa cominciò a riguardare e cominciò seco stesso a ricordarsi di doverla avere altra volta veduta, ma il dove in niuna maniera ricordar si poteva. La bella donna, la quale lungamente trastullo della fortuna era stata, appressandosi il termine nel quale i suoi mali dovevano aver fine, come ella Antigono vide così si ricordò di lui in Alessandria ne’ servigi del padre in non piccolo stato aver veduto: per la qual cosa subita speranza prendendo di dover potere ancora nello stato real ritornare per lo colui consiglio, non sentendovi il mercatante suo, come più tosto poté si fece chiamare Antigono. Il quale, a lei venuto, ella vergognosamente domandò se egli Antigono di Famagosta fosse, sì come ella credeva.

Antigono rispose del sì, e oltre a ciò disse: «Madonna, a me pare voi riconoscere ma per niuna cosa mi posso ricordar dove; per che io vi priego, se grave non v’è, che a memoria mi riduciate chi voi siete.»

La donna, udendo che desso era, piangendo forte gli si gittò con le braccia al collo; e, dopo alquanto, lui che forte si maravigliava domandò se mai in Alessandra veduta l’avesse. La qual domanda udendo, Antigono incontanente riconobbe costei essere Alatiel figliuola del soldano, la quale morta in mare si credeva che fosse, e vollele fare la debita reverenza; ma ella nol sostenne e pregollo che seco alquanto si sedesse. La qual cosa da Antigono fatta, egli reverentemente la domandò come e quando e donde quivi venuta fosse, con ciò fosse cosa che per tutta terra d’Egitto s’avesse per certo lei in mare, già eran più anni passati, essere annegata.

A cui la donna disse: «Io vorrei bene che così fosse stato più tosto che avere avuta la vita la quale avuta ho, e credo che mio padre vorrebbe il simigliante, se giammai il saprà»; e così detto rincominciò maravigliosamente a piagnere.

Per che Antigono le disse: «Madonna, non vi sconfortate prima che vi bisogni: se vi piace, narratemi i vostri accidenti e che vita sia stata la vostra; per avventura l’opera potrà essere andata in modo che noi ci troveremo, con l’aiuto di Dio, buon compenso.

«Antigono,» disse la bella donna «a me parve, come io ti vidi, vedere il padre mio: e da quello amore e da quella tenerezza, che io a lui tenuta son di portare, mossa, potendomiti celare, mi ti feci palese. E di poche persone sarebbe potuto addivenire d’aver vedute, delle quali io tanto contenta fossi, quanto sono d’aver te innanzi a alcuno altro veduto e riconosciuto; e per ciò quello che nella mia malvagia fortuna ho sempre tenuto nascoso, a te sì come a padre paleserò. Se vedi, poi che udito l’avrai, da potermi in alcun modo nel mio pristino stato tornare, priegoti l’adoperi; se nol vedi, ti priego che mai a alcuna persona dichi d’avermi veduta o di me avere alcuna cosa sentita.»

E questo detto, sempre piagnendo, ciò che avvenuto l’era dal dì che in Maiolica ruppe infino a quel punto li raccontò; di che Antigono pietosamente a piagnere cominciò; e poi che alquanto ebbe pensato disse: «Madonna, poi che occulto è stato ne’ vostri infortunii chi voi siate, senza fallo più cara che mai vi renderò al vostro padre e appresso per moglie al re del Garbo.»

E, domandato da lei del come, ordinatamente ciò che da far fosse le dimostrò; e acciò che altro per indugio intervenir non potesse, di presente si tornò Antigono in Famagosta e fu al re, al qual disse: «Signor mio, se a voi aggrada, voi potete a una ora a voi fare grandissimo onore, e a me, che povero sono per voi, grande utile senza gran vostro costo.»

Il re domandò come. Antigono allora disse: «A Baffa è pervenuta la bella giovane figliuola del soldano, di cui è stata così lunga fama che annegata era; e ha, per servare la sua onestà, grandissimo disagio sofferto lungamente, e al presente è in povero stato e disidera di tornarsi al padre. Se a voi piacesse di mandargliele sotto la mia guardia, questo sarebbe grande onor di voi e di me gran bene; né credo che mai tal servigio di mente al soldano uscisse.»

