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Impressioni d'America

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* * *

A differenza dei tedeschi, dei francesi e degli spagnuoli, i figli nati in America di padre italiano, non di rado ignorano del tutto e spesso storpiano in barbaro modo la lingua paterna. Ai francesi giova l'influenza canadese e la loro imperturbabile sicurezza; ai tedeschi ed agli spagnuoli, l'importanza numerica, l'attività industriale e la compattezza delle loro colonie. I nostri emigranti, non si assodano, per lo più, durevolmente sulla terra americana, ma vi passano come in luogo di pena. Ne consegue che i pochi veramente americanizzati hanno con essi relazioni superficiali ed effimere. Si può dire che nella America del Nord, fatta eccezione di New-York e forse di San Francisco, vi sono bensì molti italiani, ma una vera e propria colonia italiana non c'è. Le ragioni di questo fatto sono molte e complesse: nè io mi lusingo di conoscerle tutte nè di saper ordinare con criteri scientifici quelle che conosco. Accenno alle più evidenti che indussi laggiù dal continuo discorrere con gente esperta.

Prima ragione è la irresistibile attrattiva del nostro paese, che è davvero il più bello del mondo, ed il modesto concetto che abbiamo, in generale, della agiatezza, e quindi i modesti bisogni, ed una inclinazione, anche nella gente meno colta, alla quietudine contemplativa. Il genovese, ha fama di essere il popolo più attivo ed industre d'Italia. Ora chi percorre le campagne liguri si imbatte in mille minuscoli poderetti cui la gente del luogo dà un nome che ricorda l'America. Una casupola ed un chiuso d'olivi quanto basta a camparci due persone parsimoniose, sono il premio finale che spinge oltre i mari e sostiene nelle più dure fatiche, i figli della più forte razza d'Italia. E come l'hanno conseguito, non c'è promessa di maggior ricchezza che ne indugi il ritorno.

L'emigrato tedesco e l'irlandese, come hanno fatto un po' di peculio, lo gettano nelle industrie che li arricchiscono e alla patria non ci pensano più. Ma la terra, il cielo ed il clima d'America non sono da meno da quelli di Germania e d'Irlanda, e d'altra parte l'emigrato tedesco trova negli Stati Uniti più centri importantissimi d'industria interamente germanici e città quasi tedesche, come Milwaukee sul lago Michigan che innonda l'America di birre deliziose, ed altre dove l'elemento tedesco è prevalente, come in Chicago. E l'irlandese trova nella lingua ufficiale degli americani, come una continuità di patria, senza contare i mille aiuti ed i mille conforti che procedono dall'intendere e dal farsi intendere a modo.

E qui è da cercare un'altra ragione della tenue compattezza delle nostre colonie.

Gli operai degli altri paesi trovano arrivando in America, moltissimi centri patrii d'industrie dove allogarsi e dove attingere le nozioni necessarie alla nuova vita ed all'evenienza aiuti e consigli. I nostri, devono ricorrere e per collocamento e per imparare la vita, e per farsi intendere, o per mettere al sicuro (Dio sa quale sicurezza) i risparmi, e spedire il danaro in Italia, a gente che fa di tali uffici, una speciale professione. Di qui una caterva di piccoli traffichi parassiti, di piccole agenzie senza nome, di minuscole banche, di locande protettrici, le quali vivono di seconda mano sul guadagno degli emigranti, giovandosi della loro sospettosa ignoranza e dello sbalordimento in cui li mette l'enorme vita americana. I consoli i quali sanno e vedono e commiserano, vorrebbero mettere riparo a tanto danno. Ma gli ufficiali del governo, ispirano alla povera gente un rispetto più vicino alla paura che alla fiducia.

Gli emigranti dell'alta Italia, tanto tanto si piegano a crederci o ne fanno le mostre, ma i meridionali i quali sono in maggior numero, ne hanno un sacro terrore addirittura. Quando il Console domanda loro:

– Dove avete messo il vostro danaro?

– Lo dato al compare.

