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Istoria civile del Regno di Napoli, v. 7

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CAPITOLO II
Come intanto fosse governato il Regno di Napoli da D. Raimondo di Cardona, e dopo la di lui morte da D. Carlo di Launoja suo successore

Intanto il Regno di Napoli commesso al governo di D. Raimondo di Cardona dal Re Ferdinando e poi dal Re Carlo, che lo confermò Vicerè, ancorchè non avesse patita alcuna invasione di armi straniere, soffriva di volta in volta tasse intollerabili, perchè dovendosi mantenere una guerra così dispendiosa, venivano i Baroni e li Popoli, in occasione di dimandare o nuove grazie, o conferma delle antiche, ovvero (ciò che più loro premeva) esecuzione delle già concedute, le quali non erano osservate, costretti a far nuovi donativi di somme considerabilissime. Erano i tanti capitoli e le tante grazie loro concedute sempre mal eseguite; poichè essendosi sempre dimandato e sempre conceduto, che negli Ufficj così militari, come di giustizia e ne Beneficj ecclesiastici fossero preferiti i Nazionali agli stranieri, governandosi ora il Regno dai Spagnuoli, ed essendovi venute molte famiglie da tutti i Regni di Spagna, erano quelli per lo più conferiti a' Spagnuoli, onde si facevano spesso ricorsi per l'osservanza de' capitoli: di nuovo si prometteva, quando di nuovo si facevano i donativi, ma sempre erano violati ed infranti.

Quando furono a' Napoletani accordate dal Re Ferdinando quelle grazie contenute ne' suoi Capitoli, dei quali di sopra s'è fatta memoria, gli fecero un donativo di 300m. ducati. Non molto da poi, nel 1508, essendosi il medesimo Re, in vigor della pace fatta con Lodovico XII Re di Francia, obbligato di mantenergli a sue spese, oltre la fanteria, 500 uomini d'arme, fu imposto un pagamento di tre carlini a fuoco per sette anni, affinchè si soddisfacesse il Re Lodovico: nella quale occasione dal Conte di Ripacorsa furono conceduti, o per meglio dire confermati, que' Capitoli che si stabilirono nel Parlamento generale celebrato in Napoli nella chiesa di S Lorenzo a' 13 settembre del mentovato anno 1508324.

Succeduto ne' Reami di Spagna il Re Carlo ed eletto poi Imperadore, per li molti dispendj occorsi in proccurar dagli Elettori i loro voti per quest'elezione, e che doveano occorrere nella sua coronazione, fu fatta richiesta nel 1520 dal Vicerè Cardona, che ritrovandosi il Re in necessità ed esausto di denari, si proccurasse dalla città, Baronaggio e Sindici delle Terre demaniali di fargli un donativo, perchè all'incontro il Re l'avrebbe confermati i capitoli e conceduti altri di nuovo. Fu a tal fine in detto anno tenuto altro generale Parlamento, e furono offerti al Re altri ducati 300 mila da pagarsi fra il termine di tre anni, centomila ducati l'anno in tre paghe: fu perciò accordata la conferma di tutti gli altri Capitoli e Privilegi, e che per l'avvenire non si potesse imponere alcuno pagamento estraordinario al Regno. Fu tutto ciò confermato dal Vicerè Cardona in detto anno 1520, e poi ratificato dall'Imperadore con ispezial suo diploma spedito in Vormazia al primo di gennajo del seguente anno 1521325, ma non per questo, durando l'istesse cagioni, anzi vie più che mai resi irreconciliabili gli animi di Cesare e del Re Francesco Principi potentissimi, ed accese più fiere che mai fra di loro guerre crudeli ed inestinguibili, cessò la necessità e 'l bisogno di denari per sostenerle; onde si venne di nuovo alle sovvenzioni ed a nuovi donativi e grazie.

