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Novelle e paesi valdostani

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UNA STRANA GUIDA

Abbi una volta per guida uno strano uomo irrequieto e verboso, così dissimile da tutti gli altri del suo stato, che la prima metà della strada andai sempre cercando meco stesso un pretesto plausibile per tornar indietro e la seconda, devo dirlo, rimproverandomi di averlo giudicato male. Il modo con cui mi s'era offerto, il suo contegno, lo sguardo, il vestire, il passo, l'accento e perfino la forza erculea veramente straordinaria, tutto in lui m'era argomento di grave sospetto. Ero all'Albergo del Giomen, al Breil in Val Tournanche, e volevo recarmi in Val d'Ajaz all'albergo del Fiery dove avevo dato la posta a parecchi amici. Per il Colle delle Cime Bianche, che è il passaggio più diretto, ero passato altre volte, e poichè quello richiede otto buone ore di cammino, tanto valeva allungarla di tre o quattro, toccare il piccolo Cervino, una delle più mansuete vette del Monte Rosa, e scendere poi da quello in valle d'Ajaz. – Ma, avendo la valigia piuttosto greve, occorreva trovare un mulo che per le Cime Bianche me la portasse al Fiery ed una guida per me. – Ora di muli non ce n'era pur uno e la sola guida che si trovasse, uno svizzero di Zermatt, non voleva saperne di portar peso. Era dunque in pericolo, non solo la vagheggiata escursione al piccolo Cervino, ma altresì il mio passaggio più diretto per giungere al convegno.

La vigilia del giorno che dovevo partire, stavo all'imbrunire sull'uscio dell'albergo, guardando inquieto verso le praterie che salgono al San Teodulo, caso mai capitassero guide o portatori di ritorno, quando venne il padrone a dirmi di aver trovato il mio uomo.

– L'avete mandato a cercare?

– È qui.

– Quando è arrivato?

– Ora.

– Viene dal basso?

– No signore, dalla montagna.

– Impossibile, l'avrei visto scendere, sono qui in vedetta da un'ora.

– Quello non passa dove passano gli altri.

– Perchè?

Ma l'oste non volle spiegarsi altrimenti; solo chiamò ad alta voce: Jacques.

Era un bell'uomo alto alto, membruto, sui trent'anni; grondava di sudore e le stille gli si incanalavano in certe rughe profonde che davano al viso un'espressione di volontà dura e travagliosa. Gran naso retto, gran bocca, una selva di capelli neri e crespi, barba di due giorni. Volli rientrare per levarlo alla brezza assiderante, ma crollò le spalle e mi disse subito:

– Lei vuole andare al Fiery e salire prima sul piccolo Cervino?

– Al piccolo Cervino ci ho rinunziato, a meno che stassera non capiti un mulattiere che mi passi la valigia per le Cime Bianche.

– La porto io.

– Allora mi ci vorrebbe una guida per il Cervino.

– Vengo io.

– Voi volete portare la mia valigia lassù?

– Quanto pesa?

– Saranno quattro miria.

– Bella roba! Mi dà quindici lire.

Il prezzo era più che discreto; ma l'amico mi pareva un gradasso. Gli offersi di vedere almeno la valigia, ma ne rise. Non mi piaceva.

– Voi fate la guida?

– Sicuro.

– Avete il libretto?

– No. Ho il certificato di congedo assoluto. Ero in artiglieria.

– Come vi chiamate?

– Tutto per quindici lire?

E si mise a ridere con un'aria acerba.

– Basta, il nome glie lo dico gratis. Mi chiamo Giacomo Balma. Le accomoda?

Visto che il suo ghigno non mi andava, mutò faccia subitamente e aggiunse con accento profondo:

– Tre scudi mi fanno comodo, sa; domani sera mi saprà dire se li ho meritati.

E dopo una pausa indagatrice:

– L'oste mi ha detto che lei lo conosce da un pezzo. Gli domandi pure di me. Riverisco.

E scese in cucina.

