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Istoria civile del Regno di Napoli, v. 6

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CAPITOLO I

Nozze della Regina Giovanna II col Conte Giacomo della Marcia de' Reali di Francia

Questo risentimento pose in gran pensiero la Regina e più il Conte Pandolfello, e tanto più, quanto che tutti quelli del Consiglio uniti sollecitavano la Regina, ch'essendo rimasa sola della stirpe di Re Carlo e di tanti Re, che aveano regnato centocinquanta anni, dovesse pigliar marito per aver figliuoli ed assicurar il Regno di quiete; e che il Regno stando in quel modo non potria tardare a vedersi in qualche movimento. A questo s'aggiunse, che le Feste di Natale arrivarono in Napoli Ambasciadori d'Inghilterra, di Spagna, di Cipri e di Francia a trattar il matrimonio, che indussero la Regina a risolversi. E perchè parea più opportuno il matrimonio dell'Infante D. Giovanni d'Aragona, figliuolo del Re Ferrante, di tutti gli altri matrimonj, perchè Ferrante possedea l'isola di Sicilia, donde poteva più presto mandare soccorso per debellare gli emuli della Regina: il Consiglio persuase, che si mandasse in Catalogna Messer Goffredo di Mont'Aquila Dottore di legge e Frate Antonio di Taffia Ministro de' Conventuali di S. Francesco a trattar il matrimonio, i quali furon tantosto in Valenza e lo conchiusero con gran piacere di quel Re. Ma quando gli Ambasciadori tornarono in Napoli, e dissero che l'Infante D. Giovanni, che avea da essere lo sposo non avea più che diciotto anni, e la Regina n'avea quarantasette, si mandò a disciogliere tutto quel, che s'era convenuto e si elesse il matrimonio del Conte Giacomo della Marcia de' Reali di Francia, ma molto rimoto alla Corona; giudicando che potrebbe trattar con lui con più superiorità, che con gli altri, che verrebbero con più fasto e superbia, e patteggiò col di lui Ambasciadore, che s'avesse ad astenere dal titolo di Re, e chiamarsi Conte e Governador Generale del Regno, che del rimanente sarebbe tenuto da lei carissimo. Partì di Napoli l'Ambasciadore sollecitato da molti, che pregasse il Conte d'affrettarsi al venire, e con questo restarono gli animi di tutti quieti. Ma Pandolfello pensando, che fosse poco, che il marito della Regina si chiamasse Conte per la sicurtà sua, e conoscendo la moltitudine degl'invidiosi, che desideravano la rovina sua, pensò di fortificarsi di amicizie e di parentadi, e voltando il pensiero ad obbligarsi Sforza, scese a visitarlo nelle carceri, sforzandosi di dargli a credere, che la Regina l'avea fatto restringere ad instigazione d'altri, e ch'egli tuttavia travagliava per farlo liberare. Sforza ch'era di natura aperta e molto semplice, tenendolo per vero, il ringraziò, e gli promise ogni ufficio possibile di gratitudine, ed egli replicò, che stesse di buon animo, che vi avrebbe interposta Catarinella Alopa sua sorella favoritissima della Regina. Di là a pochi dì avendo conferito questo suo pensiero con la Regina, l'indusse a contentarsi di quanto egli faceva, e ritornato in carcere disse a Sforza, che avea proccurato non solo la libertà, ma la grandezza sua; ma che la Regina volea per patto espresso, che pigliasse per moglie Catarinella, che avea tanto travagliato per liberarlo, e che in conto di dote gli darebbe l'ufficio di G. Contestabile, con ottomila ducati il mese per soldo delle sue genti. Uscì Sforza da prigione, e fur celebrate le nozze con