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Il Quadriregio

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CAPITOLO IX

Nel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori.

 
        Io ascoltava ancor con gran piacere,
        quando su si levò quella virago
        per far le cose a me meglio vedere,
 
 
        perché s'avvide ben ch'io era vago
    5 voler saper dell'altre cose belle,
        le qual con questo stil ora ritrago.
 
 
        Surson dirieto a lei le sue donzelle,
        ognuna in capo con una corona
        splendente piú ch'a mezzanotte stelle.
 
 
   10 Ad uno invito di bella canzona,
        la qual dicía: – Venite qui su ad erto, —
        salimmo al nobil monte d'Elicona.
 
 
        Quand'io andava, vidi il ciel aperto
        ed un gran lume al monte ingiú disceso,
   15 tanto ch'egli ne fu tutto coperto.
 
 
        E tanto piú e piú pareva acceso,
        quanto piú io mirava inver' la cima,
        insino al luogo, ov'egli era disteso.
 
 
        Li saggi e li poeti ditti prima
   20 s'acceson di quel lume, ed ognun tanto,
        quanto piú o men nel saper fu di stima.
 
 
        Le muse vidi allor a lungi alquanto
        venir ver' noi; ed ognuna di loro
        due rettorici avea appresso e accanto,
 
 
   25 incoronati dello verde alloro
        tutto splendente; ed avean tutti quanti
        ancora in capo altra corona d'oro.
 
 
        – Virgilio e Tullio son quei duo dinanti
        – cominciò a dire a me la dea Prudenza: —
   30 quelli duo fênno i piú soavi canti.
 
 
        Inseme Roma e la sua gran potenza
        venne in Augusto all'altura suprema,
        ed in costor lo stil dell'eloquenza.
 
 
        E quanto alcun s'appressa al lor poema,
   35 tanto è perfetto; e quanto va da cesso,
        tanto nel dir il bel parlar si scema.
 
 
        Omero è l'altro, che vien loro appresso,
        il qual ad ogni dir giá detto in greco
        andò di sopra e vinse per eccesso.
 
 
   40 E, come ogni splendor oscuro e cieco
        si fa, quando è presente un maggior lume,
        cosí ogni altro dir, ponendol seco.
 
 
        Quell'altro è quel che fece il bel volume,
        Tito Livio dico, il quale spande
   45 dell'arte d'eloquenzia sí gran fiume.
 
 
        Il quinto, in cui risplendon le grillande,
        è l'alta tuba dotta di Lucano
        con valoroso dire adorno e grande.
 
 
        Egli si lagna che 'l sangue romano
   50 fu sparso per li campi di Farsaglia,
        sí che vermiglio fe' tutto quel piano;
 
 
        e raccontò della civil battaglia
        di Cesar e Pompeo e lor grand'onte
        coll'alto dir, che come spada taglia.
 
 
   55 Ovidio è l'altro, e 'l gorgoneo fonte
        gli die' nel poetar lingua sí presta
        e nelli metri sí parole pronte,
 
 
        che ha maggior grillanda in su la testa
        che gli altri qui, ma non però sí chiara,
   60 sí come agli occhi ben si manifesta;
 
 
        e canta quanto è dolce e quanto è amara
        la fiamma di Cupido, e ch'al suo foco
        né senno, né altro scudo si ripara.
 
 
        Stazio napolitan tien l'altro loco;
   65 Orazio è l'altro e poscia Giovenale;
        Terenzio e Persio vengon dietro un poco. —
 
 
        Il pegaseo cavallo con doppie ale
        io vidi poscia, e mille lingue ed occhi
        aveva intra le penne, con che sale.
 
 
   70 Avea pennuti i piedi e li ginocchi;
        e tanto sal, che non è mai che Iove
        cosí da alto le saette scocchi.
 
 
        E vidi poscia come ben si move,
        volando fuor del fonte pegaseo,
   75 ov'io pervenni e vidi cose nòve.
 
