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Impressioni d'America

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La compagnia della Sarah Bernhardt vi dava una recita sola. Giunta sul mezzodì da Cincinnati, doveva ripartire per Détroit in treno speciale, non appena terminato lo spettacolo. Ho fatto anch'io durante quindici giorni quella vita di zingaro principesco. Accompagnavo la compagnia per assistere alle prove di un mio dramma. Si viaggiava dalla mezzanotte fino a giorno inoltrato, a volte fino al mezzodì. La Bernhardt colla famiglia, aveva un vagone regale con due o tre cabine, un salone, una cucina ed un delizioso terrazzino a invetriate. M.r Abbey l'impresario occupava un altro vagone poco dissimile, del quale cedeva a me un minuscolo quartierino composto di una cameretta col suo bravo letto, di uno studiolo e di un gabinetto di toelette. Al resto della compagnia erano dati due vagoni Pullman. Quando si dimorava due giorni nella stessa città il convoglio fermo in stazione su qualche binario appartato era il nostro albergo. Al primo giungere si correva in teatro per le prove: lo spettacolo cominciava alle otto di sera e terminava verso le undici.

Quella sera dunque, gli attori stavano vestendosi per la Tosca, quando l'impresario venne ad avvertire si sollecitasse la recita dovendosi partire alle undici precise. Bisognava quindi che lo spettacolo terminasse poco dopo le dieci. Cominciare subito non si poteva perchè ancora mancava il pubblico, gli intermezzi bastavano a stento ai mutamenti di scena e di arredi; unico rimedio sfrondare il dramma senza pietà, cucire insieme a dispetto del senso artistico e letterale tutte le scene dove interviene la protagonista, menar di forbici in tutte le altre e parecchie sopprimerle addirittura. A queste amputazioni i comici, i suggeritori ed i régisseurs hanno una grande destrezza e sono parati ad ogni momento. Ci si piega di mala voglia la Sarah Bernhardt, dotata com'è di una rigorosa coscienza artistica e rispettosissima del testo letterario. Ma questa volta l'urgenza imperiosa ne vinse gli scrupoli ed anzi il disgusto dello sconcio inevitabile, la indusse in una rabbia demolitrice che non conobbe più freno nè legge. Poichè profanazione doveva essere, avesse almeno una artistica enormezza. Così una virago poichè vide la sua casa demolita da una banda di facinorosi, impotente alla difesa, nel furore disperato mette di sue mani il fuoco alle travi perchè meno duri l'orrore della distruzione.

Non posso ridire lo scempio che si fece di quella povera Tosca. Gli atti erano presi d'assalto come una fortezza smantellata e da ogni parte rovinavano come massi smossi o come tese di muraglie rovesciate, brani di dialogo e scene intere. I personaggi scorazzavano pazzi attraverso un dramma insensato. A mezzo d'una scena, per saltare di un colpo nella successiva se il personaggio che vi doveva agire non era presente, uno degli attori che stavano recitando, si faceva sulle quinte e lo chiamava per nome ad alta voce. E quello accorreva ed usciva a casaccio in un dialogo improvvisato a soggetto, finchè non gli riuscisse di afferrare un capo del filo drammatico mille volte spezzato e mille volte riannodato a nodi grossi e lenti. Io stavo in poltrona godendomi il delirio frenetico dei comici e più la bevuta larga degli spettatori. Quando fummo alla scena famosa della tortura, dove la Tosca smania ed urla alle grida ed ai gemiti del suo Mario, la Bernhardt dimenandosi e contorcendosi come un'ossesso, in luogo di profferire le parole angosciose del testo, prese a nominare strepitando i personaggi del mio dramma, finito di provare poco innanzi che cominciasse la recita. Dovetti fuggire per non smascellarmi dalle risa, mentre il pubblico rapito e commosso non si ristava dagli applausi e dalle acclamazioni. E tutti quanti, tenevano in mano e leggevano negli intermezzi il loro bravo sunto sceneggiato nel quale non era cosa che discordasse dall'azione che andava scatenandosi sul palcoscenico, e concordavano invece nella assoluta e fondamentale assurdità dell'uno e dell'altra.

