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L'innocente

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Quel giorno! Non era trascorsa neppure una settimana. Perché pareva dunque tanto remoto?

Stando in piedi dietro di lei, in quella tensione estrema, come in agguato, io pensai che forse ella sentiva per istinto sul suo capo la minaccia; e credetti indovinare in lei una specie di vago malessere. Ancóra una volta mi si strinse il cuore, intollerabilmente.

A un punto, infine, ella disse:

– Domani, se starò meglio, tu mi porterai su la terrazza, all’aria…

Io interruppi:

– Domani non sarò qui.

Ella si scosse al suono strano della mia voce. Io soggiunsi, senza attendere:

– Partirò.

Soggiunsi ancóra, con uno sforzo per snodare la lingua, raccapricciato come uno che debba iterare il colpo per finire la vittima:

– Partirò per Firenze.

– Ah!

Ella aveva compreso a un tratto. Si volse con un moto rapido, si torse tutta su i cuscini per guardarmi; e io rividi, per quella torsione violenta, il bianco de’ suoi occhi, la sua gengiva esangue.

– Giuliana! – balbettai, senza sapere che altro dirle, chinandomi verso di lei, temendo ch’ella venisse meno.

Ma ella abbassò le palpebre, si ricompose, si ritrasse, si restrinse in sé stessa, come presa da un gran freddo. Rimase così qualche minuto, con gli occhi chiusi, con la bocca serrata, immobile. Soltanto la pulsazione visibile della carotide nel collo e qualche contrazione convulsiva nelle mani davano indizio della vita.

Non fu un delitto? Fu il primo dei miei delitti; e non il minore, forse.

Partii, in condizioni terribili. La mia assenza durò più di una settimana. Quando tornai e nei giorni che seguirono il mio ritorno, io stesso mi meravigliavo della mia sfrontatezza quasi cinica. Ero posseduto da una specie di malefizio che aboliva in me ogni senso morale e mi rendeva capace delle peggiori ingiustizie, delle peggiori crudeltà. Giuliana anche questa volta mostrava una forza prodigiosa; anche questa volta aveva saputo tacere. E m’appariva chiusa nel suo silenzio come in un’armatura adamantina, impenetrabile.

Andò con le figlie e con mia madre alla Badiola. Le accompagnava mio fratello. Io rimasi a Roma.

Da quel tempo incominciò per me un periodo tristissimo, oscurissimo, il cui ricordo ancóra mi riempie di nausea e d’umiliazione. Tenuto da quel sentimento che meglio di ogni altro rimescola il fango essenziale nell’uomo, io patii tutto lo strazio che una donna può fare di un’anima fiacca, appassionata e sempre vigile. Accesa da un sospetto, una terribile gelosia sensuale divampò in me disseccando tutte le buone fonti interiori, alimentandosi di tutto il fecciume che posava nell’infimo della mia sostanza bruta.

Teresa Raffo non m’era parsa mai desiderabile come ora che non potevo disgiungerla da una imagine fallica, da una sozzura. Ed ella si valeva del mio stesso disprezzo per inacerbire la mia brama. Agonie atroci, gioie abiette, sottomissioni disonoranti, patti vili proposti ed accettati senza rossore, lacrime più acri di qualunque tossico, frenesie improvvise che mi spingevano sul confine della demenza, cadute nell’abisso della lussuria così violente che mi lasciavano per lunghi giorni istupidito, tutte le miserie e tutte le ignominie della passione carnale esasperata dalla gelosia, tutte io le conobbi. La mia casa mi divenne estranea; la presenza di Giuliana mi divenne incresciosa. Intere settimane passavano, talvolta, senza che io le rivolgessi una parola. Assorto nel mio supplizio interiore, io non la vedevo, non la udivo. In certi momenti, levando gli occhi su lei, mi meravigliavo del suo pallore, della sua espressione, di certe particolarità del suo volto, come di cose nuove, inaspettate, strane; e non giungevo a riconquistare intera la nozione della realtà. Tutti gli atti della sua esistenza m’erano ignoti. Io non provavo alcun bisogno d’interrogarla, di sapere; non provavo per lei alcuna inquietudine, alcuna sollecitudine, alcun timore. Una durezza inesplicabile mi fasciava l’anima contro di lei. Anche, talvolta, io avevo contro di lei una specie di vago rancore, inesplicabile. Un giorno la sentii ridere; e il suo riso m’irritò, mi fece quasi ira.