Morì nel seguente anno 1522 a '10 di Marzo D. Raimondo di Cardona, ed il suo cadavere fu depositato nella cappella del Castel Nuovo, per trasportarsi in Catalogna nella chiesa di S. Maria di Monferrato: Capitano, se si riguarda la condizione di que' tempi, comportabile per la sua prudenza e destrezza nel governo civile, che soddisfece al Re Ferdinando, e molto più all'Imperador Carlo V, a cui la di lui morte cotanto dispiacque. Non essendo stata da lui sostituita persona, nè trovandosi tampoco nominata dal Re, che sottentrasse al governo, rimase a governare il Consiglio Collaterale, sino a' 16 luglio del medesimo anno, poichè dall'Imperadore fu in luogo del Cardona mandato al governo di Napoli D. Carlo di Launoja, non già spagnuolo, ma fiamengo. Carlo in questi principj del suo regnare, venuto da Brusselles in Ispagna, ed avendo seco condotti molti Fiamenghi, s'era posto in mano de' medesimi, e come si è veduto, si governava col consiglio di Monsignor di Ceures fiamengo, e la cagione de' tumulti avvenuti in Ispagna non altronde fu, che d'essersi il Re valuto, posponendo gli Spagnuoli nazionali, de' Fiamenghi e sopra ogni altro del Ceures, il quale dimostratosi insaziabile, avea per tutte le vie accumulata somma grandissima di danari; lo stesso facendo gli altri Fiamenghi, vendendo per prezzo a' forastieri gli ufficj soliti darsi a' Spagnuoli, e facendo venali tutte le grazie, privilegi ed espedizioni, che si dimandavano alla Corte.

Venne Launoja in Napoli famoso Capitano ed espertissimo nell'arte militare, il qual sì mostrò alla piazza del Popolo di Napoli molto favorevole, e pochi mesi dopo la sua venuta, le concesse molti Capitoli, che furono da lui spediti nel Castel Nuovo a' 12 ottobre di quest'anno 1522, rapportati dal Summonte326.

Non potè che poco più d'un anno governar il Regno; poichè tuttavia la guerra di Lombardia incrudelendosi, nè potendo più sostener il comando dell'armata Prospero Colonna carico d'anni, e quasi già alienato di mente, l'Imperadore stimò appoggiar quell'impresa alla espertezza e valore di Launoja; onde comandò, che lasciato in Napoli un suo Luogotenente andasse a Milano a pigliar il supremo comando di quell'esercito. E con tal congiuntura, premendo il bisogno di questa guerra, fu fatto un nuovo donativo a Cesare di altri ducati cinquantamila per supplire alla spesa, che seco portava un tanto esercito327. Ed alcuni anni da poi, per la nascita del Principe Filippo, convocato nuovo Parlamento, se gli accordò un altro donativo di ducati ducentomila328, siccome di tempo in tempo ne furon fatti degli altri di somme rilevantissime, delli quali il Tassoni, il Mazzella ed il Costo tesserono lunghi cataloghi.

Partì il Launoja da Napoli nel 1524, e lasciò per suo Luogotenente Andrea Caraffa Conte di S. Severino, il quale con molta lode governò il Regno poco men che tre anni. Morì costui nel mese di giugno dell'anno 1526, e la sua morte fu da tutti compianta329. Ed intanto, essendo il Launoja tornato di Spagna, ove come in trionfo avea portato prigione il Re Francesco, dopo aver combattuto ne' mari di Corsica con l'armata franzese, si restituì a Napoli per difendere il Regno dall'insidie del Papa, che vi avea invitato Valdimonte alla conquista.

CAPITOLO III
Invito fatto da Papa Clemente VII a Monsignor di Valdimonte per la conquista del Regno: suoi progressi, li quali ebbero inutile successo. Prigionia di Papa Clemente e sua liberazione