L'indomani partimmo alle tre della mattina. La mia valigia a soffietto, piena zeppa gli parve un fuscello: la portava legata con corde al dorso, come un zaino. Camminava leggiero e spedito zufolando la marcia del Flick e Flock in tempo da bersagliere. La sua andatura aveva qualche cosa d'insolito: non sapevo dire che fosse, ma la avvertivo dissimile dall'altre; più tardi me ne diedi conto: il suo passo non faceva rumore, sembrava sfiorare la terra. Appena avviato s'era messo a discorrere, ma fosse il sonno o il senso di disagio che mi dava la sua compagnia, non gli risposi. Tentò due o tre argomenti, poi smesse e prese a zufolare affrettando il passo. Per salire al piccolo Cervino, si passa il colle del Saint Theodule, un colle di ghiacciaio, la cui altezza rimane impressa a memoria per i quattro 3 che ne formano la cifra. È alto 3333 metri. Di solito partendo dal Giomen si sale tosto per il dorso erboso del monte e si affronta poi il ghiacciaio in alto, dov'è quasi piano e quindi meno rotto dai crepacci. Il mio uomo prese invece ad aggirare il monte nella sua falda più bassa, finchè non ebbe trovato una specie di canale inciso nella rocca viva, scabrosissimo e nudo come una lavagna; lo imboccò senza interrogarmi, e vi si inerpicava lesto come uno scoiattolo. Certo a quel modo la salita era più divertente e spedita; dove ci s'aiuta di mani e di ginocchia ed ogni passo vuol essere studiato e misurato, la mente distratta non avverte la fatica; senza contare che il lavoro compiuto appare evidente e l'altezza guadagnata vi ripaga dello sforzo. Ma in certi punti il canale era così scosceso da impensierire. Sul principio, Jacques, nei punti più ardui si voltava e mi porgeva la mano, ma fresco di forze avevo respinto l'aiuto, orgoglioso di cimentarmi colla dura montagna. Allora l'amico s'era messo a camminare per suo conto, abbandonandomi al mio destino. Pericolo di vita non c'era mai, ma quel vederlo su in alto mi faceva un dispetto acerbo. Certe volte, tutto intento ai miei passi, lo scordavo e quando levavo la testa seccato di trovarmi solo, il canale mi appariva vuoto fino alla cima. Dov'era andato colui? Il suo aspetto, la scelta di quella via inusata, la sua andatura, e quello scomparire misterioso, tutto ciò mi metteva in sospetto. Ero sicuro che l'oste, non mi avrebbe affidato ad un cattivo soggetto, ma questa sicurezza non bastava a tranquillarmi. Seguitavo a salire e quando levavo di nuovo la testa, eccolo un'altra volta a suo posto, ma lontano lontano e sempre incurante di me. In principio avevo pensato che in certi punti il canale divenisse impraticabile e che convenisse uscirne per ripigliarlo più sopra, ma mano mano che procedevo mi accorgevo che il passaggio c'era sempre, anzi che andava sempre facendosi più agevole. Gli gridai di fermarsi, ma bisogna dire che la mia voce non gli giungesse, perchè fu gridare al vento. Se non era della valigia, credo che me ne sarei tornato senz'altro. Finalmente lo vidi seduto a terra, aspettarmi. Lo raggiunsi di malo umore; il fondo quasi liscio della roccia si era fatto sdrucciolevole per una vena d'acqua, ed egli s'era fermato per darmi mano che non cadessi.

– Perchè vi allontanate? voglio avervi presso di me.

– Mi era parso che le piacesse di star solo non volevo seccarlo.

– Perchè abbandonate la strada così spesso? Che fate in giro?

– Sono della razza dei bracchi, mi piace fiutare intorno il terreno.

– Bene, ora non mi lascierete più.

– Come comanda.

Cercai di intavolare io il discorso, ma questa volta era lui che non ci mordeva. Era spuntato il sole, egli s'era levata la giacca e la portava sul braccio. Dalla cinta di cuoio gli pendeva una accetta da potatore, istrumento insolito alle guide.

– Perchè portate quell'accetta?

– La porto sempre.

– Per farne che?

– Così.

Mi guardò bene fiso e aggiunse:

– Ho anche una pistola, guardi.

