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Impressioni d'America

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Questi sperava che memori della sua vittoria nel dissidio col Caimacano, gli ufficiali della dogana non avrebbero osato contrastargli l'uscita di un bottino che gli apparteneva in legittima proprietà. Sperava, non senza timori. Di eludere la vigilanza delle guardie, non c'era da far pensiero. Erano trecento e sessanta enormi, pesantissime casse, impossibili a trafugare. Domandare licenza era come dubitare del lecito. Unico partito, agire aperto, presto e con aria sicura. Un bastimento a vela, scaricate in Larnaca le sue mercanzie, stava per salpare alla volta di Alessandria. Il Cesnola lo noleggia e dispone per il carico delle casse, ma la Dogana gli comunica un telegramma del governo ottomano con ordine di impedire al Console d'America di nulla asportare dall'isola. L'ordine era perentorio ed una goletta da guerra all'insegna della mezzaluna stava in rada proprio dirimpetto al Consolato americano, quasi ad assicurarne l'adempimento.

Tanta fatica, tanto studio, tanti anni spesi a cercare e ad illustrare la remota storia dell'isola tornavano a compiuta rovina del cercatore e dell'illustratore. La favolosa collezione serbava bensì in Larnaca il suo valore archeologico, ma perdeva ogni valore commerciale. Nessun rimborso era più da sperare delle immense spese sostenute per raccoglierla. Nè la Sublime Porta si sarebbe piegata a comprarla per danaro, assai paga che non uscisse dai suoi domini, nè certo si poteva trovare al mondo così munifico signore che ne facesse acquisto per tenerla relegata in Larnaca.

Il Cesnola meditava scoraggito sulla caduta d'ogni sua speranza, sulla scorno, sul danno irreparabile, mentre il suo fidato dragomanno Bechbech, passeggiava di su di giù per la stanza con aria di profonda meditazione.

Di tanto in tanto l'astuto e fedelissimo servitore gettava sul padrone uno sguardo incoraggiante quasi a provocarne un salutare provvedimento. Cesnola s'accorge che l'uomo ha le sue viste:

– Bechbech, bisogna che tutte le casse siano oggi a bordo della goletta. È necessario, Bechbech.

– Eccellenza, risponde il dragomanno, il dispaccio diretto al Governatore generale, conteneva, è vero, l'inibizione al Console d'America di nulla asportare dall'isola?

– Ma sì, ma sì.

– L'inibizione era fatta non al nome di Vostra Eccellenza, ma al Console d'America?

– Credo di sì. Perchè?

– Eccellenza, è accennato al Console di Russia in quel telegramma?

– No, no, ch'io sappia! – grida subitamente illuminato e giocondato il Cesnola. Corri alla Dogana e domanda in mio nome immediata e testuale comunicazione del telegramma.

Bisogna avvertire che il Consolato di Russia, non avendo allora titolato in Larnaca, era retto dal Console degli Stati Uniti. Il Cesnola era dunque ad un tempo il legittimo e riconosciuto rappresentante del Governo dell'Unione Americana e dell'imperiale Governo moscovita.

Mentre Bechbech corre alla dogana, il Cesnola, combinata a grossi caratteri a stampiglia la scritta: Consolato di Russia, dà ordine la si stampi su altrettanti fogli quante sono le casse e che s'incolli sovra ogni cassa il suo bravo foglio.

Dopo una mezz'ora eccoti il Direttore della Dogana col testo del dispaccio. Il Cesnola ne ascolta indifferente la lettura e poi, col piglio autoritario che si conviene al rappresentante lo Czar di tutte le Russie, domanda:

– Avete ordini relativi al Console di Russia?

L'Effendi, formalista come tutti i turchi, riflette, consulta il testo, conviene che esso riguarda il solo Console d'America, e riconosce non potersi opporre all'imbarco della mercanzia se questo gli viene domandato dal Console di Russia. Il dispaccio gli era stato trasmesso dal Governatore Generale, residente allora in Nicosia, nel centro dell'isola. Non era possibile avere istruzioni in giornata; dati i precedenti del primo dissidio e la fiera indole del Cesnola, era pericoloso, nel dubbio, farsi avverse due potenze non avvezze a patir soprusi. A farla breve, la lettera prevalse sullo spirito, le trecento e sessanta casse furono imbarcate nello spazio di poche ore. La notte il veliero salpava con buon vento ed il Cesnola dopo tante ansie potè dormire i suoi sonni tranquillo.