gran pompa; ma di ciò nacque un grandissimo sdegno ed odio contro la Regina, ed il Conte Pandolfello, in tutti quegli del Consiglio, parendo cosa indegnissima, che un semplice Scudiero (che così lo chiamavano) disponesse senza vergogna dell'animo e del corpo della Regina; ma molto più fremevano i servidori del Re Carlo III e del Re Ladislao che vedevano vituperare la memoria di due Re tanto gloriosi, e tra gli altri mostrava maggior doglia Giulio Cesare di Capua, il quale avendo condotto appresso di se gran parte de' soldati del Re Ladislao, aspirava a cose grandi, essendo Sforza carcerato; ma quando lo vide libero ed unito con Pandolfello, già pareva a tutti, che fosse ordinato un Duumvirato di Sforza e del Conte, che avrebbe bastato a poner in un sacco il Conte della Marcia, e partirsi il Regno; onde quando venne l'avviso, che il nuovo marito di Giovanna era in Venezia, e che fra pochi dì sarebbe a Manfredonia, Giulio Cesare si partì con alquanti altri Baroni senz'ordine, ed incontrato il Conte al piano di Troja, fu il primo, che scese da cavallo e lo salutò Re, e così fecero gli altri. Narrò poi in che miseria era il Regno, e quanta speranza avea d'esserne liberato dalla Maestà Sua, perchè la Regina impazzita d'amore, s'era vilmente data in preda d'un ragazzo, il quale avendo apparentato con un altro villano condottiere di gente d'armi, disponeva e tiranneggiava il Regno con gran vituperio della Corona e del sangue reale, e che però bisognava ch'egli con spirito di Re e non di Conte pigliasse la Signoria, e che non aspettasse che que' due manigoldi l'appiccassero, come in tempo di un'altra Regina Giovanna fu appiccato Re Andrea; perchè certamente la Regina, quando si vedesse impedita dal commercio amoroso di colui che amava tanto, non è dubbio che avrebbe posto insidie alla vita sua. Re Giacomo restò punto da doglia e da scorno, parendogli aver pigliata la speranza della Signoria dubbia, e il pericolo e la vergogna certa, perchè con lui non avea condotto esercito; pur lo ringraziò assai, e gli promise che in ogni cosa si sarebbe servito del consiglio e del valor suo. Il giorno seguente, quando il Re fu sei miglia presso Benevento, arrivò Sforza mandato della Regina ad incontrarlo con molta comitiva, il quale senza scender da cavallo lo salutò non da Re ma da Conte: il Re con mal viso non gli rispose altro, se non come stava la Regina; onde gli altri della sua compagnia, vedendo il Capo loro mal visto, ed intendendo che il Conte era stato gridato Re, andarono con tutti gli altri Baroni e cavalieri a baciargli le mani come Re. Ma venendo poi Sforza, Giulio Cesare che sapeva farne piacere al Re, quando l'incontrò alla scala gli disse, ch'essendo nato in un castello di Romagna, non dovea togliere a quel Signore il titolo di Re, che gli avean dato i Baroni nativi del Regno e rispondendo Sforza, che se era nato in Romagna, volea con l'arme in mano far buono ch'era così onorato come ogni Signore del Regno: e posto l'uno e l'altro mano alla spada con grandissimo tumulto, mentre gli altri Cavalieri che erano presenti si posero a spartire, uscì dalla camera del Re il Conte di Troia, che come gran Siniscalco avea potestà di punire gl'insulti che si fanno nella casa reale, e fece ponere in una camera Sforza, ed in un'altra Giulio Cesare tutti due sotto chiave ma con diversa sorte: perchè Giulio Cesare uscì la medesima sera, e Sforza senza rispetto fu calato in una fossa.