 
        Demostene trovai ed anche Orfeo,
        che sí soave giá sonò sua cetra,
        con lo influir di Nisa e di Lieo,
 
 
        che moveva i gran sassi ed ogni pietra,
   80 e con la melodia della sua voce
        scese in inferno in quella valle tetra;
 
 
        Pluton, senza piatá crudo e feroce,
        mosse a piatá, e l'anime de' morti
        fece scordar del foco, che le coce;
 
 
   85 facea tornar a drieto i fiumi torti;
        alfin ne trasse fuor la sua mogliera,
        col suon facendo a lei li passi scorti.
 
 
        Prudenzia, tra cotanta primavera,
        salir mi fe' nel gran monte Parnaso,
   90 dove la scòla filosofica era.
 
 
        Infino a piè del colle, a raso a raso,
        splendeva il lume grande di quel sole,
        che mai ebbe orto e mai averá occaso.
 
 
        Mentr'io sguardava a quelle grandi scole,
   95 un poníe mente a me coll'occhio fiso,
        come chi ben cognoscer altrui vuole;
 
 
        e poi la bocca mosse un poco a riso,
        che fu cagion che lo splendor s'accese
        ed illustrògli piú la faccia e 'l viso.
 
 
  100 Allor Prudenza a me la man distese
        dicendo: – Va', quello è mastro Gentile
        del loco onde tu se', del tuo paese.
 
 
        La sperienza e lo 'ngegno sottile,
        ch'ebbe nell'arte della medicina,
  105 e ciò che egli scrisse in bello stile,
 
 
        demostra questa luce e sua dottrina. —
        Allor mi mossi ed andai verso lui,
        quando mi disse: – Va' – quella regina.
 
 
        – O patriota mio, splendor, per cui
  110 e gloria e fama acquista el mio Folegno
        – diss'io a lui, quando appresso gli fui —
 
 
        qual grazia o qual destin m'ha fatto degno,
        che io te veggia? Oh, quanto mi diletta
        ch'io t'ho trovato in cosí nobil regno! —
 
 
  115 Come fa alcun che ritornare affretta,
        che tronca l'altrui dire e lo suo spaccia,
        cosí fec'egli alla parola detta,
 
 
        e 'l collo poi mi strinse colle braccia,
        dicendo: – S'io son lieto ch'io ti veggio,
  120 el mostra il lampeggiar della mia faccia.
 
 
        E son venuto dal celeste seggio
        qui per vederti ed anche a demostrarte
        della filosofia l'alto colleggio.
 
 
        Colui, che vedi in la suprema parte,
  125 è Aristotel, l'agnol di natura:
        egli è che aperse la scienzia e l'arte,
 
 
        tanto che chi al ver vuol poner cura,
        nullo, in quanto uomo, pescò tanto al fondo,
        quanto fec'egli, e volò sí in altura.
 
 
  130 Alberto Magno è dopo lui 'l secondo:
        egli supplí li membri e 'l vestimento
        alla filosofia in questo mondo.
 
 
        Il gran Platone è l'altro, che sta attento,
        mirando al cielo, e sta a lui a lato
  135 Averois, che fece il gran comento.
 
 
        Socrate poscia tiene il principato,
        dottor nella moral filosofia;
        e Seneca è con lui accompagnato.
 
 
        Pitagora, che 'l conto trovò pria,
  140 è l'altro; poi Parmenide e Zenone
        e quel che pone che 'l gran caos sia.
 
 
        Sguarda Avicenna mio con tre corone,
        ch'egli fu prence e di scienza pieno
        ed util tanto all'umane persone.
 
 
  145 Ipocrate è con lui e Galieno
        e gli altri, per cui 'l corpo si defende,
        che innanzi al tempo suo non venga meno.
 
 
        Questo splendor, che questo monte accende,
        da Dio deriva e 'nsin quaggiú procede,
  150 e negli angeli suoi prima risplende,
 
 
        e poi nelli dottor di santa fede.
        E sappi ben che ciò che 'l ciel su cela,
        nullo intelletto, in quanto umano, el vede,
 
 
        se Dio con maggior lume nol rivela;
  155 e questo lume qui, rispetto a quello,
        è tanto, quanto al sol parva candela. —
 
 
        Poi su pel raggio, ov'è piú chiaro e bello,
        egli n'andò colle celesti penne,
        volando inverso il ciel sí come uccello;
 
 
160 e retornò al loco, onde pria venne.
 

CAPITOLO X

Delle specie ovvero delle parti della prudenza.