La raccolta destò a Londra una indicibile maraviglia. Mai per l'addietro un privato aveva posseduto così nuovi e vistosi tesori d'arte. Il Museo brittannico ne vagheggiava l'acquisto e già si teneva sicuro del fatto suo, quando gli sorse di fronte un formidabile competitore. Da pochi anni s'era, per liberalità di privati, formato in New-York, un Museo metropolitano (Metropolitan Museum of art). Alcuni fra i suoi principali fondatori trovandosi per l'appunto in Londra, intavolarono trattative col Cesnola. Gli osservarono che a parità di condizioni era bello ch'egli desse la preferenza alla patria adottiva, dove aveva trovato ospitalità, onori, fortuna, il parentado con una famiglia onorevole, ed un ufficio che era stato occasione e condizione delle sue scoperte. Al Museo brittannico la collezione Cesnola, ammirevole senza dubbio, era di necessità eclissata dalle ricchezze artistiche importatevi di Grecia e di Roma. In New-York essa sarebbe stata il nucleo del nuovo Museo, e vi avrebbe primeggiato a perenne gloria del suo scopritore.

Queste buone ragioni, raccomandate ad ottimi avvocati, persuasero il Cesnola. La collezione composta di diecimila capi d'arte fu venduta al Metropolitan Museum di New-York al prezzo di trecento e cinquanta mila lire. Il Cesnola aveva già nel corso delle sue ricerche conchiuso vendite parziali coi musei di Londra, di Parigi e di Berlino, e fatto gratuito dono di preziosi cimelii al Museo delle antichità di Torino, quale omaggio alla patria d'origine. Le trecento e sessanta casse furono imbarcate per New-York, ed il generale riprese la via di Larnaca per intraprendere nuovi scavi su più larga scala, a spese questa volta e per conto del Metropolitan Museum.

Ma era detto che il Cesnola dovesse agire sempre di suo. Una terribile crisi finanziaria sopravvenuta negli Stati Uniti costrinse i fondatori del Metropolitan Museum a disdire la convenzione pattuita in vista delle ulteriori scoperte. La fortuna serbava al valoroso uomo dei favori ben altrimenti maravigliosi di quelli prodigatigli in passato, ma egli doveva essere solo, al rischio, alle fatiche, alle lotte, al merito ed al premio. Nell'anno 1873 e nei primi mesi del 74, egli attese a sapienti ricerche, nelle terre di Salamina, di Soli, di Amatunta, della nuova e dell'antica Pafo. Non del tutto infruttuose, esse gli diedero frutti di secondaria importanza, ed impari alle ingenti spese incontrate. Un uomo di più debole tempra se ne sarebbe scoraggito: egli perseverò con ardore degno del trionfo che lo aspettava. Già gli invidiosi si godevano dello smacco onde vantavano offuscate le sue prime vittorie, quando corse nel mondo degli eruditi una notizia che sapeva di favola romanzesca. S'erano avverate al Cesnola, le fortune del Conte di Montecristo: non più statue o vasi, o lapidi o sarcofaghi, ma una profusione inestimabile di ori, di monili, di gemme era uscita da millenni sepolture ad un colpo di picca dell'avventuroso cercatore. Egli aveva scoperto intero e intatto il tesoro di Curium.