Levò di saccoccia una pistola corta a due canne e me la diede avvertendomi che era carica. Fui tentato di serbarla: in montagna da noi nessuno cammina armato, le pistole sono un arnese di lusso destinato alle salve d'allegria in occasione di nozze. Ma pensai che, volendo farne cattivo uso, non me l'avrebbe mostrata e glie la ritornai senza far parola. Dopo un quarto d'ora di cammino, mi disse:

– Scusi, torno subito. Vada pure lei, lo raggiungerò fra due minuti.

E via per la costa. Volli levarmi di dubbio e appena fu avviato uscii dietro di lui dalla gora; lo vidi correre ad una rovina di grossi massi discosta un dieci metri; si chinò, smosse due o tre pietrone, frugando per la terra e tornò indietro. Come avvertì che lo stavo spiando, corrugò la fronte e accese lo sguardo, ma lo spianò e lo spense in un minuto.

– Sono andato a pigliare questo pane e questa crosta di formaggio che avevo riposto ieri. Io giro spesso per le montagne e vi dispongo i depositi di viveri. – Mi guardò di nuovo negli occhi e – Non crede?

No, non credevo; il pane lo avevo veduto levarselo di saccoccia e il suo turbamento al dubbio di esser sorpreso doveva pure avere una ragione. Cominciavo a sentirmi vivamente inquieto. Egli se ne accorse e diventò subito gioviale e verboso; mi conosceva, aveva domandato di me all'oste, sapeva che ero uno scrittore, come a dire un giornalista, che dev'essere un gran bel mestiere da guadagnare sacchi di quattrini. Lui conosceva la vita della città e leggeva sempre i giornali. Anche sapeva che avevo scritto delle opere per il teatro, un'altra miniera d'oro; ma se volevo dargli retta egli sì che me ne avrebbe raccontate delle storie, e fatti conoscere dei birbanti! Ah, loro vengono qui per il gusto di provare che cos'è la fatica? Se lo sapessero che cos'è! E quanto costa un pezzo di pane! E c'è della gente che ce lo vorrebbe rubare; ma (e si toccava in saccoccia la pistola) ma c'è qui il giudice, il giurato, il pretore, il presidente, e tutti gli accidenti della terra, e se vogliono venire vengano che mi troveranno. Aveva una facondia abbondante e collerica, come di un uomo persuaso di qualche persecuzione continua ed accanita; spezzava il discorso e saltava da un soggetto all'altro come spinto da un tumultuoso getto d'idee e pauroso di smarrirle discorrendo. Aveva certo qualche acerrimo nemico che governava misteriosamente tutti gli atti della sua vita; tutti i suoi discorsi mettevano capo a quello e precipitavano in minaccie indeterminate ed oscure, profferite ridendo, coi denti stretti, i denti bianchissimi e saldi, capaci di spezzare uno scudo. E nel fondo degli occhi gli tremava una inquietudine timida ed umile che contrastava colle violente parole e aveva finito per rassicurarmi interamente. Anche di questo si avvide, e quando gli offersi un sigaro mi disse:

 

– Lei ha pensato male di me. Non sono un birbante, venga qui e capirà tutto.

Eravamo ai primi nevati. Il canale s'era allargato e la montagna intorno non aveva un filo d'erba. Era tutta una rovina di massi giganteschi, gran dadi rocciosi lucenti come un metallo, mezzo affondati in un terreno sabbioso, molle per la neve sciolta di fresco e per gli scoli del ghiacciaio. Mi condusse per mano nel labirinto finchè giungemmo ad una specie di grotta formata da due massi che contrastavano puntellandosi a vicenda. Entrò nel cavo carponi e ne uscì con un pacco di poche libbre di peso, involto in stracci laceri; lo sciolse e ne trasse sigari e tabacco. Era un contrabbandiere. Scendendo di Svizzera, disseminava la sua mercanzia in tanti nascondigli diversi, perchè, se mai, non avesse a cadere tutta nelle mani delle guardie. Come ebbe rifatto l'involto, lo ripose nel fondo e tornò a me col viso rischiarato e fidente. Ora che il suo secreto era stato lui a dirmelo, non temeva più di me.