Un altro giorno palpitai forte, udendola cantare da una stanza lontana. Cantava l’aria di Orfeo:

Che farò senza Euridice?…

Era la prima volta, dopo lungo tempo, che ella cantava così, movendosi per la casa; era la prima volta che io la riudiva, dopo lunghissimo tempo. – Perché cantava? Era dunque lieta? A quale affetto del suo animo rispondeva quell’effusione insolita? – Un turbamento inesplicabile mi vinse. Andai verso di lei senza riflettere, chiamandola per nome.

Vedendomi entrare nella sua stanza, ella si stupì; rimase per un poco attonita, in una sospensione manifesta.

– Canti? – io dissi, per dire qualche cosa, impacciato, meravigliato io stesso del mio atto straordinario.

Ella sorrise d’un sorriso incerto, non sapendo che rispondere, non sapendo quale contegno assumere davanti a me. E mi parve di leggere nei suoi occhi una curiosità penosa, già altre volte da me notata fuggevolmente: quella curiosità compassionevole con cui si guarda una persona sospettata di follia, un ossesso. Infatti, nello specchio di contro io scorsi la mia imagine; rividi il mio volto scarno, le mie occhiaie profonde, la mia bocca tumida, quell’aspetto di febricitante che avevo già da qualche mese.

– Ti vestivi per uscire? – le domandai, ancóra impacciato, quasi peritoso, non sapendo che altro dimandare, volendo evitare il silenzio.

– Sì.

Era di mattina; era di novembre. Ella stava in piedi, presso a un tavolo ornato di merletti su cui rilucevano sparse le innumerevoli minuterie moderne destinate alla cura della bellezza muliebre. Portava un abito di vigogna oscuro; e teneva ancóra in mano un pettine di tartaruga bionda con la costola d’argento. L’abito, di foggia semplicissima, secondava la svelta eleganza della persona. Un gran mazzo di crisantemi bianchi le saliva di sul tavolo all’altezza della spalla. Il sole dell’estate di San Martino scendeva per la finestra; e nella luce vagava un profumo di cipria o d’essenza che io non seppi riconoscere.

– Qual è, ora, il tuo profumo? – le domandai.

Ella rispose:

– Crab-apple.

Io soggiunsi:

– Mi piace.

Ella prese di sul tavolo una fiala e me la porse. E io la fiutai a lungo per fare qualche cosa, per avere il tempo di preparare un’altra qualunque frase. Non riuscivo a dissipare la mia confusione, a riconquistare la mia franchezza. Sentivo che ogni intimità fra noi due era caduta. Ella mi pareva un’altra donna. E intanto l’aria di Orfeo mi ondeggiava ancóra su l’anima, m’inquietava ancóra.

Che farò senza Euridice?…

In quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia feminile, il fantasma della melodia antica pareva svegliare il palpito d’una vita segreta, spandere l’ombra d’un non so che mistero.

– Com’è bella l’aria che tu cantavi dianzi! – io dissi, obbedendo all’impulso che mi veniva dalla strana inquietudine.

– Tanto bella! – ella esclamò.

E una domanda mi saliva alle labbra: «Ma perché cantavi?». La trattenni; e ricercai dentro di me la ragione di quella curiosità che mi pungeva.

Successe un intervallo di silenzio. Ella scorreva con l’unghia del pollice su i denti del pettine, producendo un leggero stridore. (Quello stridore è una particolarità chiarissima nel mio ricordo).

– Tu ti vestivi per uscire. Séguita dunque – io dissi.

– Non ho da mettermi che la giacca e il cappello. Che ora è?

– Manca un quarto alle undici.

– Ah, già così tardi?