Il re, da una reale onestà mosso, subitamente rispose che gli piacea; e onoratamente per lei mandando, a Famagosta la fece venire, dove da lui e dalla reina con festa inestimabile e con onor magnifico fu ricevuta. La quale poi dal re e dalla reina de’ suoi casi adomandata, secondo l’ammaestramento datole da Antigono rispose e contò tutto. E pochi dì appresso, adomandandolo ella, il re, con bella e onorevole compagnia d’uomini e di donne, sotto il governo d’Antigono la rimandò al soldano: dal quale se con festa fu ricevuta niun ne dimandi, e Antigono similemente con tutta la sua compagnia. La quale poi che alquanto fu riposata, volle il soldano sapere come fosse che viva fosse, e dove tanto tempo dimorata senza mai avergli fatto di suo stato alcuna cosa sentire.

La donna, la quale ottimamente gli ammaestramenti d’Antigono aveva tenuti a mente, appresso al padre così cominciò a parlare: «Padre mio, forse il ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave, sdruscita, percosse a certe piagge là in Ponente, vicine d’un luogo chiamato Aguamorta, una notte; e che che degli uomini, che sopra la nostra nave erano, io nol so né seppi già mai. Di tanto mi ricorda che, venuto il giorno e io quasi di morte a vita risurgendo, essendo già la straccata nave da’ paesani veduta e essi a rubar quella di tutta la contrada corsi, io con due delle mie femine prima sopra il lito poste fummo, e incontanente da giovani prese chi qua con una e chi là con un’altra cominciarono a fuggire. Che di loro si fosse io nol seppi mai: ma avendo me contrastante due giovani presa e per le trecce tirandomi, piagnendo io sempre forte, avvenne che, passando costoro che mi tiravano una strada per entrare in un grandissimo bosco, quatro uomini in quella ora di quindi passavano a cavallo: li quali come quegli che mi tiravano videro, così lasciatami prestamente presero a fuggire. Li quatro uomini, li quali nel sembiante assai autorevoli mi parevano, veduto ciò, corsero dove io era e molto mi domandarono, e io dissi molto, ma né da loro fui intesa né io loro intesi. Essi, dopo lungo consiglio postami sopra uno de’ lor cavalli, mi menarono a uno monastero di donne secondo la lor legge religiose; e quivi, che che essi dicessero, io fui da tutte benignissimamente ricevuta e onorata sempre, e con gran divozione con loro insieme ho poi servito a san Cresci in Valcava, a cui le femine di quel paese voglion molto bene. Ma poi che per alquanto tempo con loro dimorata fui, e già alquanta avendo della loro lingua apparata, domandandomi esse chi io fossi e donde, e io conoscendo là dove io era e temendo se il vero dicessi non fossi da lor cacciata sì come nemica della lor legge, risposi che io era figliuola d’un gran gentile uomo di Cipri, il quale mandandomene a marito in Creti, per fortuna quivi eravam corsi e rotti. E assai volte in assai cose, per tema di peggio, servai i lor costumi: e domandata dalla maggiore di quelle donne, la quale esse appellan badessa, se in Cipri tornare me ne volessi, risposi che niuna cosa tanto disiderava. Ma essa, tenera del mio onore, mai a alcuna persona fidar non mi volle che verso Cipri venisse, se non, forse due mesi sono, venuti quivi certi buoni uomini di Francia con le loro donne, de’ quali alcun parente v’era della badessa, e sentendo essa che in Ierusalem andavano a visitare il Sepolcro, dove colui cui tengono per Idio fu sepellito poi che da’ giudei fu ucciso, allora mi raccomandò e pregogli che in Cipri a mio padre mi dovessero presentare. Quanto questi gentili uomini m’onorassono e lietamente mi ricevessero insieme con le lor donne lunga istoria sarebbe a raccontare. Saliti adunque sopra una nave, dopo più giorni pervenimmo a Baffa: e quivi veggendomi pervenire, né persona conoscendovi né sappiendo che dovermi dire a’ gentili uomini che a mio padre mi volean presentare, secondo che loro era stato imposto dalla veneranda donna, m’apparecchiò Idio, al quale forse di me incresceva, sopra il lito Antigono in quella ora che noi a Baffa smontavamo; il quale io prestamente chiamai, e in nostra lingua, per non essere da’ gentili uomini né dalle donne intesa, gli dissi che come figliuola mi ricevesse. Egli prestamente m’intese: e fattami la festa grande, quegli gentili uomini e quelle donne secondo la sua povera possibilità onorò, e me ne menò al re di Cipri, il quale con quello onore mi ricevette e qui a voi m’ha rimandata che mai per me raccontare non si potrebbe. Se altro a dir ci resta, Antigono, che molte volte da me ha questa mia fortuna udita, il racconti.»