– Questo è il più alto magazzino; le guardie non salgono mai sin qui, sanno che a queste alture non c'è più pastori che possano far da testimonio occorrendo, e che qui comando io.

E questo è il mio aiutante di campo, aggiunse, togliendo, da una fenditura lì presso, una carabina da doganiere.

Il contadino non può persuadersi che il contrabbando sia una azione colpevole, il suo senso morale non arriva alla nozione degli artificiali diritti dello Stato. Sa che il rubare e il far violenza nel prossimo sono atti disonesti, ma non può concepire per disonesto il comprare un oggetto là dove lo si trova a miglior mercato, e lo smerciarlo dove lo pagano caro. La proibizione di un traffico tanto naturale gli pare una prepotenza intollerabile, contro la quale non solamente è lecito, ma meritorio ribellarsi. Di qui un odio violentissimo contro le guardie e il fermo proposito e la fredda capacità di fare a schioppettate se occorre. Le guardie lo sanno e bene spesso quando incontrano il contrabbandiere in luoghi aspri e deserti, se non sono in tale numero da schiacciarlo o se non presumono alla mercanzia frodata un valore eccezionale, fanno le mostre di non avvertirlo e passano guardando dall'altra. Un colpo è presto tirato e a quelle alture un cadavere è agevolmente e durevolmente trafugato. La guardia non torna in quartiere, i sospetti cadono sul vero omicida, partono drappelli e frugano per le gole in traccia del morto, ma prove salde non ne raccoglie nessuno. Sull'Alpe alta c'è sempre qualche voragine aperta a comodo degli avvocati difensori.

La mia guida s'era trovata una volta, inerme, sotto il tiro di due doganieri e n'era scampata per miracolo. Un'altra volta aveva fatto smottare dall'alto, non visto, una frana di sassi addosso a due guardie che salivano la ripa e una di esse, scappando, aveva perduto la carabina.

– Quella carabina che le ho mostrato, – aggiungeva Jacques, con un piglio trionfatore. – Ma che vitaccia! E il guadagno è poco, sa.

E mi raccontava le traversate notturne, d'inverno, solo per le ghiacciaie mortali, carico come un mulo, le tormente che lo assalivano, lo flagellavano a sangue, e lo tenevano immobile, rannicchiato sotto un antro di rupe, pauroso di soccombere al sonno traditore della montagna, il sonno gelido, invincibile avanguardia della morte. Oh egli li conosceva quei valichi, passo a passo, ne aveva contate tutte le roccie e aggirati tutti i seni e misurata la bocca di tutti i crepacci e tastata tutta la crosta nevosa che li scavalca in forma di ponte. Sapeva dove si può agganciare l'occhio della fune per calarsi lungo gli scoscendimenti levigati della rupe, e dove la sporgenza rocciosa basta al passo, e dove il monte, frantumato dai fulmini e roso dalle acque, cede al minimo peso e precipita in lavine micidiali. Nessuna guida poteva stargli a paro. A lui non occorrevano corde per traversare il ghiacciaio, nè bastone ferrato per reggervisi. Misurava i salti e li spiccava coll'occhio e il piede sicuri del camoscio.

– E sa perchè ho voluto accompagnarlo? Se lei non mi ci voleva, ci salivo lo stesso, oggi, a questi piani. Oh non tema, che non faccio contrabbandi in sua compagnia, non lo metto a nessun rischio. Ma un mio parente, che s'industria con me allo stesso traffico, manca di casa da otto giorni. L'avevo lasciato a Zermatt, otto giorni or sono, e doveva tornare l'indomani. Io lo seppi solo ieri sera che non era tornato. Ciò m'inquieta. Di questi giorni nevicò due volte sulle vette, e d'estate chi dice neve dice burrasca. Bisogna bene che cerchi di lui; ma sono povero e ho molta famiglia, non posso perdere le mie giornate. Cerchiamo insieme: vuole, signore?

Non posso dire quanta dolcezza supplichevole c'era in quelle parole: Vuole, signore?

Sicuro che volevo, anche a costo di passarci due giornate volevo; al piccolo Cervino ci sarei salito un'altra volta, perchè sulle vette era inutile cercare.