Ella prese il cappello e il velo; e si mise a sedere davanti allo specchio. Io la guardavo. Un’altra domanda mi salì alle labbra: «Dove vai?». Ma trattenni anche questa, benché potesse sembrare naturale. E seguitai a guardarla attento.

Ella mi riapparve quale era in realtà: una giovine signora elegantissima, una dolce e nobile figura, piena di finezze fisiche, e illuminata da intense espressioni spirituali; una signora adorabile, insomma, che avrebbe potuto essere un’amante deliziosa per la carne e per lo spirito. «S’ella fosse veramente l’amante di qualcuno?» allora pensai. «Certo è impossibile ch’ella non sia stata molte volte insidiata e da molti. Troppo è noto l’abbandono in cui la lascio; troppo son noti i miei torti. S’ella avesse ceduto a qualcuno? O se anche stesse per cedere? S’ella giudicasse alfine inutile e ingiusto il sacrificio della sua giovinezza? S’ella fosse alfine stanca della lunga abnegazione? S’ella conoscesse un uomo a me superiore, un seduttore delicato e profondo che le insegnasse la curiosità del nuovo e le facesse dimenticare l’infedele? Se io avessi già perduto interamente il suo cuore, troppe volte calpestato senza pietà e senza rimorso?» Uno sgomento subitaneo m’invase; e la stretta dell’angoscia fu così forte che io pensai: «Ecco, ora le confesso il mio dubbio. La guarderò in fondo, alle pupille dicendole – Sei ancóra pura? E saprò la verità. Ella non e capace di mentire». «Non e capace di mentire. Ah, ah, ah! Una donna!… Che ne sai tu? Una donna è capace di tutto. Ricordatene. Qualche volta un gran manto eroico è servito a nascondere una mezza dozzina di amanti. Sacrificio! Abnegazione! Apparenze, parole. Chi potrà mai conoscere il vero? Giura, se puoi, su la fedeltà di tua moglie: non dico su quella d’oggi ma soltanto su quella anteriore all’episodio della malattia. Giura in perfetta fede, se puoi.» E la voce maligna (ah, Teresa Raffo, come operava il vostro veleno!), la voce perfida mi agghiacciò.

– Abbi pazienza, Tullio, – mi disse, quasi timidamente, Giuliana. – Mettimi questo spillo qui, nel velo.

Ella teneva le braccia alzate e arcuate verso la sommità della testa, per fermare il velo; e le sue dita bianche cercavano invano d’appuntarlo. La sua attitudine era piena di grazia. Le sue dita bianche mi fecero pensare: «Quanto tempo è che noi non ci stringiamo la mano! Oh le forti e calde strette di mano che ella mi dava un tempo, come per assicurarmi che non mi serbava rancore di nessuna offesa! Ora forse la sua mano è impura?». E, mentre le appuntavo il velo, provai una repulsione istantanea al pensiero della possibile impurità.

 

Ella si levò, e io l’aiutai anche a indossare la giacca. Due o tre volte i nostri occhi s’incontrarono fugacemente; ma ancóra una volta io lessi nei suoi una specie di curiosità inquieta. Ella forse domandava a sé stessa. «Perché è entrato qui? Perché si trattiene? Che significa quella sua aria smarrita? Che vuole da me? Che gli accade?»

– Permetti… un momento – disse, e uscì dalla stanza.

L’udii che chiamava Miss Edith, la governante. Come fui solo, involontariamente i miei occhi andarono alla piccola scrivania ingombra di lettere, di biglietti, di libri. M’avvicinai; e i miei occhi vagarono per un poco su le carte, come tentati di scoprire… «che cosa? forse la prova?». Ma scossi da me la tentazione bassa e sciocca. Guardai un libro che aveva una coperta di stoffa antica e tra le pagine una daghetta. Era il libro in lettura, sfogliato a metà. Era il romanzo recentissimo di Filippo Arborio, Il Segreto. Lessi sul frontespizio una dedica, di pugno dell’autore: – A voi, Giuliana Hermil, TVRRIS EBVRNEA, indegnamente offro. F. Arborio. Ognissanti ‘85.