Appena si vide Re Francesco libero in Francia, che posta in dimenticanza la solennità de' Capitoli stipulati in Madrid, la fede data e la religione dei giuramenti, il vincolo del nuovo parentado, e quel ch'è più, il pegno di due figliuoli, fu tutto rivolto a muover nuove e più implacabili guerre al suo emolo Carlo. Coloriva l'inosservanza con dire, ch'egli e prima quando fu condotto prigione nella Rocca di Pizzichitone, e poi in Ispagna nella Fortezza di Madrid, si era molte volte protestato contra Cesare, (perchè vedeva la iniquità delle dimande sue) che se stretto dalla necessità cedesse ad inique condizioni, o quali non fosse in potestà sua d'osservare, che non solo non le osserverebbe, anzi riputandosi ingiuriato da lui per averlo astretto a promesse inoneste ed impossibili, se ne vendicherebbe, se mai ne avesse l'occasione. Nè aveva mancato di dire molte volte quello che per loro stessi potevano sapere, e che credeva anch'essere comune agli altri Regni, cioè, che in potestà del Re di Francia non era obbligarsi senza consentimento degli Stati generali del Reame ad alienare cos'alcuna appartenente alla Corona: non permettere le leggi cristiane che un prigione di guerra stesse in carcere perpetua; per essere pena conveniente agli uomini di mal affare, e non trovata per supplicio di chi fosse battuto dalla acerbità della fortuna: sapersi per ciascuno essere di nessuno valore l'obbligazioni fatte violentemente in prigione: ed essendo invalida la capitolazione, non restare nemmeno obbligata la sua fede accessoria e confermatrice di quella; procedere i giuramenti in contrario fatti a Rems, quando con tanta cerimonia e con l'olio celeste si consacrano i Re di Francia, per li quali s'obbligano di non alienare il patrimonio della Corona; e perciò non essere meno libero che pronto a moderare la insolenza di Cesare. Questi medesimi sentimenti e desiderj mostravano d'avere la madre e la sorella del Re e tutti i principali della sua Corte.

 

Ma tutte queste deliberazioni non avrebbero avuto verun successo, se insieme alle medesime non avessero dato calore i Vineziani, e più il Pontefice Clemente, i quali considerando non meno la potenza di Cesare, che la sua ambizione fomentata dal Consiglio di Spagna, che lo persuadeva ad impadronirsi d'Italia, temevano non finalmente gli riuscisse di mettere in servitù la Chiesa, Italia e tutti gli altri Principi. Sopravvennero altri dispiaceri al Papa per cagione de' Ministri di Cesare. I Capitani imperiali alloggiando nel Piacentino e nel Parmegiano facevano infiniti danni; e querelandosene il Pontefice, rispondevano, che per non essere pagati, vi erano venuti di propria autorità. Commoveanlo eziandio le cose forse più leggieri, ma interpetrate, come si fa nelle sospizioni e nelle querele, nella parte peggiore; perchè non tanto in Ispagna che in Napoli, s'erano pubblicate ordinazioni in pregiudizio della Corte Romana: Cesare avea fatti pubblicare in Ispagna alcuni editti prammatici contra l'autorità della Sede Appostolica, per virtù de' quali, essendo proibito a' sudditi suoi trattare cause beneficiali di quelli Regni nella Corte Romana, ebbe ardire un Notajo Spagnuolo, entrato nella Ruota di Roma il dì destinato all'udienza, d'intimare in nome di Cesare a due Napoletani, che desistessero dal litigare in quello Auditorio330.

(Dall'aver Cesare in tutti i Regni della Monarchia di Spagna tolta ogni autorità a' Tribunali di Roma, Tuano nel lib. primo Hist. sui temporis, savissimamente avvertì, che ciò non ostante potea ben in quelli conservarsi intiera l'Ecclesiastica disciplina, come fu già nei tempi antichi: Caesar, ei dice, ut injuriam sibi a Clemente illatam ulcisceretur, nominis Pontificii auctoritatem per omnem Hispaniam abolet; exemplo ad Hispanis ipsis Posteritati relicto, posse Ecclesiasticam disciplinam citra nominis Pontificii auctoritatem conservari. Fra le altre querimonie che si leggono nel lungo Breve scritto da Clemente a Cesare a' 2 giugno di quest'istesso anno 1526 rapportato da Lunig331, si leggono le querele, che sopra ciò ne fece con Carlo V, ma questo savio Imperadore nella risposta che gli diede rintuzzò la querimonia, pag. 1005, con queste savissime parole: Minusque potuit V. S. de nostra voluntate dubitare ex Pragmaticis in Hispania editis, quae prout a nostris etiam Consiliariis accepimus (quibus in his quae juris sunt, merito credere debemus) conformari videntur, et antiquis Regnorum nostrorum Privilegiis, moribus et consuetudinibus. E per ciò, che riguardava il Regno di Napoli, gli soggiunse: itidem facturi de his, quae ad Regnum Neapolitanum pertinent, pro quibus nec ab Investitura; nec a Privilegiis Regni quovis modo recedere intendimus, nec illis derogare).