Sul ghiacciaio, che, valicato appena il Teodulo, sale verso il Breithorn, trovammo delle peste.

– Sono le sue, – disse Jacques; – sono peste di cinque o sei giorni e di un uomo solo; combinano. Speravo che fosse rimasto a Zermatt; se è salito è morto.

Seguitammo le peste per oltre un'ora, ma giunti al piano superiore, ne smarrimmo ogni traccia; era nevicato di fresco e la neve era tutta vergine e piana. Dopo avere aggirato senza frutto tutto quanto il ghiacciaio, verso l'imbrunire ci cascò l'animo e la forza. Giungemmo all'albergo del Fiery verso le undici di sera. La casa era tutta scura e silenziosa, ma l'oste doveva essere di sonno leggiero, perchè, appena la mia guida l'ebbe chiamato per nome, si affacciò ad una finestra e disse:

– Sei tu, Jacques?

– Sì, apri.

L'oste senza muoversi replicò:

– È là dietro la casa vicino al fienile; ora scendo.

Jacques fu di un salto al luogo indicato, ed io lo seguii tastoni. Prima che l'oste giungesse, avevo acceso un cerino e vedemmo coricato su di un trave un sacco chiuso alla bocca, pieno, ma tutto gobbe e rilievi. Jacques capì, io indovinai al gesto ch'egli fece; in quella giunse l'oste.

– L'hanno portato stassera, le guide di Gressoney lo trovarono ieri sul ghiacciaio d'Aventina; oggi salirono coi pastori a pigliarlo. Domani verrà il pretore per l'atto. Era seduto sulla neve, i piedi neri per la cancrena: la tormenta lo ha preso e fermato, il freddo gli ha dato la cancrena ai piedi, dovette sedere e si addormentò.

Jacques aperse il sacco, lo rimboccò fino a scoprire la testa del morto, lo baciò sulla bocca gli fece un segno di croce col pollice, sulla fronte, poi richiuse il sacco e disse all'oste:

– Dacci da cena, questo signore muore di fame.

MISERERE

Memorie di viaggio

Nel fondo di una valle ignota ai touristes, c'è un paesuccio di dieci o dodici case miserissime piantate una a ridosso dell'altra in salita, di modo che le finestre della seconda guardano sulla prima e così via. Il villaggio si allunga nel senso della valle e questa è così stretta che non dà spazio a due case di fronte; un torrentello rabbioso e grigio uscito pur ora dalla morena di un piccolo ghiacciaio, tiene col suo letto quanto spazio piano intercede fra le opposte montagne e rumoreggia incassato in una gola profonda e dirupata. L'unica via del paese e le case corrono sul fianco della montagna a sinistra del torrente; la montagna è erta e delle case, quello che è primo piano sulla facciata verso la via, di dietro è piano terreno.

Nei mesi della state il sole scende talora in quel baratro e vi fa fumare le pozzanghere dei letamai, ma dura poco; i raggi non vi giungono che a perpendicolo, appena inclinati il monte li intercetta. Quei paesani non vedono mai l'ombra delle loro case, non conoscono i bei lembi oscuri di terreno contorniati da terreni luminosi, nè l'affievolirsi graduale dei raggi nelle ore del tramonto. Là il sole dardeggia o tace, vi piomba come un fulmine, arde un momento e scompare. L'inverno dura sei mesi, nei quali la vicenda delle ore non produce che un alternarsi di diverse oscurità; la mezza luce che regna costante impedisce i crepuscoli o almeno non li lascia avvertire, la notte ed il giorno si seguono rapidamente come per l'abbassarsi o il levarsi repentino di una cortina. I villani leggono per così dire il nome di ogni mese sulle alture delle montagne; in novembre il sole non giunge che a quel punto, in dicembre a quell'altro, gennaio lo attira più in basso, febbraio più basso ancora, finchè giugno lo reca in paese e settembre ne lo riporta via. Le nebbie vi sono frequenti e fitte, i muri delle case che se ne imbevvero mostrano qua e là sgretolati delle pietre lucide sudanti per l'umido. Quando l'aria è tranquilla il paese manda un odore eguale di stalla, di latte, di fieno, con qualche nota caprina acuta come un sibilo. Colla nebbia gli odori si condensano e penetrano nel vestimento. La via fu già e forse dura selciata tuttora, protetta com'è da uno spesso strato di melma, di letame e di pagliume che la fa meno sdrucciolevole ed assorda il rumore dei passi sicchè pare che la gente vi cammini in punta di piedi. D'altronde gli abitanti portano certe scarpe di panno colla suola di corda intrecciata che non fanno rumore; dalla via si vedono le donne salire su per le scale di legno e passare lungo i ballatoi senza rendere il menomo suono.