Giuliana dunque conosceva il romanziere? Quale attitudine aveva lo spirito di Giuliana verso colui? Ed evocai la figura fine e seducente dello scrittore, quale io l’aveva veduta in luoghi publici qualche volta. Certo, egli poteva piacere a Giuliana. Secondo alcune voci che erano corse, egli piaceva alle donne. I suoi romanzi, pieni d’una psicologia complicata, talora acutissima, spesso falsa, turbavano le anime sentimentali, accendevano le fantasie inquiete, insegnavano con suprema eleganza il disdegno della vita comune. Un’agonia, La Cattolicissima, Angelica Doni, Giorgio Aliora, Il Segreto davano della vita una visione intensa come d’una vasta combustione dalle figure di bragia innumerevoli. Ciascuno dei suoi personaggi combatteva per la sua Chimera, in un duello disperato con la realtà.

«Non aveva questo straordinario artista, che i suoi libri mostravano quasi direi sublimato in essenza spirituale pura, non aveva egli esercitato il suo fascino anche su me? Non avevo io chiamato quel suo Giorgio Aliora un libro «fraterno»? Non avevo io ritrovato in qualcuna delle sue creature letterarie certe strane rassomiglianze col mio essere intimo? E se appunto questa nostra affinità strana gli agevolasse l’opera di seduzione forse intrapresa? Se Giuliana gli si abbandonasse, avendogli appunto riconosciuta qualcuna di quelle attrazioni medesime per cui io mi feci un tempo da lei adorare?» pensai, con un nuovo sgomento.

Ella rientrò nella stanza. Vedendo quel libro tra le mie mani, disse con un sorriso confuso, con un po’ di rossore:

– Che guardi?

– Conosci Filippo Arborio? – io le domandai sùbito, ma senza alcuna alterazione di voce, con il tono più calmo e più ingenuo ch’io seppi.

– Si – ella rispose, franca. – Mi fu presentato in casa Monterisi. È venuto anche qualche volta qui, ma non ha avuto occasione d’incontrarti.

Una domanda mi san alle labbra. «E perché tu non me ne hai parlato?» Ma la trattenni. Come avrebbe ella potuto parlarmene, se da molto tempo io col mio contegno aveva interrotto tra noi ogni scambio di notizie e di confidenze amichevoli?

– È assai più semplice dei suoi libri – ella soggiunse, disinvolta, mettendosi i guanti con lentezza. – Hai letto Il Segreto?

– Sì, l’ho già letto.

– T’è piaciuto?

Senza riflettere, per un bisogno istintivo di rilevare davanti a Giuliana la mia superiorità, io risposi:

– No. È mediocre.

Ed ella disse alfine:

– Io vado.

E si mosse per uscire. Io la seguii fino all’anticamera, camminando nel solco del profumo ch’ella lasciava dietro di sé fievolissimo, appena appena sensibile. Davanti al domestico, ella disse soltanto:

– A rivederci.

E con un passo leggero varcò la soglia.

Io tornai alle mie stanze. Apersi la finestra, mi affacciai per veder lei nella strada.

Ella andava, col suo passo leggero, sul marciapiede dalla parte del sole: diritta, senza mai volgere il capo da nessuna banda. L’estate di San Martino diffondeva una doratura tenuissima sul cristallo del cielo; e un tepore quieto addolciva l’aria, evocava il profumo assente delle violette. Una tristezza enorme mi piombò sopra, mi tenne abbattuto contro il davanzale; a poco a poco divenne intollerabile. Rare volte nella vita avevo sofferto come per quel dubbio che faceva crollare d’un tratto la mia fede in Giuliana, una fede durata per tanti anni; rare volte la mia anima aveva gridato così forte dietro un’illusione fuggente. Ma dunque era proprio, senza riparo, fuggita? Io non potevo, non volevo persuadermene. Tutta la mia vita d’errore era stata accompagnata dalla grande illusione, che rispondeva non pure alle esigenze del mio egoismo, ma a un mio sogno estetico di grandezza morale. «La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati, perché ella avesse occasione d’essere eroica era necessario ch’ella soffrisse quel ch’io le ho fatto soffrire.» Questo assioma con cui molte volte ero riuscito a placare i miei rimorsi, s’era profondamente radicato nel mio spirito, generandovi un fantasma ideale dalla parte migliore di me assunto in una specie di culto platonico. Io dissoluto obliquo e fiacco mi compiacevo di riconoscere nel cerchio della mia esistenza un’anima severa diritta e forte, un’anima incorruttibile; e mi compiacevo d’esserne l’oggetto amato, per sempre amato. Tutto il mio vizio, tutta la mia miseria e tutta la mia debolezza si appoggiavano a questa illusione. Io credevo che per me potesse tradursi in realtà il sogno di tutti gli uomini intellettuali: – essere costantemente infedele a una donna costantemente fedele.