– Perchè non lo mettete ad una cassa di risparmio?

– Lo tiene il compare.

– E se il compare se lo mangia?

(Sorriso beatamente sicuro).

– E ne mandate a casa?

– Ne manda il compare.

– E come fate per il cambio?

– Ci pensa il compare.

E non se ne esce: il compare fa, disfa, prende, tiene in serbo, mette a profitto (per suo conto si intende) e qualche volta scappa.

Allora il poveraccio torna al Console per soccorsi, e come questi gli dice: Avete visto il compare? quello si stringe nelle spalle ed esclama: Chi l'avrebbe creduto! Uno del paese! Ma ora ce n'ho un altro, che è un fiore di galantuomo.

Queste cose laggiù, le raccontano tutti. Tutti ben inteso quelli che non ci vivono sopra ed i Consoli ne sono scorati. Mi fu raccontato di compari che del danaro avuto in deposito, non solamente non danno interesse, ma ritengono ancora una parte, sia pur minima, a titolo di compenso per la cura che ne hanno. Altri si fanno pagare il cambio in carta italiana, quando l'argento e l'oro europeo perdono sulla carta degli Stati Uniti. S'intende che non sono tutti bricconi, nè la maggior parte; i più esercitano con probità l'industria parassita che l'ignoranza del nostro popolo e le nostre condizioni economiche hanno reso necessaria. Ma l'esercizio larghissimo di questa industria non lascia di essere un elemento dissolvente. L'attività applicata ai prodotti della terra, alle trasformazioni meccaniche della materia, al movimento ed allo accrescimento della ricchezza, ha in America un campo d'azione così vasto che tutti ci trovano posto, onde è raro che la prosperità degli uni impedisca o scemi quella degli altri. Invece, il campo di quel minutissimo traffico è ristretto a poche migliaia di lavoratori. Ogni nuovo sensale o banchiere o compare che sia, usurpa a tutti gli altri una particella della loro clientela e dei loro guadagni. Ognuno tira l'acqua al suo mulino, ma quando l'acqua è poca ed i mulini sono troppi, i mugnai fanno baruffa! E quanto allargata ed allargantesi di continuo, così da invelenire anche la gente che non macina di quella farina e non ne campa.

Sono ire senza fine e senza misura, che non si restano ai soli rivali interessati, ma colpiscono l'amico del rivale, il fornitore, il medico, il barbiere del rivale, il ristorante dove il rivale usa a desinare. Così d'uno in altro le inimicizie ingrossano e s'intrecciano, e vanno ad intristire tutte le funzioni della vita. Aggiungete le nostre soavi tradizioni patrie così piene di rancori, d'invidie e di superbi provinciali, aggiungete le poco riguardose abitudini americane, e la sconfinata libertà della stampa, e le non infrequenti macchierelle e talvolta le macchiaccie originarie, che alcuni emigranti, in special modo fra le persone colte, sperano invano di lavare nella traversata oceanica e che sono loro rinfacciate al primo por piede in terra d'America, e potrete farvi un'idea dei mille pettegolezzi litigiosi che disgregano di continuo quelle nostre colonie. Non mancano gli spiriti equi che se ne rammaricano. Ho inteso in Chicago, medici, professori, artisti, negozianti lagnarsi di quei dissidi come di gravissima disgrazia. Perchè degli italiani colti ed illuminati se ne trovano molti in ogni città. Se non che essi alieni dalle beghe, finiscono con appartarsi in circoli ristretti e coi connazionali non hanno altri rapporti che di consiglio nei casi gravi, o di soccorsi spiccioli, o di concorso alle opere di beneficenza od alle manifestazioni officiali della colonia. Si capisce che quando adoperassero altrimenti l'onda dei pettegolezzi li travolgerebbe.

Il mass meetings cui ho assistito in Chicago, mi ha dato la misura del pericolo che li minaccia.