S'intende bene che un tale massacro artistico non potrebbe impunemente seguire nelle grandi città colte e civili dove i teatri accolgono insieme col grosso dell'indigena, anche il fiore della popolazione forestiera ed i pochissimi americani poliglotti. New-York, Boston, Filadelfia e più ancora Washington, mandano alla prima rappresentazione di un dramma francese, un pubblico intenditore ed esigente. Ma alle seconde e alle successive occorre il sussidio della traccia riassuntiva che fa incomprensibile a tutti quello che era solamente incompreso dai più.

Un vago sospetto di queste cose ce l'avevo innanzi di recarmi in America. A bordo poi della Bretagne m'era venuto per le mani uno di quei sunti, quello appunto della Tosca e n'ero rimasto atterrito. Non appena l'impresario m'ebbe annunziato le interviste di tanti redattori teatrali, pensai tosto di giovarmene, interrogandoli a mia volta, ed ammonendoli del barbaro scempio che si fa in America delle opere drammatiche importate d'Europa. In massima, non ho nessun gusto per le interviste. Esse non servono per lo più che a far dire o ad attribuire cose scempie ad uomini che saprebbero a scriverne ed operarne delle sensate. Ammetto e comprendo le interviste politiche provocate ad arte dall'intervistato ed intese a propalare quella dose di verità o di falsità che giova al momento ed a promuovere le smentite autorevoli sul punto più vero. Ma se l'equivoco può giovare qualche volta alla politica, all'arte nuoce sempre e quello che un artista pensa dell'arte, deve apparire dalle sue opere e non risultare dal processo verbale di un interrogatorio. Di solito poi le interviste letterarie ed artistiche, hanno una applicazione ad hominem del tutto sconveniente. Un signore che non conoscete, viene di punto in bianco a domandarvi per mandarlo alle stampe, che ne pensiate del tale autore e della tale opera; cose che è tanto facile argomentare a priori: si pensa male dell'uno e peggio dell'altro, onde l'intervista non fa che distillare veleno zuccherato. Nulla è più indiscreto del costringere un galantuomo ad essere o finto o scortese e quello che da sè non direbbe, farglielo gridare dai tetti a comodo professionale di un giornalista. Senza contare che quando non diffama una terza persona, l'intervista riesce troppo spesso diffamatoria all'intervistato, se pure non cumula le sue diffamazioni. In questa sorta d'inchieste a me non avvenne mai di trovar poi stampato quello che veramente avevo detto. Non è molto, un valoroso critico francese, poichè m'ebbe oltre un'ora tempestato di domande categoriche, mi fece annoverare fra i romanzieri italiani viventi Cesare Cantù, ch'io non avevo neppur nominato e che era morto due anni addietro.

Non ostante questa avversione fondamentale, l'idea di trattenermi in discorso di teatro, coi meglio redattori teatrali di New-York mi dava piacere e ne speravo un gran bene. C'era bensì la difficoltà della lingua, ma era appena arrivato e mi duravano molte illusioni sul francese degli americani, e devo pur confessarlo sul mio proprio inglese. Ad ogni modo pregai un colto e gentilissimo giornalista italiano, il signor Salvatore Cortesi, da due anni residente in New-York, perchè mi assistesse al cimento. Alle otto di sera cominciò la sfilata. Avrei voluto e speravo di poter raccogliere ad un tempo due o tre di quei signori, che sarebbe stato un mezzo assai più comodo, più sbrigativo e profittevole di allargare la conversazione e di volgerla a' miei fini. Ma non ci fu verso. Venivano, uno alla volta, aspettando il secondo che il primo se ne fosse andato, ed il terzo, che se n'andasse il secondo. Entravano, salutavano, sedevano:

– Do you speak French sir?

– Oh, noo!

Allora porgevo loro un bicchierino di Whisky e il buon Cortesi spiegava come non ostante la mia profonda conoscenza, diremo, letteraria, della lingua inglese, non avessi l'abitudine di parlarla, e si profferiva interprete. Quelli gradivano e cominciavano l'inchiesta.