«Che cerchi? Tutte le ebrezze della vita? Esci, va, inèbriati. Nella tua casa, come un’imagine velata in un santuario, la creatura taciturna e memore aspetta. La lampada, dove tu non versi mai una stilla d’olio, rimane sempre accesa.» Non è questo il sogno di tutti gli uomini intellettuali?

Anche: «In qualunque ora, dopo qualunque fortuna, ritornando, tu la ritroverai. Ella era sicura del tuo ritorno ma non ti racconterà la sua attesa. Tu poserai il capo su le sue ginocchia; ed ella ti passerà lungo le tempie l’estremità delle sue dita, per magnetizzare il tuo dolore».

Ben un tal ritorno era nel mio presentimento: il ritorno finale, dopo una di quelle catastrofi interne che trasformano un uomo. E tutte le mie disperazioni venivano temperate da un›intima confidenza nell›indefettibile rifugio; e in fondo a tutte le mie abiezioni scendeva un qualche lume dalla donna che per amore di me e per opera mia aveva raggiunto il sommo dell’altezza corrispondendo perfettamente a una forma delle mie idealità.

Bastava un dubbio a distruggere ogni cosa in un attimo?

Io riandai tutta la scena passata tra me e Giuliana, dal momento del mio ingresso nella stanza al momento della sua uscita.

Pur attribuendo gran parte dei miei moti intimi a uno speciale stato nervoso transitorio, non potei dissipare la strana impressione esattamente espressa dalle parole: «Ella mi pareva un’altra donna». Certo, una qualche novità era in lei. Ma quale? La dedica di Filippo Arborio non aveva piuttosto un significato rassicurante? Non riaffermava appunto l’impenetrabilità della TVRRIS EBVRNEA? L’appellativo glorioso era stato suggerito a colui o semplicemente dalla fama di purezza che avvolgeva il nome di Giuliana Hermil o anche da un tentativo d’assalto fallito e forse da una rinunzia all’assedio intrapreso. La Torre d’avorio doveva essere dunque ancóra intatta.

Ragionando così per medicare il morso del sospetto, io provavo in fondo a me una vaga ansietà, quasi temessi l’insorgere improvviso d’una qualche obbiezione ironica. «Tu sai: la pelle di Giuliana è straordinariamente bianca. Ella è proprio pallida come la sua camicia. L’appellativo sacro potrebbe anche nascondere un significato profano..» Ma quell’indegnamente. «Eh, eh, quanti cavilli!»