Vi assistevano forse un trecento persone: operai, capi-squadra, esercenti, negozianti, dottori, professori, una rappresentanza eletta e sincera della emigrazione italiana. Intendevano, come ho detto, di dare al Console un attestato di stima e di sgravarlo da immeritate accuse. Fino a che si trattò di mettere in sodo il fatto della bandiera e di attestarne la presenza alle finestre consolari fin dalle prime ore della mattina, furono buone ragioni e dette con serietà misurata. Poi vennero gli elogi al Console sinceri e serii ancor essi: se non che già il tono oratorio s'era fatto più alto. Alla fine passarono per così dire alla parte polemica, a dichiarare cioè le ragioni delle animosità verso il rappresentante del patrio governo, a confutare e a confondere i denigratori. Confondere, a distanza perchè i denigratori non erano presenti e l'assemblea era tutta per il Console, ma di ragione avrebbero risaputo ogni cosa.

Quest'ultima parte del trattenimento fu certo a criterio d'arte la più bella. Quali filippiche e quanta magniloquenza! E quale vocabolario! Le parole: ladro, buffone, falsario, spergiuro, galera, sputo, fango, forca, ricorrevano come gli imperciocchè, gli adunque ed i verbigrazia nei discorsi accademici di una volta. Ma la sostanza vinceva la forma. Essa rivelava una tale comica e fitta rete di vanità, di bizze, di intrigucci, di dispetti, di piccinerie, da fornire materia ad un Goldoni di non più visto capolavoro.

Era discorso di cose che non avrei saputo imaginare mai. Se il Console fosse intervenuto al ballo della società: Lancieri di Firenze? – Sì – No. – Era entrato a braccio del presidente. – Ma non aveva bevuto il Champagne e ne aveva bevuto invece due bicchieri al ricevimento della società: Piemonte Reale. – Non è vero: dei Carabinieri del Volturno. – Chè, scambiate col Console di prima! – E avanti di quel passo, con incidenti gustosi a scatti e motti di un'arguzia lepida e mordente. Ricordo un toscano, sulla sessantina, alto, asciutto e brioso con dignità. Era presidente di una di quelle società dal titolo militaresco della quale non mi torna il nome, come non giurerei che i nomi riferiti dianzi siano proprio i veri – ma somigliano. Parlava con quelle deliziose sgrammaticature del contado toscano, che sembrano accrescere purezza all'accento e proprietà alle parole. Aveva un'eloquenza furba e reticente, si lanciava con foga in un periodo rotondo e poi quasi per subito accorgimento critico lo voltava in ridere con allusioni accennate appena e lasciate in sospeso. Ma quanto non diceva con parole esprimeva cogli occhi e con una certa scossettina del capo tutta malizia. Di quegli accenni a cose taciute io ben inteso non afferravo che l'intenzione generica, ma l'uditorio non ne perdeva una briciola, e se ne deliziava.

 

Durante la scena io andavo pensando che quella gente erano in gran parte lavoratori accaniti, pieni di forza e di coraggio e leggendo loro sul viso le traccie di fatiche e di privazioni eroiche, mi dicevo che in ultimo quel poco spasso era loro ben dovuto come cosa salutare ed esilarante. Ma poi ripensandoci e ricordando certi scatti veramente irosi e occhiate piene di rancore e le mille viperette guizzanti tra i fiori della grossa rettorica, già edotto dai discorsi di persone benevoli e posate, consideravo il danno che recano a questi esiliati i livori quasi domestici, ed il disgregamento nelle maestranze. Lontani dalla casa, mal secondati dalla gente del luogo, mal forniti, mal parlanti la lingua del nuovo paese, esposti alle cupidigie di cento speculatori, ignoranti le leggi locali, la disunione li disarma sempre più e li mette in discredito. Se in luogo di spartirsi nelle minuscole società dei Carabinieri, dello Stato Maggiore, dei Bersaglieri e dei Cavalleggieri, si raccogliessero in una sola Società degli Italiani e la volgessero ad agevolezze di lavoro, a tutela nelle controversie giudiziarie, a collocamento dei risparmi quotidiani, la colonia si assoderebbe, ed acquisterebbe credito e forza.