Deliberò pertanto Papa Clemente, stimolato anche da tutti i suoi Ministri, non solo di confederarsi col Re di Francia e con gli altri contra Cesare, ma di accelerarne anche la esecuzione. Assolvè per tanto il Re da' giuramenti prestati in Ispagna per osservazione delle cose convenute nella capitolazione di Madrid, e strinse finalmente la lega con quel Re ed i Principi italiani, a cui diedero il nome di Lega Sanctissima. Fu quella conchiusa nel 17 di maggio dell'anno 1526 in Cugnach tra gli uomini del Consiglio Proccuratori del Re di Francia da una parte, e gli Agenti del Pontefice e de' Vineziani dall'altra. Furono in questa confederazione stabiliti molti capitoli, che possono leggersi nell'Istoria del Guicciardino332; ma per ciò che riguarda il Regno di Napoli, fu convenuto:

Che indebolito in Lombardia l'esercito Cesareo, si assaltasse potentemente per terra e per mare il Reame di Napoli: del quale, quando s'acquistasse, avesse ad essere investito Re chi paresse al Pontefice. In un capitolo separato però s'aggiunse, che non potesse il Papa disporne senza consenso de' Collegati, riservatigli nondimeno i censi antichi, che soleva avere la Sede Appostolica, ed uno Stato per chi paresse a lui, d'entrata di 40 mila ducati.

Che, acciocchè il Re di Francia avesse certezza, che la vittoria che s'ottenesse in Italia, e l'acquisto del Reame di Napoli fosse per facilitare la liberazione de' figliuoli, che in tal caso volendo Cesare infra quattro mesi dopo la perdita di quel Reame entrare nella confederazione, gli fosse restituito; ma non accettando questa facoltà, avesse il Re di Francia in perpetuo sopra il Reame di Napoli annuo Censo.

Intanto Cesare avea mandato in Francia il nostro Vicerè Launoja, perchè con effetto ratificasse la capitolazione fatta a Madrid; ma il Re scusandosi di non esser in sua potestà di lasciargli la Borgogna, ma contentarsi, in vece di quella, che se gli pagassero due milioni di scudi, rispose, ch'era per osservargli tutte le altre promesse. Questa risposta concitò sdegno grandissimo in Cesare, il quale deliberato di non alterare il capitolo della restituzione della Borgogna, ma più tosto concordarsi col Pontefice alla reintegrazione di Francesco Sforza nello Stato di Milano, destinò D. Ugo di Moncada al Pontefice Clemente, con commessione di dargli tutte le soddisfazioni. Ed avendosi sposata nel principio di Marzo di quest'anno 1526 nella città di Siviglia D. Isabella figliuola del Re di Portogallo, li danari, ch'ebbe di dote, gli destinò per pagare l'esercito di Lombardia, di cui per la morte del Marchese di Pescara avea fatto Capitan Generale il Duca Borbone ribelle del Re di Francia, sollecitandolo, che tosto passasse in Italia333.

Ma giunto che fu D. Ugo a Roma, avendo proposto al Papa le condizioni della confederazione, gli fu risposto non essere più in potestà sua di accettarla, mostrandogli la necessità che l'avea indotto a confederarsi col Re di Francia e co' Vineziani per la sicurezza sua e d'Italia, avendo Cesare tardato molto a risolversi.

Le cose di Lombardia perciò erano piene di sconvolgimenti e timori, e que' della lega per divertire la guerra di Lombardia, avean fatti grandi apparecchi per assaltare il Regno di Napoli per mare e per terra: onde mosso da questi timori il nostro Vicerè Launoja, se ne venne in Napoli; e poichè gli Spagnuoli temevano assai, che il Regno non si perdesse, giunto che fu, diede il Vicerè molti ordini per la fortificazione di molti Castelli per lo Regno, e particolarmente diede pensiero a Giovan Battista Pignatello, che allora si trovava Vicerè delle province d'Otranto e di Bari, che fortificasse tutti quelli ch'erano alla marina di Puglia nell'Adriatico ed invigilasse sopra i Vineziani confederati col Papa e Francia334.