La Regina, che la notte medesima ebbe avviso di questo, la mattina mandò a chiamare gli Eletti di Napoli, e loro disse, che il dì seguente il marito era per far l'entrata nella città, che pensassero di riceverlo come Re. Fu ricevuto il Conte da' Napoletani, e salutato Re; il qual giunto che fu alla sala del Castello trovò la Regina, la qual dissimulando il dolore interno con quanta maggior dimostrazione di allegrezza potè, l'accolse; e trovandosi con lei l'Arcivescovo di Napoli con le vesti sacre, fu con le solite cerimonie celebrato lo sponsalizio; e l'una e l'altro andarono al talamo, ove erano due sedie reali; ivi come fu giunta la Regina, tenendolo per la mano si voltò verso le donne, e' Cavalieri e l'altra turba, e disse: Voi vedete questo Signore, a cui ho dato il dominio della persona mia, ed or dono del Regno: chi ama me, ed è affezionato di casa mia, voglia chiamarlo, tenerlo e servirlo da Re. A queste parole seguì una voce di tutti che gridarono: Viva il Re Giacomo e la Regina Giovanna Signori nostri. Da poi che fu consumato quel dì in balli e musiche, seguì la cena ed il Re giacque con la Regina.

Il dì seguente, che tornarono le donne ed i Cavalieri, credendo di continuar la festa reale, come si conveniva per molti giorni, conobbero nella faccia della Regina e del Re altri pensieri, che di festeggiare; perchè sopravvenne da Benevento Sforza incatenato, e con grand'esempio della varietà della fortuna, fu messo nel carcere, onde pochi dì avanti era con tanta grandezza uscito.

Il Re nel dì appresso fece pigliare il Conte Pandolfello, e condurre prigione al castel dell'Uovo, dove fu atrocissimamente tormentato, confessando tutto quello, che il Re volle sapere, e condennato a morte, e nel primo dì d'ottobre fu menato al mercato, ove gli fu mozzo il capo, e da poi il corpo fu strascinato vilissimamente per la città, ed al fine appiccato per li piedi con intenso dolore della Regina e con gran piacere di coloro, ch'erano stati servidori del Re Ladislao.

Avendo adunque il Re Giacomo trovato vero quanto avea detto Giulio Cesare di Capua della disonesta vita della Regina, deliberò di togliere a lei la comodità di trovare nuovo adultero, onde cacciò dalla Corte tutti i Cortigiani della Regina, ed in luogo di quelli pose altrettanti de' suoi Franzesi, e cominciò a tenerla tanto ristretta, che non poteva persona del Mondo parlare, senza l'intervento d'un Franzese vecchio, eletto per uomo di compagnia, il qual con tanta importunità esercitava il suo ufficio, che la Regina senza sua licenza non potea ritirarsi per le necessità naturali.

Il Re Giacomo, se dopo questa depression della Regina avesse saputo rendersi benevoli i Baroni, ogni cosa sarebbe sempre seguita per lui con ottimi successi: perchè tutti i Baroni abbominavano tanto la memoria del tempo di Pandolfello, e gli inonesti costumi della Regina atta a sottomettersi ad ogni persona vile, che avevano a piacere di vederla in sì basso stato; e volevano più tosto ubbidire al Re, che stare in pericolo d'esser tiranneggiati da qualch'altro nuovo adultero. Ma il Re, benchè si mostrasse piacevole a loro, dall'altra parte mettendo gli ufficj in mano dei Franzesi, gli alienò molto da se; tal che pareva, che fossero saltati dall'un male in un altro, ma tra tutti era il più mal contento Giulio Cesare di Capua; il qual essendo di natura ambizioso, ed avendo desiderato sempre uno de' sette Ufficj del Regno, essendo per questo stato autore, che il Conte avesse assunto il titolo di Re, non poteva soffrire, ch'essende vacato l'Ufficio del G. Contestabile, quel del G. Camerario e di G. Siniscalco, gli avesse dati a' Franzesi265, non tenendo conto di lui, che credea meritarlo molto più degli altri. Dall'altra parte i Napoletani tanto Nobili, quanto del Popolo, sentivano gran danno e incomodità da questa strettezza della Regina, perchè non solo gran numero di essi, che vivevano alla Corte dì lei, si trovavano cassi e senz'appoggio; ma tutti gli altri aveano perduta la speranza di avere da vivere per questa via; oltre di ciò, era nella città una mestizia universale, essendo mancate quelle feste, che si facevano, ed il piacere che avevano in corteggiar la Regina, tanto i giovani, che con l'armeggiare cercavano di acquistar la grazia di lei, quanto le donne, che solevano partecipare de' piaceri della Corte; e per questo essendo passati più di tre mesi, che la Regina non s'era veduta, si mosse un gran numero di Cavalieri e cittadini onorati, ed andarono in castello con dire, che volevano visitare la Regina loro Signora; e benchè da quel Franzese uomo di compagna fosse detto, che la Regina stava ritirata a sollazzo col Re, e che non voleva che le fossero fatte imbasciate: tutti dissero, che non si partirebbero senza vederla. Il Re che vide questa pertinacia, uscì dalla camera, e con allegro e benigno volto, disse, che la Regina non stava bene, e che se venivano per qualche grazia, egli l'avria fatta così volentieri, come la Regina Allora gridarono tutti ad alta voce: noi non vogliamo da Vostra Maestà altra grazia, se non che trattiate bene la Regina nostra, e come si conviene a nata di tanti Re nostri benefattori, perchè così avremo cagione di tener cara la Maestà Vostra. Queste parole fecero restare il Re alquanto sbigottito, che parvero dette con grand'enfasi, e rispose, che per amor loro era per farlo.