 

Antigono allora al soldano rivolto disse: «Signor mio, sì come ella m’ha più volte detto e come quegli gentili uomini con li quali venne mi dissero, v’ha raccontato. Solamente una parte v’ha lasciata a dire, la quale io stimo che, per ciò che bene non sta a lei di dirlo, l’abbia fatto: e questo è quanto quegli gentili uomini e donne, con li quali venne, dicessero della onesta vita la quale con le religiose donne aveva tenuta e della sua virtù e de’ suoi laudevoli costumi, e delle lagrime e del pianto che fecero e le donne e gli uomini quando, a me restituitola, si partiron da lei. Delle quali cose se io volessi a pien dire ciò che essi mi dissero, non che il presente giorno ma la seguente notte non ci basterebbe: tanto solamente averne detto voglio che basti, che, secondo che le loro parole mostravano e quello ancora che io n’ho potuto vedere, voi vi potete vantare d’avere la più bella figliuola e la più onesta e la più valorosa che altro signore che oggi corona porti.»

Di queste cose fece il soldano maravigliosissima festa e più volte pregò Idio che grazia gli concedesse di potere degni meriti rendere a chiunque avea la figliuola onorata, e massimamente al re di Cipri per cui onoratamente gli era stata rimandata: e appresso alquanti dì, fatti grandissimi doni apparecchiare a Antigono, al tornarsi in Cipri il licenziò, al re per lettere e per ispeziali ambasciadori grandissime grazie rendendo di ciò che fatto aveva alla figliuola. Appresso questo, volendo che quello che cominciato era avesse effetto, cioè che ella moglie fosse del re del Garbo, a lui ogni cosa significò, scrivendogli oltre a ciò che, se gli piacesse d’averla, per lei sì mandasse. Di ciò fece il re del Garbo gran festa: e, mandato onorevolmente per lei, lietamente la ricevette. E essa, che con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella e fecegliele credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse. E per ciò si disse: «Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna.»

NOVELLA OTTAVA

Il conte d’Anguersa, falsamente accusato, va in essilio; lascia due suoi figliuoli in diversi luoghi in Inghilterra; e egli, sconosciuto tornando di Scozia, lor truova in buono stato; va come ragazzo nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente è nel primo stato ritornato.

Sospirato fu molto dalle donne per li varii casi della bella donna: ma chi sa che cagione moveva que’ sospiri? Forse v’eran di quelle che non meno per vaghezza di così spesse nozze che per pietà di colei sospiravano. Ma lasciando questo stare al presente, essendosi da loro riso per l’ultime parole da Panfilo dette e veggendo la reina in quelle la novella di lui esser finita, a Elissa rivolta impose che con una delle sue l’ordine seguitasse. La quale, lietamente faccendolo, incominciò.

Ampissimo campo è quello per lo quale noi oggi spaziando andiamo, né ce n’è alcuno che, non che uno aringo ma diece non ci potesse assai leggiermente correre, sì copioso l’ha fatto la fortuna delle sue nuove e gravi cose; e per ciò, vegnendo di quelle, che infinite sono, a raccontare alcuna, dico.

Che essendo lo ’mperio di Roma da’ franceschi ne’ tedeschi transportato, nacque tra l’una nazione e l’altra grandissima nimistà e acerba e continua guerra, per la quale, sì per difesa del suo paese e sì per l’offesa dell’altrui, il re di Francia e un suo figliuolo, con ogni sforzo del lor regno e appresso d’amici e di parenti che far poterono, ordinarono un grandissimo essercito per andare sopra i nemici. E avanti che a ciò procedessero, per non lasciare il regno senza governo, sentendo Gualtieri conte d’Anguersa gentile e savio uomo e molto loro fedele amico e servidore, e ancora che assai ammaestrato fosse nell’arte della guerra, per ciò che loro più alle dilicatezze atto che a quelle fatiche parea, lui in luogo di loro sopra tutto il governo del reame di Francia general vicario lasciarono, e andarono al lor cammino. Cominciò adunque Gualtieri e con senno e con ordine l’uficio commesso, sempre d’ogni cosa con la reina e con la nuora di lei conferendo; e benché sotto la sua custodia e giurisdizione lasciate fossero, nondimeno come sue donne e maggiori l’onorava. Era il detto Gualtieri del corpo bellissimo e d’età forse di quaranta anni, e tanto piacevole e costumato quanto alcuno altro gentile uomo il più esser potesse; e, oltre a tutto questo, era il più leggiadro e il più dilicato cavaliere che a quegli tempi si conoscesse e quegli che più della persona andava ornato.