CAPITOLO IX.
Due italiani in America

Di due italiani vanno a giusto titolo orgogliosi gli italiani residenti in New-York. Uno morto ora sono dieci anni, l'altro vivo valido ed operoso sul limitare della vecchiezza. Fortunosi entrambi, il primo ebbe immeritatamente contraria, il secondo meritatamente propizia la fortuna. Quegli sostenne con serena dolcezza la sorte nemica e fu buono e soccorrevole nell'avversità; questi sostenne con virile semplicità i prosperi eventi e fu ed è buono e soccorrevole fra gli agi e gli onori. Tutti e due divenuti cittadini americani serbarono in cuore vivissimo e sacro l'amore ed il culto della madre Italia. Di uno l'Italia deve rivendicare il nome alla storia delle invenzioni scientifiche ed industriali; il nome dell'altro è scritto con gloriose note nella storia americana della guerra di secessione ed in quella universale delle maggiori scoperte archeologiche. Il primo si chiamò: Antonio Meucci, il secondo si chiama Luigi Palma di Cesnola1.

* * *

Antonio Meucci nacque in Firenze l'anno 1804. Emigrò giovanissimo nell'America del Nord, dove si diede ad esercitare l'arte del macchinista teatrale, un'arte che richiede mente ingegnosa e pronta ed industre facoltà inventiva. Tenne in tale qualità parecchi teatri degli Stati Uniti e nel 1849, fu macchinista capo all'Opera house in Santiago di Cuba. Ma insieme alla cura delle macchine sceniche, per nativa inclinazione e quasi a svago dei faticosi lavori, egli attendeva a studi di fisica sperimentale, applicandosi di preferenza ai fenomeni del suono. Sia che l'ardore dello studio lo svogliasse del mestiere, o che questo gli venisse in uggia per la irritazione che induge l'urgenza degli allestimenti serali (i macchinisti teatrali ogni sera smaniano e bestemmiano come turchi) o sia che avesse per ignote cause perduto l'impiego, fatto sta che nel 1851, lo troviamo in New-York esercitare un'industria che non ha nulla a che fare col teatro. Forse, a furia di tirar moccoli, gli era venuta l'ispirazione di fabbricar candele. In Clifton, piccolo villaggio nella Staten Island, mostrano ancora la casetta e la fornace dov'egli viveva tra barili di sugna e matasse di stoppini e dove appunto nell'anno 1851 tenne in qualità di commesso e di manovale Giuseppe Garibaldi, già vantato eroe dei due mondi, profugo e povero dopo le tragiche glorie dell'assedio di Roma. È bello riportare qui dalle memorie di Garibaldi il brano che si riferisce a questo commovente periodo della sua vita.

«Un brav'uomo mio amico, Antonio Meucci fiorentino, si decide a stabilire una fabbrica di candele e mi offre di aiutarlo nel suo stabilimento. Detto fatto. Interessarmi alla speculazione non lo potevo per mancanza di fondi; mi adattai quindi a quel lavoro colla condizione di fare quanto potevo.

«Lavorai per alcuni mesi col Meucci il quale non mi trattò come un suo lavorante qualunque, ma come uno della famiglia e con molta amorevolezza.

«Un giorno però, stanco di far candele e spinto forse da irrequietezza naturale ed abituale, uscii di casa col proposito di mutar mestiere. Mi rammentavo di essere stato marinaio, conoscevo qualche parola d'inglese e mi avviai sul litorale dell'isola ove scorgevo alcuni barchi di cabottaggio occupati a caricare e a scaricare merci. Giunsi al primo e chiesi di essere imbarcato come marinaio. Appena mi dettero retta coloro che scorgevo sul bastimento, e continuarono i loro lavori. Feci lo stesso avvicinando un secondo legno ed ebbi medesima risposta. Infine passo ad un altro ove si stava lavorando a discaricare e dimando se mi si permette di aiutare al lavoro e n'ebbi in risposta che non ne abbisognavano. – Ma non vi chiedo mercede – io insistevo: e nulla. Voglio lavorare per scuotere il freddo (vi era veramente la neve) – meno ancora. Io rimasi mortificato.