 

Giulio Cesare di Capua informato di questo successo, mosso da sdegno e dallo stimolo d'ambizione, deliberò vindicarsi della ingratitudine del Re, e di tentare (liberando la Regina) occupare il luogo di Pandolfello, e dalla Terra di Morrone, ove dimorava, venne in Napoli; e da poi ch'ebbe visitato il Re con gran simulazione di amorevole servitù, disse che voleva visitar la Regina. I Cortigiani sapendo la confidenza che teneva col Re, l'introdussero nella camera di lei, e gli diedero comodità di parlare quel che gli piaceva. Allora con somma sciocchezza, fidandosi d'una femmina ch'egli avea così atrocemente offesa, gli disse che gli bastava l'animo di torre la vita al Re, e così liberarla dalla servitù e miseria presente. La Regina dubitò che non fosse opra del Re per tentar l'animo suo, poi si risolse per raddolcire il Re, e vendicarsi di Giulio di scoprirgli tutto, e risposegli che n'era contentissima. La Regina confidò il trattato al Re, e perchè lo sentisse colle proprie orecchie, concertò col medesimo che quando Giulio tornava, si fosse posto dietro la cortina. Tornò egli, ed il Re intese il modo che avea pensato per assassinarlo; ma quando uscì del cortile, volendo porre il piede alla staffa, fu pigliato, e con lui il suo Segretario e condotti nel Castel Capoano e convinti, furono di là a due dì nel mercato decapitati. Tutte queste cose fur fatte in cinque mesi dal dì che Re Giacomo era giunto in Napoli.

Il Re avendo con l'esperienza di Giulio Cesare conosciuto che cervelli si trovavano allora nel Regno, cominciò a guardarsi, e ad allargarsi da que' Baroni e Cavalieri che solevano trattare familiarmente seco; e dall'altra parte ogni dì andava allargando la strettezza, in che avea tenuto la Regina, e le mostrava d'esserle obbligato per la fede che avea trovata in lei; ma con tutto ciò non voleva che fosse corteggiata, e perseverava la guardia dell'importuno Franzese, con la quale perseverò ancora la mal contentezza della città, perchè pochissimi aveano adito al Re e niuno alla Regina; ed in questo modo si visse dal principio dell'anno 1415 sin al settembre seguente.