E dall'altra parte D. Ugo di Moncada istigava i Colonnesi, per levare il Papa dalla lega contra l'Imperadore, affinchè questi, avendo l'armi in mano, con gli altri Capitani imperiali destinati per la difesa del Regno di Napoli, assalissero all'improvviso il Palazzo del Vaticano, come fecero, saccheggiandolo con molta empietà: onde il Papa, vedendosi in così stretto partito, se ne fuggi dal Palazzo di S. Pietro per lo corridojo al Castello di S. Angelo, dove si salvò; e costretto in tal guisa, mandò per ostaggio due Cardinali suoi parenti a D. Ugo, perchè entrasse nel Castello a trattar seco l'accordo, che dimandava. Fu il dì seguente 21 di settembre quello conchiuso; onde i Colonnesi partirono da Roma, e D. Ugo se ne venne a Napoli335. Ma non così tosto si vide libero il Papa, disposto a non osservar accordo veruno, che gli era stato estorto con tanta perfidia e violenza, che privò Pompeo Colonna del Cardinalato e chiamò Monsignor di Valdimonte da Francia, perchè pretendendo egli essere erede della Casa d'Angiò, suscitasse nel Regno di Napoli la fazione Angioina contra all'Imperadore.

Il Vicerè Launoja incontanente, sentendo l'invito fatto dal Papa a Valdimonte, volle prevenirlo, e ragunato un competente esercito determinò assaltare lo Stato Ecclesiastico; onde a' 20 di decembre di quest'istesso anno 1526 si pose col campo a Frosinone, dove fu combattuto con le genti Papali, che gagliardamente si opposero. Da poi condusse il campo imperiale a Cesano ed a Cepperano, travagliando queste ed altre Terre dello Stato della Chiesa.

Il Papa all'incontro mandò Renzo da Ceri in Apruzzo con seimila fanti, il quale occupò l'Aquila ed altri luoghi di quel contorno.

Venne il nuovo anno 1527 pieno d'atrocissimi e già per più secoli non uditi accidenti, mutazione di Stati e di Religione, prigionie di Pontefici, saccheggiamenti spaventosissimi di Città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia, ed in Napoli grandissima.

Nel principio di quest'anno giunse il Valdimonte, chiamato da Clemente, con un'armata di 24 Galee, ed avendo ottenuto dal Pontefice titolo di suo Luogotenente cominciò a travagliare le marine del Regno, facendosi chiamare Re di Napoli.

(Valdimonte si facea chiamare Re di Napoli, perchè pretendeva, come si è detto, nella sua linea essere trasfuse le ragioni di Renato d'Angiò ultimo Re Angioino, discacciato dagli Aragonesi per Violanta sua figliuola maritata con Ferry Conte di Vaudemont, dal qual matrimonio nacque Renato II Duca di Lorena; onde questa famiglia fra le sue arme inquarta anche quelle di Sicilia e di Gerusalemme, e fra titoli ritiene ancor quello di Duca di Calabria, siccome è manifesto dal Trattato istorico di Baleicourt su l'orig. et Genealog. della casa di Lorena pag. 206 secondo l'edizione di Berlino dell'anno 1711).

Valdimonte saccheggiò al primo di marzo Mola di Gaeta, ed a' 4 avendo posto la sua gente a terra sotto Pozzuoli, tentò sorprenderlo, ma gli riuscì vano il disegno. Venuto poi a vista di Napoli, prese Castel a Mare, indi la Torre del Greco, e scorrendo i suoi soldati per terra sino alla Porta del Mercato di Napoli, fu tanta la paura de' Cittadini, che con fretta la chiusero.

Prese anche Sorrento e gli altri luoghi d'intorno, ed ebbe ardire la sua armata accostarsi tanto alla città di Napoli, che dalle Castella le furono tirati alcuni colpi di artiglieria. Prese anche Salerno, rubando i vasi d'argento, che stavano al Sepolcro dell'Appostolo Matteo. E se l'avviso dell'accordo fatto col Papa non l'avesse intepidito, avrebbe fatto maggiori progressi.

 

Il Pontefice, ancorchè avesse rifiutato l'accordo, che por Cesare Ferramosca con umili lettere dell'Imperadore, rapportate dal Summonte336, gli fu nuovamente proposto, mostrando sempre durezza, e tanto più, quando vide giunto Valdemonte; nulladimanco all'avviso che il Duca Borbone calava con potente esercito verso Roma, e che l'amplissime promesse dei Franzesi riuscivano ogni dì più scarse d'effetti, piegò finalmente il capo, e diede al Ferramosca certezza d'ultimarlo; di che costui avvisatone il Launoja, questi a' 25 marzo si portò immantenente in Roma, dove finalmente fu quello conchiuso, con condizioni di sospendere l'armi per otto mesi, di pagare all'esercito Imperiale 60 mila ducati, e restituire il Pontefice le Terre occupate nel Regno; ed all'incontro fu convenuto (ciò che più al Papa premeva) che dovesse in persona andar Launoja alla volta di Borbone, e ritenerlo, affinchè non passasse più avanti, siccome avea prima mandato Cesare Ferramosca ad incontrarlo per quest'istesso fine.