«Riandavo col pensiero a quei tempi ov'ebbi l'onore di comandare la squadra di Montevideo, nonchè il bellicoso ed immortale esercito. A che serviva tutto ciò? Non mi volevano. Rintuzzai infine la mortificazione e tornai al lavoro del sego. Fortuna ch'io non avevo palesato la mia risoluzione all'eccellente Meucci, e quindi, concentrato in me stesso, il dispetto fu minore. Devo confessare inoltre non essere il contegno del mio buon principale verso di me, che mi avesse indotto alla intempestiva mia risoluzione; egli mi era prodigo di benevolenza e d'amicizia, come lo era la signora Ester sua moglie.

«La mia condizione, non era dunque deplorabile in casa del Meucci, ed era proprio stato un eccesso di malinconia che m'aveva spinto ad allontanarmi da quella casa. In essa io era liberissimo, potevo lavorare se mi piaceva: e preferivo naturalmente il lavoro utile a qualunque altra occupazione; ma potevo andare a caccia qualche volta, e spesso si andava a caccia collo stesso principale e con vari altri amici di Staten Island e di New-York che spesso ci favorivano colle loro visite. In casa poi non vi era lusso, ma nulla mancava delle principali necessità della vita, tanto per l'alloggio che per il vitto.»

Lo stesso anno che fu principale di così inverosimile operaio, il Meucci proseguendo sempre i suoi studi sulle onde sonore e sulla trasmissione dei suoni lungo le corde, pervenne finalmente ad una vera e propria invenzione. Composti due coni tronchi di carta, chiuso ognuno dalla parte superiore da una membrana elastica, fece correre dall'uno all'altro un filo che metteva capo alle due rispettive membrane. Uno dei coni consegnò ad un amico dimorante nella casa dirimpetto alla sua; tenne l'altro presso di sè così che il filo congiuntore dovesse traversare la via che si trovava essere larghissima. Parlando egli senza punto levare la voce entro uno dei mezzi imbuti, l'amico dall'altra ne raccoglieva chiara ogni parola e gli rispondeva allo stesso modo. Quel primitivo apparecchio ridotto ora ad un balocco per i fanciulli, conteneva in forma rozza ed iniziale, la trovata del telefono e fin d'allora ebbe nome di telefono dal suo inventore.

Conscio delle future applicazioni, già piena la mente delle aggiunte e dei ritocchi, il buon Meucci innanzi di licenziare la scoperta, attese a perfezionarla con metodo scientifico, finchè mediante il sussidio dell'elettromagnetismo ottenne che la trasmissione delle vibrazioni sonore potesse avvenire a grandi distanze.

Io non starò qui a descrivere l'apparecchio ultimo in cui si aquietò lo spirito acuto e diligente del nostro fiorentino. Lo si trova descritto in tutti i prontuari delle invenzioni, dove, ben inteso, del Meucci non si fa nemmeno il nome, tanta oscurità pesa sui fabbricatori di candele. Ci vollero anni e lustri di studio e di affannosi esperimenti innanzi che la piccola macchina uscisse dalle mani creatrici compiuta ed atta ad effetti sicuri e costanti. Intanto la fabbrica languiva e fu dovuta dimettere. Il Meucci lasciò là casetta di Staten Island e si raccolse in New-York, dove cominciò a campare di stenti e di speranze.

Come stimò che l'invenzione fosse matura ne propose l'esame e l'acquisto al Grant, presidente della New-York District Telegraph Company: ma tenuto a bada per due anni con mirifiche promesse, e persuaso dagli amici ad assicurarsi almeno il brevetto d'invenzione, consegnò all'ufficio delle patenti di Washington la minuta descrizione dell'apparecchio, contro ricevuta in piena regola, alla data 23 dicembre 1871: venti anni giusti dopo di aver trovato l'idea primitiva, dopo di averla in forma rudimentale mandata ad effetto. Dal lungo spazio di tempo trascorso senza che altri intervenisse con scoperte affini, appare quanto fosse originale e geniale la prima trovata. E trascorsero altri cinque anni prima che a nessuno venisse in mente di poter trasmettere i suoni a distanza. Il Meucci, forte del suo brevetto, aspettava fiducioso quel colpo di fortuna che sorride di lontano a tutti gli inventori.