 
        Dietro al mio cittadino avea lo sguardo,
        quando Prudenzia disse: – Ormai ti volta
        a veder l'altre cose, e non sie tardo. —
 
 
        Come scolaio che 'l suo mastro ascolta,
    5 io stetti attento e piegai le mie braccia,
        mirando lei con riverenzia molta.
 
 
        Ed ella a me: – Io voglio che tu saccia
        che lo mio offizio è quadripartito,
        ché a quattro fin dirizzo la mia faccia;
 
 
   10 ché la prudenza, di cui hai udito,
        fatta è da Dio che guidi e signoregge,
        sí come imperator bene obbedito.
 
 
        Però il prudente pria se stesso regge;
        ché, se alcun non guida ben se stesso,
   15 mal reggerá la sua subietta gregge.
 
 
        E, come il Genesis ne dice espresso,
        l'appetito lascivo all'uom subiace,
        sí come servo a signor sottomesso.
 
 
        Il fin di questo è ch'alla somma pace
   20 gli occhi dirizza ed attura l'orecchia
        alle lusinghe del mondo fallace.
 
 
        E nell'ultimo fin sempre si specchia,
        io dico in Dio, ed anco indietro sguarda
        al tempo che trasvola e sempre invecchia.
 
 
   25 L'altra prudenza, presta e non mai tarda,
        icomica si chiama, c'ha 'l governo
        della famiglia e la sua casa guarda.
 
 
        Questa provvede l'arriedo paterno
        alli figliuoli, il vestimento e l'ésca,
   30 ed alli campi per la state e 'l verno.
 
 
        Il fin di questa è che in divizie cresca
        e ch'abbia prole buona e siagli erede,
        e che del mondo alfin con onor esca.
 
 
        Terza prudenza a guerra move 'l piede,
   35 chiamata di milizia triunfale,
        la qual al mondo pria Marte gli diede;
 
 
        ché la prudenza, in quel ch'è duca, vale
        piú che la forza e fa vie maggior guerra,
        che non fa 'l caldo giovanil ch'assale.
 
 
   40 Gran moltitudin spesse volte atterra
        un ben picciolo stuolo; e questo avviene,
        quando nell'arte militar non s'erra.
 
 
        Il fin di questo, se tu noti bene,
        è la vittoria e pace; e sol per questo
   45 guerra si piglia ed anco si mantene.
 
 
        L'altra, sí come hai letto in alcun testo,
        politica si chiama e regnativa;
        e, perché bene a te sia manifesto,
 
 
        in prima sappi che ogni cosa viva
   50 ed anche ciò che non ha vita, è retto
        dalla prima cagione, onde deriva.
 
 
        E questa è primo e supremo intelletto
        e prima provvidenza, e questa ha 'n cura
        e drizza verso il fine ogni suo effetto.
 
 
   55 Séguita poi l'angelica natura,
        la qual dispon, voltando sopra il cielo,
        ciò che in spezie in sempiterno dura.
 
 
        Onde, che l'ape faccia il favomelo
        e che del gran provvegga la formica
   60 tutta la state pel tempo del gelo,
 
 
        el fa l'intelligenza, che 'i notríca;
        e ciò che senza mezzo da lei piove,
        non rinnovella etá, o fálla antica.
 
 
        Ma ogni effetto, che con mezzo move,
   65 benché influisca, movendo sua spera,
        conven che 'nvecchi e l'altro si rinnove.
 
 
        E, quando è discordante la matera
        dall'influenza, non pò l'operante
        dar la sua forma tutta quanta intera:
 
 
   70 però le cose non son tutte quante
        d'una perfezione: però 'l naso
        alcuno ha meno e 'l dito, e alcun le piante.
 
 
        Non è però ch'ella erri o faccia a caso;
        ma fa come il vasaio, a cui mancasse
   75 la terra, che non fa perfetto il vaso.
 
 
        Seguitan poi le signorie piú basse
        delli reami dell'umane genti,
        subiette al tempo, che convien che passe;
 
 
        ciò che avvien per casi contingenti,
   80 ciò che puote arte ovver umano ingegno,
        non però che da Dio sien mai esenti,
 
 
        commessi sono a vostro umano regno;
        e quanto lo 'ntelletto è acuto e saggio,
        tanto a signoreggiarli è atto e degno,
 
 
   85 perché prudenzia, sí come detto aggio,
        del reggimento è la prima radice,
        quando si guida dietro al primo raggio.
 