Un forestiere che vi giungesse a sera, lo crederebbe un paese maledetto e disabitato. Siccome le stalle non guardano verso la via, non c'è lume a nessuna finestra; solo pei chiassuoli fra una casa e l'altra si vede talora un piccolo cerchio di luce pallida, incerta, una bianchezza nebbiosa diffusa per l'aria che mette in pensiero di nefandi sortilegi. Quella luce esce traverso i vetri unti, sudanti, rabescati di ragnatele, di una finestrucola bassa e stretta aperta a fior di terra. Di là, col poco raggio giungono suoni che non hanno nome, voci sommesse che sembrano provenire dalle viscere della terra, senza intervalli, simili a preghiere bisbigliate in una cripta intorno ad un sepolcro.

Gli abitanti vestono di nero, le donne portano in capo una cuffia nera e gli uomini un berrettone dello stesso colore. Parlano poco, ridono poco, hanno l'aria sospettosa e dolente propria degli esseri che vivono isolati. Infatti, quel paese non vede forse dieci forestieri l'anno, e di quelli, cinque almeno sono fuggiaschi in cerca di valichi difficili ed ignorati; gente che giunge a notte, si rimpiatta sui fienili e parte prima che aggiorni.

La chiesa è servita da un cappellano che quando non è un santo, è un prete iroso caduto in disgrazia del vescovo e messo lì per punizione. C'è anche un'osteria, ed è la casa più alta del paese, una casa grossa che pare e fu già un convento, bianca, fredda, piena di finestre chiuse e di camere vuote. Invece di serrarsi in due o tre stanze a terreno, la vecchia padrona disseminò i pochi mobili nei più vasti ambienti della casa, cosicchè dalla sala da pranzo, per chiamar gente non basta levare la voce, bisogna percorrere a tastoni un lungo andito, dove le assi fradicie cedono sotto i passi, affacciarsi alla scala e picchiare col bastone sugli scalini di legno che suonano a vuoto.

Nella camera a dormire, sopra un cassettone zoppo da un piede, una campana di vetro racchiude il busto in cera di una vecchia vestita da signora, certo qualche parente morta della padrona. La faccia ha l'orribile perfezione dei ritratti calcati nella maschera tolta sul cadavere; la cera trasudata traverso la tinta di carminio ritorna al viso morto il colore invano falsificato ed una polvere finissima filtrata malgrado il panno che orla la bocca della campana, mette su quelle guancie dei rilievi terrosi e delle ombre che ricordano la spaventevole magrezza dei morti. Quel viso di pergamena è ornato da due lunghi ricci inanellati. Al peso dei passi il tavolato traballando fa zoppicare il cassettone ed i ricci dondolano gravemente, col piccolo fruscio asciutto delle foglie secche.

Io giunsi al villaggio sul fare della notte; per strada, discorrendo col mulattiere, avevo appreso che la padrona della locanda era una vecchia zitellona sospetta di stregoneria tanto che nessuna ragazza per bisognosa che fosse, aveva potuto durare domestica nella sua casa. Non che fosse bisbetica o manesca, al contrario: amava di soccorrere le miserie dei compaesani e tutto il villaggio era indebitato con lei; ma il suo aspetto era così rigido e severo, e così asciutta la sua voce e così brusco l'accento e l'occhio così immobile a fissare lontano le cose che non si vedono! Di più nell'osteria c'era una camera dove non era mai entrata anima viva e dove tutte le sante notti dell'anno il lume durava acceso fino alla mattina. Gli anziani del paese raccontavano che anche quand'era giovane e bella da dipingere, Mademoiselle aveva l'occhio vitreo e l'orecchio sempre teso ad ascoltare le voci.