Il colpo venne, ma fu una mazzata. Nel 1876 i giornali americani strombazzarono la meravigliosa scoperta del telefono, opera del prof. Graham Bell di New-York e la costituzione di una società industriale intitolata: Bell Telephone Company. Il nostro amico fiuta un latrocinio: corre all'ufficio delle patenti di Washington, produce la ricevuta ed il brevetto, e domanda la restituzione delle carte depositate cinque anni addietro. Cerca, cerca, le carte non si trovano. Meucci ritorna a New-York, raccoglie gli amici, espone il caso, dimostra l'identità colposa delle due scoperte, trova generoso patrocinio nella stampa, mette il mondo a rumore. Inquieta di peggior danno la Bell Telephone Company gli fa offrire, in secreto, una somma di quattrocentomila dollari (due milioni di lire), purchè dimetta la rivendicazione di ogni suo diritto. Era assai più di quanto avrebbe potuto conseguire, data l'età ormai tarda (il Meucci contava allora 72 anni) da un fortunatissimo esperimento industriale dell'opera sua. Era l'avveramento, ad usura, delle sue lunghe speranze di fortuna, ma in pari tempo la rinunzia ai sogni di gloria, che lo avevano sostenuto e rasserenato nella miseria. Un americano, avrebbe accettato, l'impenitente idealista, già educato dal primo mestiere a costruire castelli in aria e ad appagarsene, rifiutò di netto. Egli voleva il suo, tutto il suo, non già in dollari sonanti ma in suono di plauso al nome oscuro ed alla patria lontana. Un amico che lo frequentava in quei tempi, mi raccontò com'egli andasse ripetendo: È scoperta italiana e non c'è oro al mondo che la possa americanizzare. La società doveva chiamarsi Meucci Telephone Company, il nome dell'usurpatore doveva vergognosamente sparire dai manifesti.

Già la verità aveva fatto strada, s'erano scoperte frodi ingegnosissime dell'ufficio patenti, si sapeva per quale via sotterranea (e la parola va intesa alla lettera) gli ufficiali addetti a quell'ufficio trasmettessero a danarosi compari e fra questi alla Bell Telephone Company, i documenti, tradissero i secreti affidati alla custodia dello Stato. Una buona lite avrebbero messo in chiaro ogni cosa e rivendicato il diritto ed assicurata la prosperità del Meucci. Ma negli Stati Uniti d'America, peggio assai che presso noi, le liti le intavola chi vuole, le sostiene chi può. E potere non vuol dire essere armato di buone ragioni, ma di buona e copiosa moneta. I giornali di New-York, tranne alcuni pochi agli stipendi degli arruffoni, tenevano le parti dell'italiano spennato, contro i ricchi ladri connazionali, ma la procedura trascinava in cavilli indugiatori che davano fondo alle poche ultime risorse del Meucci. Al certo il buon vecchio, benchè di fibra tenace, sarebbe morto prima che nemmeno gli albeggiasse di lontano il giorno della giustizia, se non sopravveniva un fortunato incontro di casi a mettere dalla sua un nuovo litigante, ben altrimenti poderoso e destro.