Un impeto iroso d’insofferenza interruppe quel dibattito umiliante e vano. Mi ritrassi dalla finestra, scossi le spalle, feci due o tre giri per la stanza, apersi un libro macchinalmente, lo respinsi. Ma l’ambascia non diminuiva. «Insomma», pensai fermandomi come per affrontare un avversario invisibile «tutto questo a che conduce? O ella è già caduta, e la perdita è irreparabile; o ella è in pericolo, e io nel mio stato presente non posso intervenire per salvarla; o ella è pura con la forza di serbarsi pura, e allora nulla è mutato. In ogni caso, io non ho alcuna azione da compiere. Ciò che è, è necessario; ciò che sarà, sarà necessario. Questa crisi di sofferenza passerà. Bisogna aspettare. I crisantemi bianchi sul tavolo di Giuliana, dianzi, com’erano belli! Uscirò per comprarne di simili in gran quantità. Il convegno con Teresa è oggi alle due. Mancano quasi tre ore… Non mi disse ella, l’ultima volta, che voleva trovare il caminetto acceso? Sarà il primo fuoco d’inverno, in una giornata così tiepida. Ella è in una settimana di bontà, mi pare. Se durasse! Ma io alla prima occasione provocherò Eugenio Egano.» Il mio pensiero seguì il nuovo corso, con qualche arresto repentino, con deviamenti improvvisi. Tra le stesse imagini della voluttà prossima mi balenò un’altra imagine impura, quella temuta, quella a cui volevo sfuggire. Alcune pagine ardite e ardenti della Cattolicissima mi tornarono alla memoria. E dall’uno spasimo sorgeva l’altro. E io confondevo, sebbene con una diversa sofferenza, nella medesima contaminazione le due donne e nel medesimo odio Filippo Arborio ed Eugenio Egano.

La crisi passò, lasciandomi nell’animo una specie di vaga disistima mista di rancore verso la sorella. Io mi allontanai sempre più, mi feci sempre più duro, più incurante, più chiuso. La mia trista passione per Teresa Raffo divenne sempre più esclusiva, occupò tutte le mie facoltà, non mi diede un’ora di tregua. Io era veramente un ossesso, un uomo invaso da una diabolica follia, corroso da un morbo ignoto e spaventevole. I ricordi di quell’inverno sono confusi nel mio spirito, incoerenti, interrotti da strane oscurità, rari.

In quell’inverno non incontrai mal a casa mia Filippo Arborio; poche volte lo vidi in luoghi publici. Ma una sera lo trovai in una sala d’armi; e là ci conoscemmo, fummo presentati l’uno all’altro dal maestro, scambiammo qualche parola. La luce del gas, il rimbombo del tavolato, il tintinno e il luccichio delle lame, le varie pose incomposte o eleganti degli schermitori, lo scatto rapido di tutte quelle gambe inarcate, l’esalazione calda e acre di tutti quei corpi, i gridi gutturali, le interiezioni veementi, gli scoppi di risa ricompongono con una singolare evidenza nel mio ricordo la scena che si svolgeva intorno a noi mentre eravamo l’uno al conspetto dell’altro e il maestro pronunziava i nostri nomi. Rivedo il gesto con cui Filippo Arborio si levò la maschera mostrando il viso acceso, tutto rigato di sudore. Tenendo da una mano la maschera e dall’altra il fioretto, s’inchinò. Ansava troppo, affaticato e un po’ convulso, come chi non ha la consuetudine dell’esercizio muscolare. Istintivamente, pensai ch’egli non era un uomo temibile sul terreno. Affettai anche una certa alterigia; a studio non gli rivolsi neppure una parola che si riferisse alla sua celebrità, alla mia ammirazione; mi contenni come mi sarei contenuto verso un qualunque ignoto.

– Dunque, – mi chiese il maestro sorridendo – per domani?

– Sì, alle dieci.

– Vi battete? – fece l’Arborio con una curiosità manifesta.

– Sì.

Egli esitò un poco; quindi soggiunse:

– Con chi? se non sono indiscreto.

– Con Eugenio Egano.

M’accorsi ch’egli desiderava di sapere qualche cosa di più, ma che lo tratteneva il mio contegno freddo e in apparenza disattento.

– Maestro, un assalto di cinque minuti – io dissi, e mi volsi per andare nello spogliatoio. Giunto su la soglia, mi soffermai a guardare indietro e scorsi l’Arborio che aveva ripreso a schermire. Un’occhiata mi bastò per conoscere ch’egli era mediocrissimo in quel giuoco.

Quando incominciai l’assalto col maestro, sotto gli occhi di tutti i presenti, s’impadronì di me una particolare eccitazione nervosa che raddoppiò la mia energia. E sentivo su la mia persona lo sguardo fisso di Filippo Arborio.