– Mister Giacosa è italiano? Quanti anni? Ha scritto un dramma in lingua francese? Dove dimora in Italia? Quando ne partì? Ha fatto buon viaggio? Ha sofferto durante la burrasca? Bella New-York? Ha veduto il ponte di Brooklyn? Gli piace? Che cosa pensa di Sarah Bernhardt? Conosce Mascagni? Che ne pensa? Conosce Tamagno? Che ne pensa? Favorisca dirci il titolo del suo dramma. Storico? Epoca? Racconti il soggetto.

E non c'era modo di sviarli un palmo dal loro interrogatorio, formulato in domande asciutte, con una compitezza di modi grave ed astinente, con un linguaggio professionale e quasi abbreviativo. Mentre io rispondeva ad una domanda, essi registravano la traduzione che il Cortesi aveva fatto della precedente. Terminata l'inchiesta, gradivano il secondo bicchierino, salutavano me ed il Cortesi con forti strette di mano e se ne andavano com'erano venuti con ineffabile impassibilità. Cinque volte mi toccò rispondere a domande su per giù equivalenti, cinque volte dovetti io esporre per sommi capi il mio dramma, ed il buon Cortesi voltarne in inglese la narrazione. Di che si giovarono le mie cognizioni linguistiche assai più che dalla lettura del manuale di conversazione e di una settimana passata a tradurre: l'ombrello del mio vicino, ed il temperino del mio maestro. Perchè a udirlo raccontare sempre compagno, così com'io l'esponevo con disperata uniformità, mi si fissavano in mente molti termini dapprima ignorati, e quasi proposizioni intere. E devo pure aggiungere ad onore dell'intelletto umano il quale sa fare diverse le cose somiglianti, che dai cinque identici racconti uscirono l'indomani altrettanti relazioni affatto dissimili l'una dall'altra e dissimili tutte dall'originale.

Alle nove e mezzo, il quinto redattore se n'era andato, io cascavo dal sonno e morivo dalla voglia, dopo tante notti vegliate a bordo sui sofà della sala da pranzo, di riposare finalmente in un buon letto in terra ferma. Si rimase un quarto d'ora in attesa se mai capitassero altri, poi il mio ottimo interprete prese licenza e mi lasciò solo. Già stavo spogliandomi quando picchiarono all'uscio e mi portarono un biglietto di visita. Era il sesto. E mi mandava col biglietto di visita, una letterina dell'impresario che gli fissava l'intervista per le dieci di sera. Impossibile rimandarlo, tanto più che l'indomani io dovevo partire per Chicago dove si trovava allora la compagnia. E poi mi confortava il pensiero che partito il Cortesi il nostro colloquio sarebbe stato di necessità assai breve e tale da potersi sostenere colla mente insonnita. Avanti dunque.

 

Era un giovane sui trent'anni molto elegante, ed all'aspetto più aperto e più comunicativo dei suoi compagni.

– Do you speak French sir?

– Oh noo!

– Do you speak Italian?

– Ohh nooo!

– But I do not speak English-at-all.

– Oh you speak very-well!

E si mise a sedere accanto al fuoco, coll'aria di una vecchia conoscenza, soddisfatta dell'incontro. Gli offersi il Whisky più coll'atto che colle parole, e m'industriai di persuadergli che proprio non mi era possibile sostenere una conversazione in inglese, e posso ben dire che ogni mia proposizione, era una prova luminosa della mia sincerità. Ma egli studiandosi di pronunziare chiaro e spiccando con benevola lentezza ogni parola, seguitava a dirmi tutto sorridente che avrebbe voluto conoscere la mia lingua come io conoscevo la sua, che tutto stava cominciare, che se a me non dava noia, egli avrebbe avuto piacere di trattenersi con me più di quanto sarebbe occorso a due spediti parlatori. Mi offrì un eccellente sigaro d'Avana, ne accese uno di suo, e prese ad interrogarmi.