Ora avvenne che, essendo il re di Francia e il figliuolo nella guerra già detta, essendosi morta la donna di Gualtieri e a lui un figliuol maschio e una femina piccoli fanciulli rimasi di lei senza più, che costumando egli alla corte delle donne predette e con loro spesso parlando delle bisogne del regno, che la donna del figliuolo del re gli pose gli occhi addosso e, con grandissima affezione la persona di lui e’ suoi costumi considerando, d’occulto amore ferventemente di lui s’accese; e sé giovane e fresca sentendo e lui senza alcuna donna, si pensò leggiermente doverle il suo disidero venir fatto, e pensando niuna cosa a ciò contrastare, se non vergogna, di manifestargliele dispose del tutto e quella cacciar via. E essendo un giorno sola e parendole tempo, quasi d’altre cose con lui ragionar volesse, per lui mandò.

Il conte, il cui pensiero era molto lontano da quel della donna, senza alcuna indugio a lei andò; e postosi, come ella volle, con lei sopra un letto in una camera tutti soli a sedere, avendola il conte già due volte domandata della cagione per che fatto l’avesse venire e ella taciuto, ultimamente da amor sospinta, tutta di vergogna divenuta vermiglia, quasi piangendo e tutta tremante con parole rotte così cominciò a dire: «Carissimo e dolce amico e signor mio, voi potete, come savio uomo, agevolmente conoscere quanta sia la fragilità e degli uomini e delle donne, e per diverse cagioni più in una che in altra; per che debitamente dinanzi a giusto giudice un medesimo peccato in diverse qualità di persona non dee una medesima pena ricevere. E chi sarebbe colui che dicesse che non dovesse molto più esser da riprendere un povero uomo o una povera femina, a’ quali con la loro fatica convenisse guadagnare quello che per la vita loro lor bisognasse, se da amore stimolati fossero e quello seguissero, che una donna la quale, ricca e oziosa e a cui niuna cosa che a’ suoi disideri piacesse, mancasse? Certo io non credo niuno. Per la quale ragione io estimo che grandissima parte di scusa debbian fare le dette cose in servigio di colei che le possiede, se ella per avventura si lascia trascorrere a amare; e il rimanente debbia fare l’avere eletto savio e valoroso amadore, se quella l’ha fatto che ama. Le quali cose con ciò sia cosa che amendune, secondo il mio parere, sieno in me, e oltre a queste più altre le quali a amare mi debbono inducere, sì come è la mia giovanezza e la lontananza del mio marito, ora convien che surgano in servigio di me alla difesa del mio focoso amore nel vostro conspetto: le quali, se quello vi potranno che nella presenza de’ savi debbono potere, io vi priego che consiglio e aiuto in quello che io vi dimanderò mi porgiate. Egli è il vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli stimoli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e a divenire innamorata mi sono lasciata trascorrere. E come che tal cosa, se saputa fosse, io conosca non essere onesta, nondimeno essendo e stando nascosa quasi di niuna cosa essere disonesta la giudichi, pur m’è di tanto Amore stato grazioso, che egli non solamente non m’ha il debito conoscimento tolto nello elegger l’amante ma me n’ha molto in ciò prestato, voi degno mostrandomi da dovere da una donna, fatta come sono io, essere amato; il quale, se ’l mio avviso non m’inganna, io reputo il più bello, il più piacevole e ’l più leggiadro e più savio cavaliere che nel reame di Francia trovar si possa; e sì come io senza marito posso dire che io mi veggia, così voi ancora senza mogliere. Per che io vi priego, per cotanto amore quanto è quello che io vi porto, che voi non neghiate il vostro verso di me e che della mia giovanezza v’incresca, la qual veramente, come il ghiaccio al fuoco, si consuma per voi.»

A queste parole sopravennero in tanta abbondanza le lagrime, che essa, che ancora più prieghi intendeva di porgere, più avanti non ebbe poter di parlare, ma bassato il viso e quasi vinta piagnendo sopra il seno del conte si lasciò con la testa cadere. Il conte, il quale lealissimo cavaliere era, con gravissime riprensioni cominciò a mordere così folle amore e a sospignerla indietro, che già al collo gli si voleva gittare, e con saramenti a affermare che egli prima sofferrebbe d’essere squartato che tal cosa contro all’onore del suo signore né in sé né in altrui consentisse.