Dopo, nello spogliatoio, ci ritrovammo. La stanza troppo bassa era già piena di fumo e d’un odore umano acutissimo, nauseante. Tutti là dentro, nudi, nelle larghe cappe bianche, si strofinavano il petto, le braccia, le spalle, con lentezza, fumando, motteggiando ad alta voce, dando sfogo nel turpiloquio alla loro bestialità. Gli scrosci della doccia si alternavano con le grasse risa. E due o tre volte, con un indefinibile senso di repulsione, con un sussulto simile a quello che mi avrebbe dato un violento urto fisico, io intravidi il corpo smilzo dell’Arborio, a cui i miei occhi andavano involontariamente. E di nuovo l’imagine odiosa si formò.

 

Non ebbi, dopo d’allora, altra occasione d’avvicinare colui e neppure d’incontrarlo. Né me ne curai. Né in seguito fui colpito da alcuna apparenza sospetta nella condotta di Giuliana. Di là dal cerchio sempre più angusto in cui mi agitavo, nulla era per me chiaramente sensibile, intelligibile. Tutte le impressioni estranee passavano sul mio spirito come gocciole d’acqua su una lastra arroventata, o rimbalzando o dissolvendosi.

Gli eventi precipitarono. Su lo scorcio di febbraio, dopo un’ultima e vergognosa prova, avvenne tra me e Teresa Raffo la rottura definitiva. Io partii per Venezia, solo.

Rimasi là circa un mese, in uno stato di malessere incomprensibile; in una specie di stupefazione che le caligini e i silenzii della laguna addensavano. Non altro conservavo in me che il sentimento della mia esistenza isolata, tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo che la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un’arteria nella mia testa. Per lunghe ore mi teneva quel fascino strano che esercita su l’anima come su i sensi il passaggio continuo e monotono di qualche cosa indistinta. Piovigginava. Le nebbie su l’acqua prendevano talvolta forme lugubri, camminando come spettri con un passo lento e solenne. Spesso nella gondola, come in una bara, io trovavo una specie di morte imaginaria. Quando il rematore mi chiedeva in che luogo dovesse condurmi, io facevo quasi sempre un gesto vago; e comprendevo dentro di me la disperata sincerità delle parole: «Dovunque, fuori del mondo!».

Tornai a Roma negli ultimi giorni di marzo. Avevo della realtà un senso nuovo, come dopo una lunga eclisse della conscienza. Una timidezza, uno smarrimento, una paura senza ragione mi prendevano talvolta all’improvviso; e mi sentivo debole come un fanciullo. Guardavo intorno a me di continuo, con un’attenzione insolita, per riafferrare il significato vero delle cose, per coglierne i giusti rapporti, per rendermi conto di ciò che era mutato, di ciò che era scomparso. E, come a poco a poco rientravo nell’esistenza comune, si ristabiliva nel mio spirito l’equilibrio, si ridestava qualche speranza, risorgeva la cura dell’avvenire.

Trovai Giuliana molto abbattuta di forze, alterata nella salute, triste come non mai. Poco parlammo e senza guardarci dentro alle pupille, senza aprire i nostri cuori. Ambedue cercavamo la compagnia delle due bambine; e Maria e Natalia in una felice inconsapevolezza riempivano i silenzii con le loro fresche voci. Un giorno Maria domandò:

– Mamma, andremo quest’anno, per Pasqua, alla Badiola?

Io risposi, invece della madre, senza esitare:

– Sì, andremo.

Allora Maria si mise a saltare per la stanza, in segno di gioia, trascinando la sorella. Io guardai Giuliana.

– Vuoi che andiamo? – le chiesi, timido, quasi con umiltà.

Ella consentì col capo.

– Vedo che tu non stai bene – soggiunsi. – Anche io non sto bene… Forse la campagna… la primavera…

Ella era distesa in una poltrona, tenendo le mani bianche posate lungo i bracciuoli; e la sua attitudine mi ricordò un’altra attitudine: quella della convalescente nel mattino della levata ma dopo l’annunzio.

Fu decisa la partenza. Ci preparammo. Una speranza luceva nel profondo della mia anima, e io non osavo mirarla.