M'ero svegliato del tutto e in fondo sentivo che la scena era gustosa per sè stessa, ed il mio interlocutore piacevole ed interessante. Finchè si rimase sulle prime inchieste: il viaggio, l'arrivo, l'impressione che mi aveva fatto New-York; fino a che infine egli potè metterci molto del suo, le cose andavano a maraviglia. Io accennavo in modo approssimativo, egli afferrava, integrava e suggeriva, ridevamo insieme dei miei spropositi ch'egli correggeva con molto garbo, ne scattavano osservazioni piene di sapore; mi dilettava lo studio ch'egli faceva ad esprimerle in forma elementare e rimanendosi in una poverissima copia di vocaboli, e glie ne ero grato; insomma, mi persuadevo sempre più che la parola non è il solo nè il migliore mezzo di comunicazione fra gli uomini e che intanto nel caso nostro se avessimo tutti e due parlato speditamente, non sarebbe uscita dai nostri discorsi quella corrente di simpatia che usciva dallo sforzo scambievole e dal comune desiderio di vincere la stessa prova.

Ma quando venne la volta del dramma, mi sentii proprio cascar l'animo. Mai e poi mai avrei saputo raccontarne disteso l'intreccio. Il suo non era giornale del mattino, usciva, mi disse egli stesso, sul mezzodì: gli suggerii di leggerne l'esposizione sui giornali mattinali che l'avevano intesa dal Cortesi. Mi rispose ridendo che ciò non gli conveniva, e che d'altronde tutti ne avrebbero fatto una relazione monca e confusa.

– Preferisco capir male quello che mi dite voi, che bene il male che avranno capito quegli altri. —

Allora mi venne un'ispirazione. L'albergo dove ero alloggiato, si chiamava l'Hôtel Martin: il proprietario era un francese. Suonai il campanello e domandai al cameriere se fosse in casa il padrone. Mi rispose che il padrone era uscito, ma che c'era il maître d'hôtel, il direttore della tavola.

– È francese il maître d'hôtel?

– Sissignore.

– Pregatelo di salire.

Il mio giornalista capiva e se la godeva sorridendo incredulo. Venne il maître d'hôtel, in abito nero e cravatta bianca, grave, grasso, pelato e nobile. Lo pregai di sedere, di stare a sentire attentamente quello che gli avrei raccontato e di raccontarlo a sua volta in inglese; proposizione per proposizione a quel signore lì presente. Mi fece un cenno di condiscendenza e cominciai il racconto. Ne fu subito sbalordito, tradusse alla meglio la descrizione della scena, guardandomi però con aria sospettosa, fiutando qualche mal tiro. Rassicurato, raccolse tutte le sue forze per seguire il filo della narrazione; ma quanto più egli si faceva attento ed intento, tanto più sentivo salire in me una ilarità irrefrenabile e la vedevo luccicare di gioia infernale nella pupilla dell'arguto americano. E già mi crucciavo della risata imminente, quando il malcapitato interprete si levò e con una faccia attonita, sincera e quasi umile, come di uomo che vede cosa al disopra di ogni sua concezione, mi disse queste testuali parole:

– Monsieur, jamais je ne pourrai raconter ça à monsieur, je suis a New-York depuis trois mois, mon anglais se borne aux beefteaks, aux pommes de terre, aux omelettes et aux vins de Champagne. Ainsi vous permettez… – E se ne andò senz'altro.

Per farla breve, dopo aver riso tutti e due dell'avventura, con una fraternità degna di più chiare comunicazioni verbali, il dramma lo raccontai io. E lo raccontai in inglese, richiamandomi alla mente parole e frasi del buon Cortesi, ricorrendo al gesto, ai passi, ai moti, alle figurazioni sceniche. Eravamo tutti e due eccitati e vogliosissimi, io di esprimere, egli di comprendere e nell'intenso raccoglimento mentale avveniva a lui di preavvertire certi svolgimenti dell'azione, di cogliere, prima ch'io li enunciassi, certi movimenti dell'animo dei personaggi; e la certezza di essere compreso, raddoppiava in me l'efficacia espressiva, mi faceva audace ad arrischiare termini posseduti in modo dubbioso e che il più delle volte si trovavano azzeccare proprio nel segno.