La città di Curium sorgeva al sommo di un monte roccioso, sulla costa meridionale dell'isola, alto dai cento metri sul livello del mare. La spianata è oggi coperta da uno spessore di materiali costruttivi rotti ed induriti, che mostrano frammenti di sculture e di fregi architettonici. A centinaia monticelli di ruderi ammucchiati, indicano il luogo ove sorgevano le case, i templi ed i pubblici edifici. Sovra uno di tali monticelli giacevano mezzo interrate parecchie colonne di granito. Il Cesnola le fece sterrare per assicurarne le dimensioni e le trovò posare sopra un pavimento a musaico che, rimosse le colonne, mise a giorno, quanto era largo, in modo da poter rilevarne la pianta di un tempo. Tastando col piede il pavimento avvertì che in un punto rendeva suono di vuoto. Ne ruppe la crosta, dissodò il terreno sottostante e con grande maraviglia riconobbe ad indubbi segni che già un altro esploratore era penetrato sotto il pavimento; ma non un rivale d'oggi o di ieri, non un cercatore di antichità, bensì qualche antichissimo esploratore, che aveva, è da credere, assistito alla rovina del tempio e ne conosceva forse gli occulti meati tra le fondamenta. Si capiva che l'uomo s'era aperto una via nella terra, cercando di giungere a qualche luogo a lui noto. Ma non v'era riuscito: o lavorasse da solo, senza istrumenti, o nell'oscurità avesse perduto l'orientamento, o gli mancasse l'aria, il fatto sta che le traccie dello scavo cessavano ad un tratto, alla profondità di circa due metri dal suolo.

Pensiamo se al primo segno di un precursore, al primo riconoscimento della sua antichità, il Cesnola dovette fremere di curiosità e d'impazienza. E quando il cunicolo gli si chiuse di colpo, ed apparve chiaro che l'ignoto cercatore aveva abbandonato l'impresa, quanti pensieri, quanti misteri gli si affacciarono alla mente! Deliberò tosto di internarsi più oltre nelle viscere della terra. Ma il lavoro gli riusciva arduo e lento. Approfondatosi di altri cinque metri, non trovò nulla che lo incoraggiasse a proseguire. Doveva anch'egli desistere? Lo avrebbe fatto di certo se le traccie lasciate dal precedente esploratore fossero state recenti. Nessuna meraviglia che un ignorato archeologo, avesse tentato di interrogare a fondo quelle rovine. Ma l'antichità non conosceva archeologi. L'uomo che a rischio della vita era penetrato in quelle latebre, doveva obbedire non ad una generica, ma ad una consapevole e determinata curiosità. Egli doveva o conoscere di certa scienza, od argomentare con plausibile ragioni, l'esistenza di qualche locale sotterraneo, contenente forse qualche prezioso deposito. Forse nel crollo dell'edifizio s'era otturato l'imbocco del cunicolo conducente a quella cripta, forse le macerie ammucchiate, i grossi massi difficili a rimovere, lo avevano persuaso di raggiungere il cunicolo per altra via fra materiali di minore resistenza. Era anche possibile che lo scavo si fosse tentato quando ancora il tempio rendeva intatto il suo culto alla divinità. Curio è vantata colonia argiva. Ma tradizioni remotissime, la vogliono fondata da quel Cinyra, che presso gli annalisti greci personifica la razza fenicia. Quando sul cominciare del quinto secolo innanzi Cristo, le principali città greche dell'isola sorsero contro Dario, il re di Curio, Stesenore, tradì la causa nazionale, e si alleò ai re fenici ed all'esercito persiano. È lecito supporre che nell'imminenza della guerra, o Stesenore stesso, od i sacerdoti, avessero scavato delle cripte nella roccia viva, e vi avessero nascosto quanto il tempio conteneva di più prezioso. L'ignoto cercatore sarà egli stato, un ufficiale del re, od un sacerdote? Mille romanzesche ipotesi travagliavano la mente del Cesnola, oramai avvezzo alle sorprese di quella terra fortunosa. Cedere ad una prima disdetta era demeritare dalla fortuna. Bisognava strappare alle tenebre il loro secreto, e pervenire ad ogni costo, oltre la crosta terrosa fino alla roccia viva.