Partì con effetto il Vicerè ai 3 d'aprile da Roma; ed andò incontro a Borbone; ma nè l'andata del Ferramosca, nè la sua punto giovò per distogliere quel Capitano di lasciare il suo cammino: scusandosi non essere in potestà sua comandar all'esercito, che si fermasse, poichè essendo creditore di molte paghe, non avea altro modo di pagarsi che col sacco di Roma, nè potea recarsi a' suoi soldati nuova più spiacente di questa; e volendosi opporre con fortezza il Vicerè, fu fama che passasse pericolo nella vita: cotanto stavano sdegnati i soldati, la maggior parte de' quali venuti di Germania appestati per le nuove eresie, che colà Martin Lutero avea sparse, in discredito e vilipendio della Corte di Roma, correvano famelici ed allettati dal guadagno del sacco promesso di Roma, vedevano di mal animo chi voleva distoglierli da quella preda.

Intanto il Papa confidatosi nell'autorità del Launoja avea licenziato tutte le genti di guerra, che teneva assoldate; onde quando men sel pensava, Borbone seguitando il suo cammino, e devastando lo Stato Ecclesiastico, fu veduto a' 5 di maggio alle mura di Roma. Il nostro Vicerè non volendo esser partecipe di tanto male, quanto designava fare Borbone, non volle seguitare il suo esercito, che andava alla volta di Roma, ma incamminandosi insieme col Marchese del Vasto per altra strada alla volta di Napoli, quando giunse ad Aversa s'ammalò, ed in pochi giorni nel mese di maggio di quest'anno, quivi trapassò. Vi fu opinione, che fosse stata proccurata la sua morte con veleno, per vendetta della morte del Marchese di Pescara, e perchè a lui dovea succedere nella carica di Vicerè D. Ugo di Moncada337. Non leggiamo di lui alcuna Prammatica, perchè quasi sempre essendo lontano da Napoli, attese agli esercizj di Marte. Fu il suo cadavere portato in Napoli, ove giace sepolto nella Chiesa di Monte Oliveto; e governando intanto il Regno il Collateral Consiglio, fu in suo luogo nella fine di quest'anno 1527 rifatto per Vicerè, D. Ugo di Moncada Spagnuolo.

Non vi fu rapacità ed ingordigia maggiore di quella, che entrato il Borbone in Roma per saccheggiarla, non si praticasse: tutto era disordine e confusione; ed ancorchè Borbone nel primo assalto rimanesse morto d'un colpo d'archibugio, ciò diede al suo esercito spinta maggiore d'incrudelire contra quella Città. Entrarono dopo picciolo contrasto i soldati nel Borgo. Il Papa si ritirò in Castel S. Angelo, dove fu assediato, ed i soldati non trovando più ostacolo entrarono per Porta Sisto in Roma. Non vi fu crudeltà, irreverenza, avarizia e libidine, che non fosse esercitata. Posero il tutto a sacco, nè si può immaginare quanta rapacità, quanto fosse stato il vilipendio delle Chiese, gli obbrobrj fatti a' Cardinali, ed agli altri Prelati, e quanta la libidine usata contra l'onore delle donne. L'esercito della lega, non trovando modo di poter soccorrere al Papa per le difficoltà proposte dal Duca d'Urbino, conchiuse essere impossibile allora soccorrere il Castello; onde il Pontefice, abbandonato d'ogni speranza, si accordò come potè il meglio con gl'Imperiali, di pagare all'esercito 400 mila ducati: di restar egli prigione in Castello con tutti i Cardinali, che vi erano in numero di tredici, insino a tanto che fossero pagati i primi 150 mila ducati: poi andassero a Napoli, o a Gaeta per aspettare quello che di loro determinasse Cesare: che restasse in potestà di Cesare il Castello di S. Angelo, mentre a lui piacerà di ritenerlo con l'altre Rocche: ed altre capitolazioni, che possono leggersi presso il Guicciardino338.