In questo mese avvenne che il Re avendo data licenza alla Regina d'andare a desinare ad un giardino d'un mercatante fiorentino; quando per la città s'intese che la Regina era uscita, vi accorse un gran numero di Nobili insieme e di Popolani che andarono a vederla, e la videro di maniera che a molti mosse misericordia; ed ella ad arte quasi con le lagrime agli occhi, e sospirando benignamente riguardava tutti e pareva che in un compassionevole silenzio dimandasse a tutti ajuto. Erano allora tra gli altri corsi a vederla Ottino Caracciolo, unito con Annecchino Mormile Gentiluomo di Porta Nova che avea grandissima sequela dal Popolo. Questi accordati tra loro di pigliar l'impresa di liberar la Regina, andarono a concitar la Nobiltà e la Plebe, e con grandissima moltitudine di gente armata ritornarono a quel punto che la Regina volea ponersi in Carretta, e fattosi far luogo da' Cortigiani, dissero al Carrettiere che pigliasse la via dell'Arcivescovado. La Regina ad alta voce gridava: Fedeli miei per amor di Dio non m'abbandonate ch'io pongo in poter vostro la vita mia ed il Regno: e tutta la moltitudine gridava ad alta voce: Viva la Regina Giovanna. I Cortigiani sbigottiti fuggirono tutti al Castel Nuovo a dire al Re il tumulto, e che la Regina non tornava al castello. Il Re dubitando di non essere assediato al Castel Nuovo, se ne andò al Castel dell'Uovo. Fu grandissima la moltitudine delle donne che subito andarono a visitar la Regina, ed i più vecchi Nobili di tutti i Seggi si strinsero insieme, e parendogli che non conveniva che la Regina stesse in quel palazzo, la portarono al castello di Capuana, e fecero che 'l Castellano lo consignasse alla Regina. La gioventù tutta amava questa briga, e gridava che si andasse ad assediare il Re; ma i più prudenti di tutti i Seggi giudicavano che questa infermità della città era da curarsi in modo che non si saltasse da un male ad un altro peggiore; perchè prevedevano che la Regina vedendosi libera d'ogni freno, darebbe se, ed il Regno in mano di qualche altro adultero più insopportabile. Perciò cominciarono a pensare del modo da tenersi, per reprimere l'insolenza del Re, e tenere alquanto in fren la Regina; onde fecero Deputati d'ogni Seggio, che andarono a trattare col Re l'accordo. Il Re non sperando da' suoi alcun presto soccorso, fu stretto di pigliarlo in qualunque maniera che gli fosse proposto, e fur conchiuse queste Capitulazioni: Che sotto la fede de' Napoletani venisse egli a starsi con la moglie: che concedesse alla Regina, come a legittima Signora del Regno che si potesse ordinare e stabilire una corte conveniente, e fosse suo il Regno, come era già stato capitolato dal principio che si fece il matrimonio: ch'egli stesse col titolo di Re ed avesse 40 mila ducati l'anno da mantener sua Corte, la quale per lo più fosse di Gentiluomini napoletani. E così fu fatto.

CAPITOLO II

Prigionia del Re Giacomo; sua liberazione per la mediazione di Martino V, eletto Papa dal Concilio di Costanza; sua fuga e ritirata in Francia dove si fece Monaco; ed incoronazione della Regina Giovanna

La Regina Giovanna volendo ordinar sua Corte, pose l'occhio e 'l pensiero sopra Sergianni Caracciolo, e lo fece Gran Siniscalco: era Sergianni di più di quarant'anni, ma era bellissimo e gagliardo di persona e Cavaliere di gran prudenza. Fece Capo del Consiglio di Giustizia Marino Boffa, Dottore e Gentiluomo di Pozzuoli, al quale diede per moglie Giovannella Stendarda erede di molte Terre: diede l'Ufficio di Gran Camerario al Conte di Fondi di casa Gaetana; e si riempiè la Corte di belli e valorosi giovani, tra' quali i primi furono, Urbano Origlia ed Artuso Pappacoda, e fece cavare dal carcere Sforza, e lo restituì nell'Ufficio di Gran Contestabile; ed essendo innamorata di Sergianni, ogni dì pensava come potesse togliersi d'avanti il Re, per goderselo a suo modo. Ma Sergianni prudentemente le disse che usando ella violenza al Re così tosto, tutta Napoli saria commossa ad ajutarlo; poichè l'accordo era fatto sotto fede de' Napoletani, e che bisognava prima con beneficj e grazie acquistarsi la volontà de' primi di tutti i Seggi, perchè si dimenticassero con l'utile proprio di rilevare il Re; e così s'operava che ogni dì la Regina distribuiva gli Ufficj, in modo che ne partecipassero non solo i Seggi, ma i primi del Popolo. Con questo la città stava tutta contenta. Soli Ottino Caracciolo ed Annecchino Mormile stavano pieni di dispetto e di sdegno, e si andavano lamentando della ingratitudine della Regina ch'essendo stata liberata da loro di così dura servitù, non avesse fatto niun conto di loro; del che essendo avvisato Sergianni, proccurò che la Regina donasse ad Ottino il Contado di Nicastro che fu cagione di far venire Annecchino in maggior furore. E perchè Sergianni stava geloso di Sforza di ch'era maggior di lui di dignità e di potenza, e stando in Corte, poteva superarlo ne' Consigli e cacciarlo dalla grazia della Regina, la di cui lascivia gli era ben nota, cercò di allontanarlo dalla Corte con una occasione che Braccio da Montone Capitano di ventura famosissimo che avea occupata Roma, teneva assediato, per quel che s'intese, il castel S. Angelo, il qual si tenea con le bandiere della Regina; onde propose in Consiglio che si mandasse Sforza a soccorrerlo, forse con speranza che Braccio l'avesse da rompere e ruinare, e così ordinò la Regina che si facesse.