Com'ebbi finito, era passata da un pezzo la mezzanotte; egli si levò, elogiò con effusione il mio dramma ed il mio racconto, prese il cappello ed una scatoletta che aveva deposto entrando sopra una seggiola presso l'uscio, e mi disse ancora qualche parola, che o soverchia fiducia nel mio inglese, o dimenticanza, profferì tanto serrata ch'io non l'intesi. Credetti mi ringraziasse e m'inchinai complimentoso. Quale non fu il mio stupore quando lo vidi girare le chiavette delle due lampade a gaz che brillavano sulla caminiera! In un attimo nella tenebra lampeggiò un fascio di luce bianca e vivissima, udii lo scatto di una molla e compresi che egli aveva sparato la sua macchinetta fotografica. Riaccese il gaz, mi ringraziò e se ne andò contento lasciandomi contento di lui, e quasi soddisfatto di me.

CAPITOLO VI.
Da New-York al Niagara.
(Appunti di viaggio)

In treno. – Scrivo questi appunti mentre il treno vola da New-York a Buffalo. Il verbo volare dice la velocità e la deliziosa sensazione di moto ondulato che danno le molle di queste impareggiabili vetture. Non tremori nè sossulti, ma uno scivolare dolce con alterni, larghi e tenui sollevamenti come di onda. Seggo ad un tavolino fornito di ogni bisognevole per scrivere, di fianco ad un'ampia finestra dai vetri puri e tersi, onde lo sguardo spazia largo sulla fuggente campagna e ne raccoglie nitidi gli aspetti. Non tutti i viaggiatori godono, s'intende, di queste singolari comodità, ma tutti se le possono procacciare mediante il prezzo supplementare di un dollaro al giorno. Il treno ha una sola classe di posti, ma non già all'uso europeo che ammette ai treni direttissimi le sole vetture di prima classe, bensì all'americano che non consente differenze di classe mai. Solo si fanno, ad uso degli emigranti, che vanno per lavori manuali in gran numero ad una unica destinazione, certi treni speciali a prezzi ridotti e di modesta ma non incomoda fornitura.

La linea che sto percorrendo è la New-York Central, la quale rimonta sulla riva sinistra il corso dell'Hudson, e per Albany capitale dello stato di New-York, e per Buffalo e costeggiando il lago di Erié fino a Toledo mette capo a Chicago. Il treno è tutto composto di lunghissime vetture uscite dai cantieri del Pullmann, di quel Pullmann, che padrone di una intera città operaia chiamata col suo nome, ascrisse a grande ventura l'esser nominato cavaliere della Corona d'Italia, tanto sono ghiotti di onorificenze straniere questi iconoclasti americani che non ne vollero istituire in casa loro. Sono in viaggio da tre ore, e già ho potuto notare ed accertare questo fatto caratteristico: che le stazioni, i ponti, i viadotti, le trincee, tutte le opere stradali nelle quali noi profondiamo tesori per dar loro in realtà od in apparenza una secolare stabilità e per abbellirle con disarmonici finimenti, sono qui costruite con asciutto accorgimento del loro uso e della loro durata. Ciò prova che gli americani hanno del viaggiare un concetto più progressivo del nostro. Le nostre opere definitive sembrano attribuire alla industria dei trasporti uno sviluppo maturo, le loro provvisorie le mostrano non uscita ancora dal periodo iniziale. Quando si rifletta che è viva e non decrepita molta gente che potè vedere l'esperimento della prima locomotiva, e moltissima che ricorda l'incredula ilarità onde ne fu accolta la notizia, si è indotti a credere che gli americani siano più giudiziosi di noi. Le rozze e disadorne opere stabili, ed il sontuoso apparecchio delle vetture, mostrano come essi intendano alla comodità ed al lusso, dove questi possono indurre un sensibile accrescimento di benessere, e non curino di attenuare i disagi, là dove la loro attenuazione non scemerebbe in modo sensibile la somma delle impressioni sgradevoli.