 
        Perciò un disse il mondo esser felice,
        quando a lui guidaranno i saggi il freno
   90 e Sapienza aran per lor nutrice. —
 
 
        Per satisfarmi poi del tutto appieno,
        mi disse: – Sguarda omai e drizza il viso
        alle donzelle, che a lato mi meno.
 
 
        Questa, che dalla lunga mira fiso
   95 il futur tempo, è detta Provvidenza,
        che bon tesor ripone in paradiso.
 
 
        E l'altra è la Presente Intelligenza;
        l'altra è Memoria ovver esperta mente,
        che del passato tempo ha esperienza.
 
 
  100 E queste tre faríen poco o niente,
        se non che ognuna parturisce e figlia
        altre Vertú, che fanno esser prudente.
 
 
        Però la quarta è Vertú che consiglia,
        la qual la Provvidenza mena seco,
  105 che senza consigliar sempre mal piglia;
 
 
        ché, come senza guida cade il cieco,
        cosí conven che l'uom, andando, tome
        senza consiglio e ch'erri come pieco.
 
 
        Solerzia la quinta ha poscia nome,
  110 cioè sollicitu' ingegnosa ed arte:
        quest'è che trova il fine, il perché e 'l come;
 
 
        ch'ogni voler, che da casa si parte
        per voler camminar agli alti fini
        di Iove ovver d'Apollo ovver di Marte,
 
 
  115 convien che sia ingegnoso e che festin
        e che la possa e che li modi trovi
        che al proposto fin ben si cammini.
 
 
        Alquanto ancora addietro gli occhi movi
        alla vertú che Provvidenza è detta,
  120 acciò ch'anco di lei udir ti giovi.
 
 
        Convien ch'ella sia cauta e circumspetta;
        e però è Cautela l'altra luce,
        la qual provvede al mal che si suspetta;
 
 
        ché non è saggio ovver prudente duce
  125 chi spregia il suo nemico o chi nol teme,
        ché timor senno e prudenza produce.
 
 
        L'altra donzella, che con lei sta inseme,
        è qui chiamata Circumspezione,
        d'Intelligenzia ancor secondo seme.
 
 
  130 Ella è che gli atti e la condizione
        e 'l quanto e 'l come, mesurando, attende
        e li subiti casi e le persone.
 
 
        Docilitá è l'altra che risplende,
        cosí chiamata, ovver ingegno buono,
  135 se d'uso e di scienza ben s'accende.
 
 
        Vero è che ingegno è un natural dono;
        ma, quando l'uso e l'arte questa cetra
        temperan sí, che ha perfetto suono,
 
 
        Docilitá si chiama, che penètra
  140 sí nel veder, che sa pigliar lo scudo,
        'nanzi che in capo gli giunga la pietra.
 
 
        Alcun lo 'ngegno ha tanto grosso e rudo,
        che la scienza s'affatica invano
        che mai a provvedersi egli abbia cudo.
 
 
  145 Benché in alcun sia l'intelletto umano
        e grosso e rozzo, si fa luminoso,
        quand'egli stesso vi vuol tener mano;
 
 
        ché un, che 'l cielo facea vizioso,
        respuse: – La scienza mi fe' casto,
  150 e l'assiduitá mi fe' ingegnoso. —
 
 
        E spesso vidi giá esser contrasto
        tra 'l sasso e l'acqua, e una goccia sola,
        cadendo spesso, l'ha forato e guasto. —
 
 
        La man mi prese dopo esta parola,
  155 dicendo: – Addio, addio, dolce figliolo;
        ch'io vo' tornar a mia beata scòla. —
 
 
        Partissi allor con quel beato stuolo,
        ed io piú ad alto presi la mia via;
        e forse un sesto miglio era ito solo,
 
 
160 quando m'occorse un'altra compagnia.
 

CAPITOLO XI

Della virtú della giustizia, e come e perché furono trovate le leggi.