 

Finalmente a otto metri dal pavimento, gli scavatori imboccarono uno stretto passaggio che li condusse ad una porta chiusa da una sottile lastra di pietra. Rimosso l'ostacolo, riuscirono in una piccola stanza piena fino alla volta del terriccio filtrato per le fenditure del monte. Seguivano tre altre simili grotte, similmente ripiene. Allo sgombero del territorio, occorse oltre un mese di febbrile ed irritante lavoro. Usavano, per ragioni di prudenza, lasciare a fior di terra uno spessore di mezzo metro all'incirca, che era poi rimosso con meticolosa cautela, sapendosi per lunga esperienza che gli oggetti preziosi giacevano sul fondo. Un giorno il Cesnola tastando con un regolo quell'infimo strato, venne ad urtare in un corpo duro. Era un braccialetto d'oro. Le sue fantasiose previsioni si trovavano avverate. Egli aveva posto mano sul tesoro sotterraneo indisturbato custode, per tanti secoli, delle offerte votive e delle domestiche ricchezze che i privati confidavano al santuario, innanzi di movere alla guerra o di salpare per lunghe navigazioni.

La storia non ricorda altra raccolta di gioielli e di oggetti preziosi pareggiabile al tesoro di Curium. Braccialetti d'oro massiccio, anelli, orecchini, amuleti, fiale, spilloni, spille, collane d'ogni forma e di raro lavoro. Cristalli di roccia, cornaline, onici, agate, tutte le varietà delle pietre preziose, e ancora figurine di cotto, vasi d'argilla, lampade, tripodi, candelabri, armi, vasellami d'argento, coprivano da oltre venti secoli, il suolo di quei plutonici saccelli.

Oltre la quarta stanza, si apriva un cunicolo simile a quello che immetteva nella prima. Se non che la volta rocciosa, andava in breve abbassandosi, così da doverlo percorrere carponi. Vi penetrarono muniti di candele il Cesnola ed il capo degli scavatori strisciando fra le anguste pareti e ne ritrassero sette caldaie di bronzo, ultima presa. L'aria venne ben presto a mancare, le candele si spensero, un calore soffocante mozzava il respiro, gli esploratori dovettero rinculare senza toccarne il fondo.

Il Cesnola si partì di Cipro, per non tornarvi, la primavera del 1876. Il suo nome apparteneva ormai alla storia, nè gli era lecito sperare maggiori venture. I musei d'Europa, si disputarono il tesoro di Curium, come già i cimelii di Dali e di Golgos. Ma ognuno voleva far la sua cernita ed al Cesnola premeva che la raccolta durasse intera. Era interesse della scienza che non ne andasse dispersa l'unità, era legittimo desiderio dello scopritore che unita attestasse il suo nome. Intervenne una seconda volta il Metropolitan Museum di New-York che l'acquistò al prezzo di sessantaquattromila dollari, impegnandosi a raccogliere insieme colla prima in apposite sale intitolate al Cesnola, cui venne affidata la Direzione del Museo.

Da quel giorno il nostro concittadino, vive in New-York, dove ampliò, arricchì ed ordinò il Metropolitan Museum così da farne uno dei primissimi del mondo. Le maggiori accademie scientifiche d'Europa, fecero a gara a quale più l'onorasse; gl'Italiani residenti nell'Unione ricorrono a lui quale a patrono. Egli vive in serena e studiosa operosità, grato alla nuova patria, pieno il cuore di vivissimo affetto per la nativa. Il suo maggior desiderio è di rivedere ancora una volta, gli amici d'Italia, e le dolci pendici del canavese. Contava di venirci l'anno passato per l'Esposizione di Torino, ma la guerra di Cuba lo trattenne, antico soldato, in New-York. Ben torni il prode uomo alla sua terra. La vita ch'egli condusse in America, l'esempio della sua rettitudine, della sua attività instancabile, del suo indomabile coraggio, la prova dell'elettissimo ingegno, giovarono al prestigio del nome italiano negli Stati Uniti, assai più che un trattato d'amicizia, o non so quale altra diplomatica fatica. Tutta la sua vita e l'ingegno e la tempra dell'animo hanno un nobile geniale carattere di italianità, esprimono accoppiata ad una energia insuperabile, quella grazia latina che sembra, rendere agevoli le più ardue imprese. Egli fu caro alla fortuna, perchè degno in tutto e sempre di conseguirne i favori.

FINE