 

Nel 1885, accampando la famigerata Bell Company infondate o almeno esagerate pretese verso le finanze dello Stato (si trattava di parecchi milioni di dollari) in conseguenza appunto di certe convenzioni per l'esercizio del telefono, il Governo degli Stati Uniti deferì la questione ai tribunali. Faceva comodo al Governo di contestare non soltanto l'entità del debito, ma il debito stesso. Nulla di meglio che aprire finalmente gli occhi sulla frode iniziale, nota ai governanti da più anni, e colpire gli ingordi, ma pure a lungo tollerati, usurpatori. La frode questa volta fu messa in chiaro ne' suoi più minuti procedimenti. Intervennero sentenze diverse, e prove e riprove e controprove, tirate di lungo per lo spazio di tre anni, finchè d'uno in altro grado di giurisdizione, si pervenne, come Dio volle, al supremo, e nel 1888 la Court of the United States, restituiva al nostro concittadino il merito della scoperta, sentenziava dovere il telefono, prender nome dal Meucci, e dimettere quello del Bell, ed assolveva lo Stato da ogni pagamento verso la fraudolenta Compagnia. Così la giustizia entrava di straforo nei pronunciati giudiziarii, tarda e barbina, perchè al vecchio ottantaquattrenne riconosciuto inventore di uno fra i più meravigliosi trovati del secolo, non fu attribuito nessuna sorta di compenso. Gli usurpatori s'erano arricchiti, lo Stato la faceva grassa, il Meucci moriva un anno dopo, nell'ottobre 1889, povero in canna com'era vissuto. Gli si celebrarono solenni funerali a spese del governo italiano; il Console d'Italia ne accompagnò la salma al crematoio, ed una lapide registrò il suo nome sulla casetta della Staten Island.

Domandate intorno chi sia l'inventore del telefono, e di quelli che sanno dare una risposta, novantanove su cento, nomineranno anche oggi, il prof. Graham Bell di New-York.

* * *

Sul finire del 1860 un giovine ufficiale italiano giungeva in New-York, gittati, o dispetto o capriccio o voce imperiosa del destino, gli spallini già conquistati volontario sedicenne sul campo di Novara e portati con onore su quelli di Crimea combattendo nella legione straniera al servizio dell'Inghilterra. Si chiamava con un nome patrizio chiaro nei fasti del risorgimento italiano. Suo nonno, il conte Alerino Palma di Cesnola e di Borgofranco, profugo dagli Stati Sardi dopo i moti del 21, condannato in contumacia alla pena capitale, aveva combattuto col Santarosa per la indipendenza della Grecia, era morto nel 51 in Atene presidente di quella Corte di Cassazione.

Nel 60 meglio che adesso, l'America era la terra promessa dei cercatori di fortuna, e se è vero che a conseguire fortuna occorre esserne affatto sprovvisto, il giovane conte Luigi di Cesnola si trovava proprio nelle condizioni volute. Possedeva appena di che vivere a stecchetto un qualche mese, ma in compenso aveva l'ingegno pronto ed aperto, le membra robuste, il parlare persuasivo, una piacevole franchezza di modi, un aspetto seducente, e sopratutto una volontà tenace ed accorta di acciuffare la fortuna, fosse pure per il filo d'un capello e di non lasciarsela sfuggir di mano.

Cominciò, aspettando le occasioni, di dove cominciano in paese forestiero quasi tutti gli sfaccendati di media coltura e di attitudini poco specializzate: dall'insegnamento della propria lingua. Alla quale aggiunse la francese che i nobili del Piemonte conoscevano allora al pari e spesso meglio dell'italiana. Ma chi vuole insegnare una lingua, deve conoscerne almeno due, chi vuole insegnarne due, almeno tre: la lingua del maestro e quella dello scolaro. A questa il Cesnola s'era applicato la prima volta durante la traversata oceanica che a tale intento, ed anche un po' a risparmio di spesa, aveva compito sopra un bastimento a vela della marina mercantile d'Inghilterra, affidandosi così al migliore di tutti i maestri: la necessità. Allo sbarcare sulla terra d'America, dopo un mese di navigazione, egli sapeva tanto d'inglese quanto basta ai maggiori bisogni della vita. Per strumento didattico erano scarse nozioni, ma insegnando s'impara, e fra i metodi didattici, quello che fa dell'allievo in alcune parti un maestro e stabilisce fra allievo e maestro un continuo ricambio di insegnamenti, è forse il più pratico ed efficace.