Come fu fatto quest'accordo, entrò nel Castello il Capitan Alarcone con tre compagnie di fanti spagnuoli ed altre tante tedesche, il quale deputato alla guardia del Castello e del Pontefice, lo guardava con grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste, e con picciolissima libertà.

Pervenuto in Francia ed in Inghilterra la novella d'un così orribil fatto, e della prigionia del Pontefice, si mossero quei due Re più fieri che mai contra l'Imperadore, non solo per la pietà cristiana che professavano, e per la divozione alla Sede Appostolica; ma molto più per l'odio privato implacabile, che portavano a Cesare: Francesco I per cagioni assai note, ed Errico VIII Re d'Inghilterra, perchè avendogli prestate grosse somme di denari, quando glie le dimandava, era pasciuto di parole, e menata in lungo la restituzione. Si strinsero perciò fra di loro, con deliberazion ferma d'unire tutte le loro forze, e mandare potenti eserciti in Italia; non pure per liberar il Papa dall'oppressione in che stava con toglierlo di mano dagli Spagnuoli, ma invadere con potente esercito il Regno di Napoli, e toglierlo dall'ubbidienza dell'Imperadore. Facilitava l'impresa l'unione de' Vineziani, e de' Svizzeri, i quali mossi ancor essi a pietà del Papa e di Roma, sollecitavano il pigliar l'armi, acciò che tutti insieme aggiunti potessero liberare il Papa, e riacquistar il Regno di Napoli. Sperava ancora il Re di Francia, che vedutosi Cesare astretto in cotal guisa, ed esausto per le paghe de' suoi eserciti, che contra tanti dovea mantenere, facilmente si sarebbe indotto, pagandogli una buona taglia, a restituirgli i due suoi figliuoli, ch'erano rimasi per ostaggi in Ispagna.

Fu per ciò immantenente risoluto il passaggio degli Svizzeri in Italia, assoldata nuova gente in Francia, contribuendo il Re d'Inghilterra con denari, ed altri con gente; tanto che fu unito un fioritissimo esercito con prestezza mirabile, e fu dato il supremo comando di quello al famoso Odetto di Fois Monsignor Lautrech, un de' Capitani più insigni, che avesse allora la Francia, il qual si mosse da Francia per Italia per liberar prima il Papa, e poi passare alla conquista del Regno.

Dall'altra parte, giunto che fu in Ispagna l'avviso del sacco di Roma, e della prigionia del Papa fu cosa maravigliosa, quanto da Cesare e dagli Spagnuoli s'affettasse il dolore e la mestizia. Giunse il tempo, quando per la natività del Principe D. Filippo figliuol primogenito dell'Imperadore, la Spagna era al maggior colmo di gioja e d'allegrezza, e la Corte in feste e in tornei; e pure l'Imperadore fece tosto cessar le feste, vestissi di lutto in segno del dolore che mostrava averne, e tutta la sua Corte parimente si vide con abiti lugubri: si fecero processioni lunghe, e numerose, pregando N. S. per la liberazione del Papa. I Frati, i Preti nelle loro Chiese con pubbliche preci assordavano il Cielo, implorando il Divino ajuto per la libertà del loro Sommo Sacerdote, come se non in mano di Cesare in Roma, ma dell'Imperadore de' Turchi sotto duro carcere in Costantinopoli e' si stasse. E nel medesimo tempo Papa Clemente sofferiva la stretta custodia del Capitan Alarcone, il quale lo guardava, ridotto in abitazioni anguste, con severità e alterigia spagnuola; e l'Imperadore con la solita tardità degli spagnuoli stava deliberando, se dovea ratificar l'accordo fatto nel Castel di S. Angelo, ovvero imporre più dure condizioni alla sua liberazione: a tanti Principi che di ciò lo ricercavano per mezzo de' loro Oratori, dava egli benignissime parole, ma incerta e varia risoluzione. Avrebbe egli desiderato, che la persona del Pontefice fosse condotta in Ispagna, giudicando sua gran riputazione, se d'Italia in due anni fossero stati condotti in Ispagna due così gran prigioni, un Re di Francia ed un Pontefice Romano.