È chiaro che la noia delle minute brighe che ricorrono nello attraversare le stazioni non è punto attenuata dallo attendervi in locali tutti marmi, affreschi e dorature, anzichè sotto una tettoia ischeletrita e nuda come la baracca di un accampamento. Ed è chiaro del pari che il viaggiare in vetture spaziose, alte, bene aerate l'estate, bene riscaldate ma non soffocanti l'inverno, il potervi sgranchire le gambe camminando su e giù, per via di passaggi coperti, quanto è lungo il treno, lo stare coi fumatori quando fumate, ed il passare in più spirabil aere quando avete smesso, il mutare di posto e di vicini, l'avere sempre in ogni vettura, ad ogni momento, a portata di mano, un bicchiere d'acqua pura e ghiacciata, il potere scrivere lettere e telegrammi su carta e con penne ed inchiostro forniti dalla azienda ferroviaria ed impostarli affrancati mentre il treno corre, sicuri che alla prima fermata, fosse d'un minuto, essi saranno debitamenti raccolti ed avviati al loro destino, il trovare all'ore prefisse e senza dovercisi strozzare per la fretta, nè scendere di carrozza, e non cari, i pasti quotidiani, e la notte, senza squattrinarsi dei letti dove dormir fra le coltri, e la mattina un buon lavabo rinfrescatore, ed allo scendere, un moro che vi spolvera e spazzola i vestiti, sono altrettanti positivi e ponderabili accrescimenti di benessere.

Questo Parlor-car dove sto scrivendo ha due scomparti. Uno, il maggiore, dato al conversare, l'altro allo scrivere ed alla lettura. Qui scrivanie fisse e sedie giranti come alle tavole dei piroscafi, là poltrone mobili che i viaggiatori dispongono a piacimento, o appartandosi a goder le vedute, o in circoli serrati per conversare, e tavolini leggieri per servizio di caffè e di liquori. Libri, giornali, riviste illustrate sparsi intorno a profusione. Gran lastre di cristallo formano i fianchi del vagone, onde par di viaggiare all'aperto.

Bello e maestoso l'Hudson, largo quanto il lago di Como, corrente fra piccole montagne frastagliate da mille seni, piombanti qua e là a picco nell'acque, coronate di foreste impenetrabili, spianate sui fianchi da morbidissimi prati. È il mese d'ottobre. Le foreste hanno un rosso colore di fiamma viva, assai più ricco e fastoso del nostro giallore autunnale, e così robusto che sembra esprimere la pienezza vegetativa della giovane estate. Si direbbero oleandri o rododendri in fiore. Sotto il cielo verdognolo del crepuscolo, sui prati smeraldini, sull'acque grigie e rotte, quella gagliarda fronda purpurea, rende come bagliori di incendio. Ai nostri occhi è un paesaggio inverosimile ed eccitante. Nel fiume ondoso come laguna in tempesta, vanno e vengono di continuo vapori, velieri, zattere macchinose per enormi cataste di alberi e guizzano temerarie barchette. Fischi, rombi, squilli, grida, voci, echeggiano di continuo nell'aria. Sulla riva opposta del fiume, passano ogni dieci minuti convogli interminabili, dal pennacchio fumoso che sale pei colli e si lacera e svanisce nelle rosse fronde. S'avventano nei tunnel, ne sbucano, s'imbattono fuggenti per opposti versi, salutandosi con rauchi ruggiti rabbiosi. Sui promontori, o sulle spianate del monte qualche villa a guglie dorate, o gruppi di alberghi imbandierati. Nessun casolare e pochi villaggi, e quei pochi, distesi allineati in desolata uniformità, le case a dado, tutte d'una forma, di una misura e d'un colore, altrettante vite individue, senza comunione di vita. In una stradicciuola fra i prati, vedo camminare un uomo alto, ed un ragazzino di otto anni forse, tenendosi per mano: s'avviano verso una fila di case schierate a mezza costa ed hanno l'aria di dimorarvi tanto ci vanno con passo posato ed abitudinario. A chi attraversa come io faccio, in gran furia, un paese lontano ed ignoto, tali sprazzi di vita intima e tranquilla, fanno un senso di malinconica meraviglia. Qui poi al paese intorno manca ogni aspetto domestico. La campagna solitaria non mostra visibili traccie dell'opera agreste; non domata, non ingentilita dalle colture, non scompartita in poderi, non rigata dai solchi, essa esprime la solennità augusta delle forze primitive.