 

Della sua antica bellezza si dicevano prodigi ma non glie l'aveva certo sciupata l'amore, che anzi, quarant'anni addietro accusata di infanticidio e tradotta dinnanzi il tribunale, questo l'aveva assolta, essendo accorso tutto il paese a giurare che non le si conoscevano amanti e che nessuno mai l'aveva nè veduta nè tampoco sospettata incinta.

L'accusa era fondata sulla testimonianza di un sergente doganiere il quale pretendeva di averla ravvisata una notte nell'atto che sotterrava un involto, aiutata da un omaccione alto e robusto del quale egli non sapeva dare altra notizia. Ma oltre che, come ebbe a dire in francese l'avvocato difensore, oltre che la nuit tous les chats sont gris, il sergente non aveva già denunziato il fatto appena seguito, bensì tre mesi dopo, quando cioè un caso fortuito ebbe rivelato il cadavere del neonato e durante quei tre mesi tutti lo sapevano, il sergente aveva cercato invano di sedurre la fanciulla, cosicchè nella sua deposizione appariva evidente un atto di vendetta. E bisogna dire che ella fosse veramente pulita come uno specchio se malgrado l'odore di fattucchiera che spandeva intorno, i paesani avevano deposto così unanimi in suo favore ed il cappellano istesso, un vecchio andato di poi diritto in paradiso, giurando sui sacri evangeli, l'aveva proclamata la più casta e pia e benefica vergine di questo mondo.

Quando scesi all'osteria e la padrona mi corse incontro a festeggiarmi, poco mancò non tornassi indietro sul momento. Nessuna delle sue fattezze poteva dirsi particolarmente spiacente ma insieme componevano una figura indimenticabile a cagione del ribrezzo che ne derivava. Io domandai più tardi a me stesso se la sua somiglianza col busto di cera avesse contribuito a tale effetto. Lo somigliava infatti, se non che i suoi capelli erano neri e quelli del busto di una tinta dorata pallida come li hanno certe ragazze giovanissime che poi gli oscurano invecchiando. Ma dovetti riconoscere che ciò non era, perchè vidi la padrona assai prima che il busto e questo non accrebbe la sensazione disgustosa ricevuta dalla vista di quella, tanto essa aveva subito raggiunto la maggiore possibile intensità. Era una donna alta, asciutta, la fronte spaziosa nettamente incorniciata da due righe di capelli neri appiastrati e grassi per l'unto e scendente al resto del viso senza interruzione, poichè non recava altro segno delle sopracciglia che un leggiero arrossamento della pelle, evidente indizio di pelo biondo o rossastro ed in lei quindi, sicura denunzia di parrucca. Era pallida di un pallore muto e dissanguato che non si coloriva nemmeno sulle labbra e sul quale le rughe apparivano così violente da parere incise per entro tutto lo spessore della carne. Si reggeva imperiosa sul busto sottile di giovinetta e serbava nell'andatura quel vezzo contadinesco che consiste nell'irrigidire leggermente la gamba appena fatto il passo, locchè dà una scioltezza saltellante a tutta la persona. I suoi modi, l'atteggiarsi, le parole e sopratutto gli sguardi tradivano un proposito sempre presente di parere disinvolta, ed insieme una dolorosa e puerile timidità. Appena fissata chinava gli occhi con una espressione rapidissima di sbigottimento e li risollevava di scatto per piantarveli in viso, tesi e corrucciati dallo sforzo. In casa attendeva a tutte le faccende, non avendo domestica. Mentre cenava era un continuo salire e scendere dalla cucina alla camera da pranzo; le sue scarpe di panno non facevano scricchiolare pure un gradino della scala nè una tavola del corridoio, di modo che appariva improvvisa come un fantasma. In fin di cena avendo io avanzato mezzo il vino della bottiglia, essa, venuta a sedermisi accanto, ne versò due dita in un bicchiere e volle toccare con me augurandomi (Dio che orribile sorriso!) l'amore fedele della mia donna.