(Il Varchi Istor. Fior. lib. 5 A. 1521 pag. 119 rapporta ancora che questa tardanza ed irresoluzione di Cesare nasceva, perchè secondo credevano li più prudenti, (sono le sue parole) che l'intendimento suo fosse di volere il Papato a quell'antica simplicità e povertà ritornare, quando i Pontefici senza intromettersi nelle temporali cose, solo alle spirituali vacavano. La quale deliberazione era, per l'infinite abusioni e pessimi portamenti di Pontefici passati, lodata grandemente, e desiderata da molti, e già si diceva infino a plebei uomini, che non istando bene il Pastorale e la Spada, il Papa dover tornare in S. Giovanni Laterano a cantar la Messa.)

Nulladimanco avendo inteso i tanti apparati di guerra, non meno de' Svizzeri e Vineziani e Franzesi, che del Re d'Inghilterra, il quale sopra gli altri ardentissimamente desiderava la liberazione del Papa, per non irritare tanto l'animo di questo Re, e perchè tutti li Regni di Spagna, e principalmente i Prelati ed i Signori detestavano molto, che dall'Imperador Romano, protettore ed avvocato della Chiesa, fosse con tanta ignominia di tutta la Cristianità tenuto in carcere colui, che rappresentava la persona di Cristo in terra; avendo poi, dopo aver tardato più d'un mese a far deliberazione alcuna, intesa l'andata di Lautrech in Italia, e la prontezza del Re d'Inghilterra alla guerra; si risolse finalmente di mandar commessione al Vicerè di Napoli per la liberazione del Pontefice e restituzione di tutte le Terre e Fortezze occupategli. Mandò per tanto in Italia il Generale di S. Francesco, e Veri di Migliau con commessione sopra questo negozio al Vicerè Launoja, il quale trovandosi morto quando arrivò il Generale, fu necessario trattare il negozio con D. Ugo di Moncada, al quale anche si distendeva il mandato di Cesare; ed avendo il Generale comunicato con D. Ugo, andò a Roma insieme con Migliau. Conteneva questo negozio due articoli principali, l'uno, che il Pontefice soddisfacesse all'esercito creditore in somma grossissima di danari; l'altro, la sicurtà di Cesare, che il Pontefice liberato non s'unisse co' suoi nemici, ed in questo si proponevano dure condizioni di statichi, e di sicurtà di Terre.

Trattossi per queste difficoltà la cosa lungamente, ed il Pontefice per facilitarla, continuamente sollecitava Lautrech (ma occultamente) a farsi innanzi: l'assicurava, che qualunque cosa ch'ei forzato promettesse agli Imperiali, uscito di carcere, e condotto in luogo sicuro, non l'osserverebbe. Finalmente venne nuova commessione di Cesare, il quale sollecitava, che il Pontefice si liberasse con più soddisfazione sua, che fosse possibile, soggiungendo bastargli, che liberato non aderisse più a' Collegati, che a lui. Si credette che da Cesare, e da' suoi si facilitasse la liberazione del Papa per lo timore, che avevano della venuta di Lautrech, e per condurre per ciò quanto più presto si potesse il loro esercito alla difesa del Reame di Napoli: ma come che ciò era impossibile farsi, senza assicurar i soldati degli stipendj decorsi, i quali ricusavano ammettere ogni compensazione, che loro si opponeva, per le tante prede, e tanti guadagni fatti nel sacco di Roma: per ciò si badò unicamente a provvedere a questi pagamenti, e si pensò meno all'assicurarsi per lo tempo futuro del Pontefice. Fu conchiusa dunque all'ultimo d'ottobre, dopo sette mesi della prigionia del Papa, la concordia in Roma col Generale, e con Serenon in nome di Don Ugo, che poi ratificò, la quale conteneva questi Capitoli.

324Capit. et privileg. Neap. fol. 67.
325Capit. et Privileg. Civit. Neap. fol. 83.
326Summ. tom. 4 pag. 35.
327Summ. t. 4 P. 37
328Summ. loc. cit. p. 42.
329Giornali di Gregorio Rosso p. 3.
330Guic. l. 17.
331Tom. 3 pag. 1765.
332Guic. lib. 17.
333Gior. del Rosso p. 4.
334Gior. del Rosso p. 4.
335Rosso p. 5.
336Summ. tom. 4.
337Gior. del Rosso pag. 9.
338Guic. lib. 18.