Toltosi davanti Sforza, determinò mandarne anche via Urbano Origlia che per la bellezza e valor suo, armeggiando, ogni dì saliva più in grazia della Regina, e sotto spezie d'onore lo relegò in Germania, mandandolo Ambasciadore della Regina al Concilio in Costanza, dove si trattava di toglier lo Scisma che era durato tant'anni, e dove avanti all'Imperador Sigismondo erano ragunati Ambasciadori di tutti gli altri Principi cristiani, a promettere di dare ubbidienza al Pontefice che sarebbe stato eletto in quel Concilio. Restato dunque Sergianni padrone della casa della Regina, cominciò a pensare di restar solo padrone ancora della persona, e fece opera che la Regina una sera cenando col Re, disse che volea che cacciasse dal Regno tutti i Franzesi; e 'l Re rispose che bisognava pagargli quel che l'aveano servito, seguendolo da Francia; e replicando la Regina in modo superbo ed imperioso che voleva a dispetto di lui che fossero cacciati, il Re non potendo soffrir tanta insolenza, s'alzò di tavola e se n'andò alla camera sua, e la Regina gli pose una guardia d'uomini deputati a questo. Il dì seguente fece fare bando che tutti i Franzesi nello spazio d'otto dì uscissero del Regno. Costoro vedendo il Re loro prigione, se ne andarono subito.

A questo modo restò il Regno e la Regina in mano di Sergianni, il quale volendosi servire del tempo, fece che la Regina restituisse lo Stato e l'Ufficio di Gran Giustiziere al Conte di Nola, purchè pigliasse per moglie una sua sorella, ed un'altra ne diede al fratello del Conte di Sarno; cosa che parve grandissima che due donne, le quali erano pochi dì avanti state in tratto di darsi a Gentiluomini di non molta qualità, fossero senza dote collocate sì altamente.

Questa così presta Monarchia di Sergianni concitò grande invidia a lui, e grande infamia alla Regina, spezialmente appresso quelli che erano della parte di Durazzo, e beneficati dal Re Carlo III e dal Re Ladislao, i quali vedevano vituperata la memoria di due gloriosissimi Re, ed il nome del più antico lignaggio che fosse al mondo, con sì nefanda scelleraggine; ed andavano mormorando, e commovendo i Seggi e la plebe dicendo, che non si dovea soffrire che un Re innocente fosse sotto la fede d'una sì nobile ed onorata città tenuto carcerato, in quella medesima casa, dove l'adultero si giaceva colla moglie, e che potrebbe essere che si movesse tutta la Francia a vendicar questa ingiuria fatta al sangue reale, e fra tutti il più veemente era Annecchino Mormile.

Ma Sergianni che fu il più savio e prudente di quelli tempi, fece distribuire tutte quelle pensioni che si davano a' Franzesi, a' Gentiluomini ed a' Cittadini principali delle Piazze; e per tenersi benevola la plebe ch'era la più facile a tumultuare, fece venire con danari della Regina gran quantità di vettovaglie e venderle a basso prezzo, e con questa arte fece vani tutti gli sforzi degli emuli suoi.