Come fui in letto ed ebbi spento il lume, dopo lo sbattere di qualche uscio e lo stridere di qualche chiavistello, tacque nella casa ogni rumore di esseri viventi; solo saliva dal basso un mormorìo sordo e continuo, che sulle prime attribuii al torrente vicino. Ma a mano a mano che tendevo l'orecchio per accertarmi della sua essenza mi persuadevo che non era rumore d'acqua. L'acqua dei torrenti montani non manda il suono eguale che sogliono i larghi fiumi delle pianure; a volte leva la voce, a volte l'affievolisce, di quando in quando sembra mutare di letto e precipitando per nuovi dirupi schiaffeggiare delle roccie non mai prima bagnate, poi torna al corso di poc'anzi se non che ad un tratto diresti che apra dei gorghi improvvisi e vi si sprofondi borbottando. Talora la sua voce è così fioca che pare silenzio; allora occorre un atto determinato della volontà per udirla e quando l'odi credi discernere nel grave suono i suoni minuti di ogni onda e di ogni goccia e l'illusione è così perfetta che ti domandi se non piove. Il mormorio che sentivo era invece senza fine eguale, non si allargava in ondate per l'aria, non mi giungeva pei vetri della finestra; saliva insidioso su per le muraglie della casa e usciva certo da un luogo chiuso e profondo. Che fastidio mi dava! Accesa dagli insoliti spettacoli di quella sera: la valle stretta e desolata, il paese deserto, le case mute, le finestrucole rischiarate da una luce bianca di fuoco fatuo, l'osteria fredda e vasta come un convento e il racconto dell'infanticidio e quella donna e quel viso di cera morto che mi aveva fatto spegnere il lume perchè non ne reggevo la vista; la mia fantasia creava immagini di una realtà spaventosa. Tutte le paure infantili, tutti gli orribili racconti di cui mi ero compiaciuto in passato, tutti gli errori vinti, tutti i terrori fantastici che torturano la mente in seguito a qualche lutto domestico, tutte le viltà dell'anima, tutte le infermità dell'intelletto, insorgevano confusamente, rabbiosamente contro i consigli della ragione e la debellavano. Non c'era verso che potessi durare per la via delle spiegazioni semplici ed ovvie, che anzi ragionavo il mio errore con una pacatezza sofistica della quale, pure avvertendola, non mi sapevo liberare. Messo in sospetto di fatti anormali, mi ripugnava, come cosa contraria alla mia dignità, riconoscere da cause ordinarie lo smarrimento in cui ero caduto; non mi domandavo già: Donde viene tale mormorio? ma bensì: Perchè tremo tutto e sudo freddo? e cercando di proporzionare i fatti alle sensazioni anzichè queste a quelli, aggravavo sempre di più lo stato morboso da cui intendevo levarmi.

Nella febbre che mi agitava, credetti persino che il mormorìo provenisse dalla campana di vetro posata sul canterano, che fosse un filo di voce uscito dalle labbra cadaveriche di quel mostro che vi stava rinchiuso, che le pareti di vetro mi impedissero di discernere le parole e che queste turbinando nel poco spazio serrato perdessero accento e cadenza per convertirsi nel suono lugubre e confuso che mi atterriva.

Accesi il lume.

La stanza aveva due usci; uno metteva nel corritoio e l'altro in un camerone attiguo, vuoto. Mi levai, posai la candela nel vano di questo secondo uscio, mi precipitai al canterano, presi la campana col suo piede fra le braccia: i ricci biondi agitati ballarono sinistramente sul viso terroso, spolverandone i rilievi; la cuffia cannellata tremò tutta ed io portai correndo il mio grottesco fardello fino all'angolo più discosto della camera vuota. Con quante cautele lo deposi a terra! Se la campana, l'unico e fragile ostacolo che mi difendeva da quel cadavere mutilato, si fosse infranta, sarei morto di paura. Poi tornai rinculoni alla mia stanza, chiusi l'uscio a chiave e mi sentii sollevato.