 
 
        La nobil compagnia, ch'io trova' allora,
        fu quella vergin sacra, con cui 'l sole
        a mezzo agosto e settembre dimora,
 
 
        non giá d'Astreo, ma di divina prole.
    5 Quand'ella percepette ch'io la vidi,
        benignamente disse este parole:
 
 
        – Con qual ardir quassú venir ti fidi?
        come, cosí soletto, movi il passo?
        or non hai tu persona che ti guidi?
 
 
   10 Se tu venuto se' dal mondo basso,
        qual fu quella Virtú, la qual ti scòrse
        tra' regni tristi del re Satanasso? —
 
 
        Ed io a lei: – Minerva mi soccorse,
        quando per mio errore era ito al fondo,
   15 onde a cavarmi la sua man mi porse.
 
 
        Mostrato m'ha lo inferno, il limbo e 'l mondo
        e delli vizi li reami crudi;
        poi mi condusse nel giardin giocondo,
 
 
        ove veduto ho io le tre Vertudi;
   20 e tutte insieme con festa e diletto
        menato m'han tra nobili tripudi.
 
 
        Cercando or vo colei, da cui fu retto
        sí in pace il mondo, che sub suo governo
        fu l'etá d'oro e 'l secol benedetto.
 
 
   25 – Poi ch'Avarizia uscío fuor dell'inferno,
        a cui la voglia mai saziò pasto,
        né poterá saziar mai in eterno,
 
 
        quel reggimento buon fu tutto guasto,
        perché la forza vinse la ragione
   30 e conculcolla con superbia e fasto.
 
 
        Allor li Vizi preson le corone
        delli reami, e leggi inique e rie
        teson per lacci e levôn via le buone.
 
 
        Per questo Astrea dal mondo si partíe
   35 e quassú venne; ed ha la signoria
        coll'altre tre sorelle oneste e pie.
 
 
        – Perché tu fossi omai la scorta mia,
        che io venissi sol – dissi – a Dio piacque;
        però io prego: mostra a me la via. —
 
 
   40 Qual si fe' Citarea, nata tra l'acque,
        in sul partir del suo figliuolo Enea,
        che confessò nel viso ciò che tacque,
 
 
        cotal fece ella e disse: – Io sono Astrea,
        che resse il mondo con iuste bilance,
   45 innanzi che la gente fusse rea.
 
 
        Quando Superbia colle enfiate guance
        e li danar fên la ragion subietta,
        scacciata fui con spade e con lance.
 
 
        Da che il mio regno veder ti diletta,
   50 verraimi dietro; e fa' che mai in fallo
        dall'orme mie il piede tu non metta. —
 
 
        Un sesto miglio forse d'intervallo
        era ita, quand'io giunsi al regno quarto,
        ch'avea le mura tutte di cristallo.
 
 
   55 Lí era un uscio piccoletto ed arto,
        il qual tantosto a noi aperto fue,
        quando gittaimi in terra tutto sparto.
 
 
        Intrammo dentro e poco andammo insue,
        che le sue dame con corone in testa
   60 vennono incontro a noi a due a due.
 
 
        Poiché gran riverenzia e molta festa
        ebbon mostrata, stette innanzi ognuna
        come alla donna ancilla a servir presta.
 
 
        E, come il cerchio che a sé fa la luna,
   65 quando dimostra che 'l seguente giorno
        sará seren, cacciando l'aria bruna:
 
 
        cosí facean a lei il cerchio intorno,
        cosí di sé una corona fenno alla Iustizia,
        che fa lí soggiorno.
 
 
   70 E, poco stando, ed ella fece cenno
        ad una che dicesse alcuna stanza;
        e l'altre tutte quante attente stenno.
 
 
        Come donzella che ha a guidar la danza,
        che a chi l'invita riverenzia face
   75 e po' incomincia vergognosa e manza;
 
 
        cosí colei, e disse: – Da che piace
        alla nostra signora che le lode
        dica del regno che a lei subiace,
 
 
        tu, che se' vivo, ben ascolta ed ode,
   80 ché la regina, la qual qui ne regge,
        vuol che a noi giovi e a te faccia prode.
 
 
        – La voglia e la ragion del sommo Regge
        – cominciò poi – è la prima mesura,
        regola e veritá è prima legge.
 