 

L'americano è in viaggio accostevole, facile e piacevolissimo compagno. Non importuno ad attaccar discorso, è premuroso a fornire notizie intorno ai luoghi, alle industrie, alle genti, alle usanze ed ai costumi. Non ostante il formidabile orgoglio ond'egli si tiene di gran lunga superiore agli europei d'ogni nazione, egli non sa nascondere un senso di riconoscente compiacenza nell'imbattersi in europei curiosi di visitare il suo paese. Ne ascolta con deferenza le critiche discrete, si beve beato l'elogio che cerca per modestia di attenuare quasi a ricambio di cortesia. Brusco e duro, dicono, agli affari, gli ozi forzati del viaggio lo tornano gaio e senza pensieri.

Nel dining car il caso mi colloca quarto ad una tavola, con tre signori di magnifico aspetto. Oggi stesso il New-York Herald ha pubblicato un mio ritratto, e mi ha annunziato viaggiante alla volta di Chicago. Io desino in silenzio: essi discorrono allegri in inglese, con quell'accento arrotondato degli americani, che ne rende bensì più chiaro l'intendimento, ma non quanto basti alla mia scarsa conoscenza della lingua ed all'assoluto difetto di parlata. Tuttavia ad un punto, più agli occhi che alle parole, mi pare di accorgermi che essi accennino alla mia persona. Alle frutta, uno di essi ordina una bottiglia di Champagne, ed il moro, al suo cenno, ne mesce a me pure.

– Bella Italia, – mi dice quel signore, levando il bicchiere. Il saluto, il nome della patria, l'inattesa cortesia, mi danno una scossa al sangue. Mi ravvisarono alla imagine pubblicata dal giornale. Quegli che ordinò lo Champagne è di origine italiana, e non remota. Si chiama Rapallo (bisogna sentire com'egli pronunzia quel nome) ed è giudice a New-York. Suo nonno venne giovane in America da quella città ligure onde portava il nome e non rimpatriò mai più, e già il figlio ignorava affatto la dolce lingua paterna, figurarsi il nipote. Tuttavia, il ricordo dell'antica terra Enotria ch'egli non conosce, lo mosse a salutarmi col biondo vino. Chissà da quale infantile fondo di memorie, egli trasse le parole: Bella Italia! – Quale suono ebbero per me quelle parole! – Certo nella nostalgia che mi opprimeva, un vero ed attuale italiano e parlante con purezza la lingua italiana, non mi avrebbe dato a vederlo ed a discorrere tanta poetica gioia, quanta me ne diede quell'americano stupito forse di trovarsi sulle labbra il nome della avita patria obliata.

Alla stazione di Buffalo. – Noto la storia delle origini di questa città veramente americana. Sul principio del nostro secolo, un quacquero caritatevole ed immaginoso escogitò un ingegnoso mezzo di far danaro. Egli mandò in giro con firme false cambiali per il valore di dieci milioni, che pagò puntuale alla scadenza mediante nuove maggiori emissioni. Largo, anzi magnifico spenditore, prodigo di ricchezze ai compagni, impiegò le somme così carpite, alla costruzione di una città sulle rive del lago Erié. Ma a mezzo dell'impresa, fu scoperta la frode, ed al quacquero tradotto in giudizio, toccarono dieci anni di carcere. Spirato il termine della pena, i compagni che nel frattempo avevano trovato modo di compiere le fabbriche da lui iniziate si recarono in folla alla prigione ad accoglierlo uscente. Lo portarono in trionfo per le vie acclamandolo fondatore e padre della nuova città. Se Buffalo produrrà e meriterà un Tito Livio, come ne saranno narrate le origini?