Il che la donna udendo, subitamente dimenticato l’amore e in fiero furore accesa, disse: «Dunque sarò io, villan cavaliere, in questa guisa da voi del mio disidero schernita? Unque a Dio non piaccia, poi che voi volete me far morire, che io voi o morire o cacciar del mondo non faccia.» E così detto, a una ora messesi le mani ne’ capelli e rabuffatigli e stracciatigli tutti e appresso nel petto squarciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte: «Aiuto, aiuto! ché ’l conte d’Anguersa mi vuol far forza.»

Il conte, veggendo questo e dubitando forte più della invidia cortigiana che della sua conscienza, e temendo per quella non fosse più fede data alla malvagità della donna che alla sua innocenzia, levatosi come più tosto poté della camera e del palagio s’uscì e fuggissi a casa sua, dove, senza altro consiglio prendere, pose i suoi figliuoli a cavallo, e egli montatovi altressì quanto più poté n’andò verso Calese.

 

Al romor della donna corsero molti, li quali, vedutala e udita la cagione del suo gridare, non solamente per quello dieder fede alle sue parole, ma aggiunsero la leggiadria e la ornata maniera del conte, per potere a quel venire, essere stata da lui lungamente usata. Corsesi adunque a furore alle case del conte per arestarlo; ma non trovando lui, prima le rubar tutte e appresso infino a’ fondamenti le mandar giuso. La novella, secondo che sconcia si diceva, pervenne nell’oste al re e al figliuolo; li quali turbati molto a perpetuo essilio lui e i suoi discendenti dannarono, grandissimi doni promettendo a chi o vivo o morto loro il presentasse.

Il conte, dolente che d’innocente fuggendo s’era fatto nocente, pervenuto senza farsi conoscere o essere conosciuto co’ suoi figliuoli a Calese, prestamente trapassò in Inghilterra e in povero abito n’andò verso Londra. Nella quale prima che entrasse, con molte parole ammaestrò i due piccioli figliuoli e massimamente in due cose: prima, che essi pazientemente comportassero lo stato povero nel quale senza lor colpa la fortuna con lui insieme gli aveva recati; e appresso, che con ogni sagacità si guardassero di mai non manifestare a alcuno onde si fossero né di cui figliuoli, se cara avevan la vita. Era il figliuolo, chiamato Luigi, di forse nove anni, e la figliuola, che nome avea Violante, n’avea forse sette; li quali, secondo che comportava la loro tenera età, assai bene compresero l’amaestramento del padre loro e per opera il mostrarono appresso. Il che, acciò che meglio fare si potesse, gli parve da dover loro i nomi mutare, e così fece; e nominò il maschio Perotto e Giannetta la femina. E pervenuti poveramente vestiti in Londra, a guisa che far veggiamo a questi paltoni franceschi, si diedero a andar la limosina adomandando.

E essendo per ventura in tal servigio una mattina a una chiesa, avvenne che una gran dama, la quale era moglie dell’uno de’ maliscalchi del re d’Inghilterra, uscendo della chiesa vide questo conte e i due suoi figlioletti che limosina adomandavano; il quale ella domandò donde fosse e se suoi erano quegli figliuoli. Alla quale egli rispose che era di Piccardia e che, per misfatto d’uno suo maggior figliuolo ribaldo con quegli due, che suoi erano, gli era convenuto partire. La dama, che pietosa era, pose gli occhi sopra la fanciulla e piacquele molto, per ciò che bella e gentilesca e avvenente era, e disse: «Valente uomo, se tu ti contenti di lasciare appresso di me questa tua figlioletta, per ciò che buono aspetto ha, io la prenderò volentieri; e se valente femina sarà, io la mariterò a quel tempo che convenevole serà in maniera che starà bene.»