 

Solo gli restava il sospetto di Sforza, il quale avendo soccorso il Castel di S. Angelo, se n'era ritornato mal soddisfatto di lui, con dire, che Sergianni a studio non avea mandati a' tempi debiti le paghe a' soldati, per fare, che quelli ammutinati passassero dalla parte di Braccio; e per questo s'era fermato colle genti al Mazzone; e senza venire a visitare la Regina si partì di là, ed andò in Basilicata. Questa cosa diede a Sergianni segno del mal animo di Sforza, e per potersi fortificare, affinchè non tutte le genti d'armi, e forze del Regno stessero in mano di Sforza, fece, che subito venisse a soldo della Regina Francesco Orsino, il qual allora fioriva nella riputazion dell'armi; e fece ancor liberar Giacomo Caldora, e gli fece dar denari, acciocchè andasse in Apruzzo a rifar le compagnie; e fece anche sotto pretesto d'intelligenza collo Sforza carcerare Annecchino, il quale alla venuta di Sforza avrebbe potuto movere il popolo a riceverlo colle genti dentro la città.

Mentre queste cose accadevano nel Regno, nella Germania i Cardinali, ed i deputati nel Concilio dopo lungo dibattimento entrarono in Conclave, ed elessero tutti ad una voce il giorno di S. Martino dell'anno 1417 Odone Colonna Cardinal Diacono del titolo di S. Giorgio, che prese il nome di Martino V a cagion del giorno di sua elezione, il quale fu riconosciuto da tutta la cristianità, dandosi fine allo Scisma, che per tanti anni avea travagliata la chiesa. I Franzesi subito fecero istanza al nuovo Papa, ch'intercedesse colla Regina per la libertà del Re Giacomo; e da Urbano Origlia subito ne fu scritto alla Regina. Ma Sergianni non mancò per riparare a questo, di spedire subito Belforte Spinello di Giovenazzo Vescovo di Cassano suo grande amico, e Lorenzo Teologo Vescovo di Tricarico per ambasciadori al Papa a rallegrarsi in nome della Regina dell'elezione e ad offerirgli tutte le forze del Regno per la ricuperazione dello Stato e della dignità della chiesa, promettendo donargli, giunto che fosse in Roma, il Castel di S. Angelo ed Ostia.

Dall'altra parte Sforza tornò con le sue genti in Napoli, e postosi con le sue squadre ordinate alla porta del Carmelo, per dove essendo entrato fece gridare: viva la Regina Giovanna, e mora il suo falso Consiglio. Francesco Orsino all'incontro co' suoi pigliò l'arme, ed assaltò con tanto impeto il campo sforzesco, che lo strinse a ritirarsi, e per la via delle Grotte se n'andò a Casal di Principe, donde per messi e lettere mandava sollecitando tutti i Baroni suoi amici vecchi a liberarsi dalla tirannide di Sergianni. In effetto ne tirò molti al suo partito, ed a due d'ottobre venne con l'esercito alla Fragola, e di là cominciò a dare il guasto alle ville de' Napoletani; onde per Napoli si fè grandissimo tumulto, e crescendo tuttavia l'incomodità intollerabile di quelle cose, che sogliono dì per dì venir a vendersi nella città, ch'erano intercette dalli cavalli di Sforza; per riparare a' mali peggiori, alcuni vecchi proposero, che si creassero deputati, come furono creati a tempo della Regina Margarita, ch'avessero cura del buono stato della città; ed a questo i nobili ed i plebei ad una voce assentirono, e subito furono eletti venti deputati, dieci dei nobili ed altrettanti del popolo, i quali per pubblico istrumento giurarono perpetua unione tra 'l popolo ed i nobili. Questi deputati elessero tra loro dieci, cinque de' nobili e cinque del popolo, ch'andassero a sapere da Sforza la cagione di questa alienazione dalla Regina e dalla città, ove avea tanti che l'amavano, ed a pregarlo, che sospendesse l'offese, per alcuni dì, che si tratterebbe di soddisfarlo in tutte le cose giuste: furono accolti con grande onore da Sforza, il quale loro rispose con molta umanità, ch'egli era buono servidore della Regina, e che si reputava amorevole cittadino di Napoli, e ch'era venuto là per vendicarsi di Sergianni, maravigliandosi, che tanti signori potenti, tanti valorosi cavalieri, quanti erano a Napoli, potessero soffrire una servitù così brutta: ch'egli veniva per liberargli, ed all'ultimo conchiuse, che porrebbe in mano de' signori deputati le sue querele. Quelli replicarono che a queste cose onorate, ch'egli diceva, avria trovata la città grata e pronta a seguirlo; e fu destinato un dì, in cui s'aveano da trovare tutti i Deputati con lui, per trattare quel che s'avea da fare; ed intanto Sforza assicurò tutti i cittadini, che potessero venire alle loro ville e vietò le scorrerie.