 
   85 E ciò, che segue lei, va a dirittura;
        e, quando alcuna cosa da lei parte,
        tanto convien che torca e vada oscura.
 
 
        E, perché questa è regola ad ogni arte,
        quando dall'arte torce l'operante,
   90 convien che l'opra vada in mala parte.
 
 
        E le scienze e leggi tutte quante
        vengon da questa; e tanto ognuna è dritta,
        quanto di questa seguitan le piante,
 
 
        perché ogni legge convien che sia scritta
   95 e promulgata, acciò che chi 'n quella erra,
        non possa avere alcuna scusa fitta.
 
 
        Però, quando Dio fe' l'uomo di terra,
        conscrisse in lui questa legge eternale,
        quando l'alma spirò, che 'l corpo serra.
 
 
  100 E questa fu la legge naturale;
        e, mediante questa luce eterna,
        ognun conoscer può tra 'l bene e 'l male.
 
 
        A questa legge fu poi subalterna
        l'antica e nova; ed ognuna bastâra,
  105 se non che 'l mondo sí mal si governa.
 
 
        E, poiché fu la gente fatta avara,
        la legge natural e la divina
        fu ecclipsata, che in prima era chiara.
 
 
        Corson le genti a froda ed a rapina;
  110 ed eran senza legge e senza duce,
        ond'era il mondo in rotta ed in ruina.
 
 
        Ed uno, in cui splendea piú questa luce,
        congregò alcuno e mostrò in quanto errore
        il vivere bestial altrui conduce.
 
 
  115 A poco a poco, con questo splendore
        mostrò che i rei e viziosi e vili
        di legge avean bisogno e di signore.
 
 
        Allor principiôn leggi civili,
        sopra le qual son tante chiose poste,
  120 che giá si troncan: sí si fan sottili.
 
 
        E le piú sonno storte e sonno opposte
        al senso vero e primo intendimento,
        mercé alli denar che l'hanno esposte.
 
 
        Se a ciò, che ho detto, ben se' stato attento,
  125 iustizia è sí degna e sí risplende,
        che d'ogni sodo stato è 'l fundamento,
 
 
        tanto che li ladroni e chi l'offende
        e nullo conversar mai durar puote,
        se modo di iustizia non apprende.
 
 
  130 Se anche ciò, ch'io ho detto, tu ben note,
        Iustizia fu da cielo e di Dio è figlia,
        ed ogni bona legge a Dio è nipote. —
 
 
        E qui tacette; ed io alzai le ciglia
        e vidi molti inver' di noi venire
  135 uomin d'estima e di gran maraviglia.
 
 
        Ed un di loro a me cominciò a dire:
        – Or cesserá laggiú il mondo unquanco
        novi statuti e nòve leggi ordire?
 
 
        Non son venute ancor le carte manco?
  140 non son le voci advocatorie fioche
        delli notai, ch'abbaian forte al banco?
 
 
        Se 'l danar non facesse che si advoche,
        non saría in terra conculcato il vero,
        e bastarían le leggi buone e poche.
 
 
  145 Io son quel re piatoso, e fui severo,
        che la dolcezza temperai col duolo
        nel nato mio, che trova' in adultèro.
 
 
        Io fei cavar un occhio al mio figliolo:
        e, perché ne dovea perdere dui,
  150 io pagai l'altro e serbaimene un solo.
 
 
        In quanto padre, fui piatoso a lui;
        in quanto re, servai la legge intera:
        sí che pio padre e iusto re io fui.
 
 
        Quest'altro è Bruto, l'anima severa,
  155 che, per servar la legge, ardito e forte
        a duo suoi figli segò la gorgiera.
 
 
        Piú tosto volle ad elli dar la morte,
        che la iustizia fusse morta in loro,
        o che mancasse alla pubblica corte.
 
 
  160 L'altro, ch'è 'l terzo qui tra 'l nostro coro,
        chiese il figliolo alla mortal sentenza
        'nanti al senato e al roman concistoro;
 
 
        ché combattuto avea senza licenza,
        e, benché avesse avuta la vittoria,
  165 reo el provò di tanta penitenza,
 
 
che legge contra lui facíe memoria. —