Détroit sul lago St. Clair. – Bella città ridente e pulita senza stridori di macchine nè fumo di opifici. E delizioso albergo questo Russel Hotel donde dalla finestra della mia stanza, nello sfondo della via breve e spaziosa, vedo il lago, ed oltre il lago, i tenui colli della riva canadese. Città riposante dove nulla colpisce in modo eccessivo, nè gli occhi, nè la mente, e riposante albergo non servito Dio grazia, da quei frenetici mori che s'incontrano in quasi tutti gli altri alberghi americani e vengono tosto a noia per i motti a scatto e la screanzata famigliarità. Non ostante l'uguaglianza dei diritti sanzionata dalle leggi, negli Stati del Nord, i mori sono tenuti in condizione di assoluta inferiorità ed adibiti ad opere servili. Mentre nella Virginia, nella Carolina, nella Florida, nell'Alabama, nel Mississipi s'incontra moltissima gente di colore in condizioni civili e non poca ricchissima, che vive a paro a paro coi bianchi ed anche lì spadroneggia, negli Stati di New-York, nella Pensilvania, nell'Illinois, nel Massachusetts perdura, rispetto alla razza negra, un sentimento di ripulsione violento ed invincibile. Molti alberghi di Boston, di Filadelfia, di Washington respingono gli avventori negri anche se ci capitano con gran sfarzo, con un codazzo di servitori ed a suono di dollari d'oro. E sì che gli alberghi americani, così impersonali come sono, sanno più di piazza pubblica che di casa privata.

Gli alberghi americani meritano davvero un cenno speciale. Di gran lunga più perfetti e più economici dei nostrani, quando il viaggiatore si pieghi agli usi del paese, essi riescono incomodi e costosissimi a chi voglia viverci all'europea. I nostri sono informati al pregiudizio aristocratico anzi plutocratico che governa ancora in Europa quasi tutte le relazioni del minuto commercio. Presso di noi chi spende il danaro è persuaso di stare al disopra di quegli che lo riceve in cambio di prestazioni d'opera e di prodotti. Chi mette mano alla borsa, suole assumere per lo più una cert'aria di degnazione protettrice e pretendere dal fornitore, in aggiunta della merce, una dose di riconoscenza. In America lo scambio del danaro colle opere e coi prodotti non modifica in nessun modo il profondo sentimento di eguaglianza che è in tutti i cittadini dell'Unione. Dai più umili ai più fastosi negozi l'avventore è accolto con grazia, ma senza smancerie premurose. Dove qui s'incontra una premura servile, là se ne incontra una servizievole. Così nell'entrare all'albergo non inchini, non sberrettamenti, non sorrisi adescatori del proprietario o dei suoi commessi. Se all'albergatore occorrono i clienti, a questi occorrono l'alloggio e la tavola: pari pari ognuno dà, ognuno riceve. Le ragioni di contatto fra il viaggiatore ed il personale direttivo e quello di servizio, vi sono ridotte ai minimi termini. L'albergo americano è ordinato a modo di una grande macchina ingegnosissima e spedita, che ogni viaggiatore deve saper mettere in moto. Le prestazioni personali fuori del movimento normale vi hanno un'azione tarda ed impacciata e conducono ad un aumento notevole di spesa. Il viaggiatore ha a portata di mano quanto occorre a' suoi bisogni, ne faccia profitto e basti a sè. Presso di noi il proprietario od il conduttore dell'albergo, e più il portiere, esercitano sul viaggiatore, una specie di tutela continua e domestica, che sopperisce alla sdegnosa ignoranza della vita pratica e alla schifiltosa pigrizia della gente a modo. Il portiere dei nostri alberghi, deve fare l'ufficio di un vade-mecum universale. Vi indica i migliori magazzeni, vi suggerisce la gita più adatta alla giornata, vi consiglia lo spettacolo preferibile. Gli affidate il biglietto che un amico verrà a ritirare fra un'ora, gli date l'incombenza di pagare la carrozza che vi ricondusse a casa, lo chiamate arbitro nelle dispute che sorgessero fra voi ed il cocchiere, gli richiedete insomma mille piccoli servizi protettori, i quali vi cansano bensì noia e fatiche, ma vi impediscono la perfetta conoscenza dei luoghi che andate visitando e vi frustrano in gran parte della utilità del viaggio. Questo non può avvenire negli alberghi americani, dove tutto il piano terreno appartiene, non agli ospiti, ma al grandissimo pubblico, e dove tale è la ressa continua delle genti e l'urgenza degli affari, che quanti ci tengono uffici speciali, hanno incombenze preordinate, precise, rigorose, e non possono attendere che a quelle.