Tornati ben soddisfatti nella città i Deputati, andarono alla Regina a pregarla, che concedendo quelle cose, che giustamente chiedea Sforza, liberasse la città di tanto pericolo, ed a' prieghi aggiunsero alcune proteste. La Regina sbigottita non seppe dir altro: andate a vedere, che vuole Sforza da me, e tornate. Quelli senza dimora andarono al tempo determinato a trovarlo, e pigliarono da lui i Capitoli e patti ch'egli voleva, tra' quali i principali furono questi: Che si cacciasse dal Governo e dalla Corte Sergianni: che si liberasse Annecchino ed alcuni altri prigioni: che se gli dessero le paghe, che doveva avere fin'a quel dì, e ventiquattromila ducati per li danni ch'ebbe per la rotta datagli da Francesco Orsino. La Regina pigliò i Capitoli e disse, che voleva trattare col Consiglio quel ch'era da fare, e risponderebbe fra due dì. Allora Sergianni, vedendo, che non poteva resistere alla città unita con Sforza, elesse prudentemente di cedere al tempo, più tosto che di ponere in pericolo lo Stato della Regina; ed innanzi alla medesima fece sottoscrivere la volontà di quella, condennando se stesso in esilio a Procida, e promettendo tutti gli altri patti, che Sforza voleva: esso fu il primo ad osservare quanto a lui toccava, perchè sapeva che Sforza non potea molto stare a Napoli, e che l'esilio non poteva molto durare; l'altre cose furono subito dalla Regina osservate.

Intanto Papa Martino V, sollecitato più volte dal Re di Francia e dal Duca di Borgogna, che trattasse la libertà del Re Giacomo, avea mandato in Napoli Antonio Colonna suo nipote a pregarne la Regina, più con modi d'inferiore, che di pari o maggiore; perocchè avea designato valersi delle forze della Regina, per ricovrar di mano de' tiranni lo Stato della chiesa. Sergianni oltre l'onore che le fece fare dalla Regina, in particolare gli fè tali accoglienze e promesse, che se l'obbligò in modo, che, come si dirà appresso, cavò di quell'obbligo grandissimo frutto; ma quanto alla liberazione del Re fece, che la Regina promettesse farlo liberare a tempo, che stesse in più sicuro stato, e che'l Papa fosse vicino, e la potesse favorire in tanti spessi tumulti.

Questo esilio così vicino di Sergianni, solo in apparenza, parve che gli avesse diminuita l'autorità, poichè in effetto non si faceva cosa nel Consiglio o nella Corte, che non si comunicasse con lui per continui messi: ed in questo mentre Antonio Colonna andò tanto mitigando l'animo di Sforza, che non stava più con quell'odio intenso per abbassarlo. Il Papa intanto da Mantova era venuto a Fiorenza; onde la Regina elesse Sergianni, che in suo nome andasse a dargli ubbidienza e a rassegnargli quelle Fortezze, che Re Ladislao avea lasciato con presidii nello Stato della Chiesa. Antonio Colonna andò insieme con lui, ed avanti che fossero a Fiorenza, Sergianni gli rassegnò la Fortezza d'Ostia, il Castel di S. Angelo e Cività Vecchia, e poi passò a Fiorenza. Così di quanto Ladislao avea conquistato nello Stato di Roma, ne fece Giovanna dono al Pontefice Martino; ma non per questo lasciò ella d'intitolarsi Regina di Roma, come suo fratello; ond'è, che ne' suoi diplomi e capitoli si legga anche fra i suoi titoli, Romae Regina266.

265Tutin. de' Contestab. pag. 130.
266In prooem. MC. V. et Rit. ult. ann. 1420.