Al conte piacque molto questa domanda e prestamente rispose di sì, e con lagrime gliele diede e raccomandò molto. E così avendo la figliuola allogata e sappiendo bene a cui, diliberò di più non dimorar quivi; e limosinando traversò l’isola e con Perotto pervenne in Gales non senza gran fatica, sì come colui che d’andare a piè non era uso. Quivi era un altro de’ maliscalchi del re, il quale grande stato e molta famiglia tenea, nella corte del quale il conte alcuna volta, e egli e ’l figliuolo, per aver da mangiare molto si riparavano. E essendo in essa alcun figliuolo, del detto maliscalco e altri fanciulli di gentili uomini e faccendo cotali pruove fanciullesche, sì come di correre e di saltare, Perotto s’incominciò con loro a mescolare e a fare così destramente, o più, come alcuno degli altri facesse, ciascuna pruova che tra lor si faceva. Il che il maliscalco alcuna volta veggendo, e piacendogli molto la maniera e’ modi del fanciullo, domandò chi egli fosse. Fugli detto che egli era figliuolo d’un povero uomo il quale alcuna volta per limosina là entro veniva: a cui il maliscalco il fece adomandare, e il conte, sì come colui che d’altro Idio non pregava, liberamente gliel concedette, quantunque noioso gli fosse il da lui dipartirsi. Avendo adunque il conte il figliuolo e la figliuola acconci, pensò di più non volere dimorare in Inghilterra, ma come il meglio poté se ne passò in Irlanda; e pervenuto a Stanforda, con un cavaliere d’un conte paesano per fante si pose, tutte quelle cose faccendo che a fante o a ragazzo possono appartenere. E quivi, senza esser mai da alcuno conosciuto, con assai disagio e fatica dimorò lungo tempo.

Violante, chiamata Giannetta, con la gentil donna in Londra venne crescendo e in anni e in persona e in bellezza e in tanta grazia e della donna e del marito di lei e di ciascuno altro della casa e di chiunque la conoscea, che era a vedere maravigliosa cosa; né alcuno era che a’ suoi costumi e alle sue maniere riguardasse, che lei non dicesse dovere esser degna d’ogni grandissimo bene e onore. Per la qual cosa la gentil donna che lei dal padre ricevuta avea, senza aver mai potuto sapere chi egli si fosse altramenti che da lui udito avesse, s’era proposta di doverla onorevolmente, secondo la condizione della quale stimava che fosse, maritare. Ma Idio, giusto riguardatore degli altrui meriti, lei nobile femina conoscendo e senza colpa penitenzia portar dell’altrui peccato, altramente dispose: e acciò che a mano di vile uomo la gentil giovane non venisse, si dee credere che quello che avvenne Egli per sua benignità permettesse.

Aveva la gentil donna, con la quale la Giannetta dimorava, un solo figliuolo del suo marito, il quale e essa e ’l padre sommamente amavano, sì perché figliuolo era e sì ancora perché per vertù e per meriti il valeva, come colui che più che altro e costumato e valoroso e pro’ e bello della persona era. Il quale, avendo forse sei anni più che la Giannetta e lei veggendo bellissima e graziosa, sì forte di lei s’innamorò, che più avanti di lei non vedea. E per ciò che egli imaginava lei di bassa condizion dovere essere, non solamente non ardiva addomandarla al padre e alla madre per moglie, ma, temendo non fosse ripreso che bassamente si fosse a amar messo, quanto poteva il suo amore teneva nascoso; per la qual cosa troppo più che se palesato l’avesse lo stimolava. Laonde avvenne che per soverchio di noia egli infermò, e gravemente; alla cura del quale essendo più medici richesti e avendo un segno e altro guardato di lui e non potendo la sua infermità tanto conoscere, tutti comunemente si disperavano della sua salute. Di che il padre e la madre del giovane portavano sì gran dolore e malinconia, che maggiore non si saria potuta portare: e più volte con pietosi prieghi il domandavano della cagione del suo male, a’ quali o sospiri per risposta dava o che tutto si sentia consumare.

Avvenne un giorno che, sedendosi appresso di lui un medico assai giovane ma in iscienza profondo molto e lui per lo braccio tenendo in quella parte dove essi cercano il polso, la Giannetta, la quale, per rispetto della madre di lui, lui sollecitamente serviva, per alcuna cagione entrò nella camera nella quale il giovane giacea. La quale come il giovane vide, senza alcuna parola o atto fare, sentì con più forza nel cuore l’amoroso ardore, per che il polso più forte cominciò a battergli che l’usato: il che il medico sentì incontanente e maravigliossi, e stette cheto per vedere quanto questo battimento dovesse durare. Come la Giannetta uscì della camera, e il battimento ristette: per che parte parve al medico avere della cagione della infermità del giovane; e stato alquanto, quasi d’alcuna cosa volesse la Giannetta adomandare, sempre tenendo per lo braccio lo ’nfermo, la si fé chiamare, al quale ella venne incontanente: né prima nella camera entrò che battimento del polso ritornò al giovane e, lei partita, cessò.