Non gli mancarono scolari dell'uno e dell'altro sesso: uomini maturi, giovinotti già dati al traffico ed agli affari e fior di ragazze in età da marito. Di 27 anni, bello, baldo, nobile, italiano, già soldato nelle poetiche guerre d'Italia, nessuna maraviglia che presso qualche allieva, gli soccorresse un sussidio pedagogico non compreso nei precetti della pedagogia. Pochi mesi dopo l'arrivo in New-York, egli sposava infatti la signorina Mary, figlia di uno fra i migliori ufficiali della marina federale, il commodoro Samuel Reid, fanciulla di grande bellezza e di grande animo, che gli fu ed è compagna impareggiabile.

Intanto, ingrossando il dissidio fra gli Stati del Sud e quelli del Nord intorno alla abolizione della schiavitù, il Governo dell'Unione apparecchiava la guerra ormai inevitabile. Si pubblicarono i programmi degli esami che dovevano superare in Washington gli aspiranti al grado di ufficiale nelle improvvisate milizie. Il maestro di lingue, che già ascritto all'Accademia militare di Torino, possedeva in larga misura le cognizioni richieste, si fa di colpo e con più sicura coscienza, maestro di tattica guerresca. Un avviso a caratteri cubitali affisso sulla facciata di una casa in Broadway, la principale via di New-York, annunziò tosto al pubblico:

Scuola di guerra
del conte Luigi Palma di Cesnola
capitano nell'esercito italiano

La fortuna gli porgeva, non il filo d'un capello ma tutta quanta la chioma. Il corso degli studi si doveva compiere in due mesi al prezzo di dugento dollari. In poco spazio di tempo il numero degli allievi salì a settecento. Un giorno si presenta al Cesnola un ricchissimo signore deliberato di armare a sue spese un reggimento e di farne dono allo stato.

– Quanto volete per l'istruzione di tutti gli ufficiali?

– Dugento dollari caduno.

– Ma son cinquanta!

– Benissimo. Dieci mila dollari.

– Quali sono i modi del pagamento?

– L'intera somma anticipata.

Il miliardario, tale quale usa nelle commedie, leva di tasca il suo bravo libretto, ne stacca un buono, vi registra la somma richiesta, lo firma e lo porge al fortunato istruttore, indi presi i concerti per l'orario delle lezioni, s'avvia verso l'uscita. Sul presso dell'uscio, lo coglie un legittimo senso d'inquietudine.

– Io vi ho dato la somma intera: chi mi assicura che voi mi darete intero il corso delle lezioni?

– I sir. Io signore, risponde il Cesnola.

Lo sguardo, il viso, il gesto, l'accento, le asciutte parole esprimevano una tranquilla fermezza che tranquillò l'animo dell'americano.

Gli allievi superarono tutti quanti con molto onore l'esperimento dell'esame. Era naturale che fosse loro domandato dove avessero atteso agli studi, e naturale pure che nella penuria e nell'urgenza di esperti ufficiali fosse offerto un grado superiore al provato maestro. Nell'ottobre del 1861, il Cesnola fu nominato maggiore e dopo due mesi promosso al grado di tenente colonnello nell'XI reggimento di cavalleria, cui era affidata l'onorifica mansione di proteggere la persona del Presidente Lincoln e di guardare le sedi del Governo, in momenti di gravi subbugli popolari, poichè la popolazione di Washington parteggiava quasi tutta per i separatisti del Sud. Qui il giovane patrizio piemontese diede le prime prove, di un coraggio, di una fermezza, di un accorgimento guerresco, che gli valsero nel settembre 1862 il grado di colonnello ed il comando del quarto reggimento di cavalleria di New-York, già sulle mosse per il campo della guerra e nel dicembre dello stesso anno il comando dei sette reggimenti di cavalleria addetti al decimoprimo corpo d'esercito, condotto dal generale Franz Seigel.

1Raccolsi le notizie del Meucci da parecchi italiani residenti in New-York che ebbero con lui molta dimestichezza e da alcune note fornitemi dal Sig. Carlo Barsotti, direttore proprietario del Progresso Italo Americano.