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Il Quadriregio

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CAPITOLO III

Della vertú della temperanza e sue laudi.

 
        Perché l'intrare a me fusse concesso
        nel bel reame della Temperanza,
        mi feci a quella porta alquanto appresso.
 
 
        E, poiché fui in debita distanza,
    5 mi postrai 'n terra, dicendo: – Peccavi, —
        sí come per intrare lí è usanza.
 
 
        Ed allora una donna con due chiavi
        aprío la porta, e poi la mia persona
        levò di terra con parol soavi.
 
 
   10 – Questa gran donna, che l'intrata dona,
        è quella, senza cui – mi disse Elia —
        né Dio né uomo al peccator perdona.
 
 
        Ella è che al ciel t'insegnerá la via:
        dietro alli passi suoi ti guida omai;
   15 con lei noi ti lasciamo in compagnia. —
 
 
        Quei patriarchi pria ringraziai;
        poscia mi volsi alla scorta novella
        e ch'ella mi guidasse io la pregai.
 
 
        Dentro alla porta intrai insiem con ella;
   20 e, poiché dentro fummo ed ella ed io,
        allor mi fece don di sua favella.
 
 
        – Se saper – disse – vuoi il nome mio,
        io sono l'Umiltá, il primo grado
        d'ogni virtú, che vuol salir a Dio.
 
 
   25 Come Superbia è prima in ogni lado,
        ardita a romper la legge divina,
        cosí alle vertú io 'nanti vado.
 
 
        Chi senza me su per andar cammina,
        ritorna addietro intra li luoghi bassi
   30 e non s'accorge quando egli rovina.
 
 
        – Io prego, o donna, che tu non mi lassi
        – a lei risposi riverente e piano, —
        ché sempre seguirò dietro a' tuoi passi. —
 
 
        Benignamente a me porse la mano;
   35 e, poiché 'n alto luogo giunto fui,
        che d'ogni amenitá era sovrano,
 
 
        la Temperanza con belli atti sui
        io trovai quivi e con tanta maiésta,
        quant'hanno i santi, dov'è il dolce frui.
 
 
   40 Se ogni cosa è bella in quanto onesta,
        e tutta l'onestá da lei procede,
        quindi si sa quanto era bella questa.
 
 
        Ella stava a sedere in una sede.
        La nova scorta appresso a lei si pose,
   45 non però in alto, ma giú basso al piede.
 
 
        E sette donne, adorne come spose,
        stavan con lei, e d'oro le corone
        aveano in testa e di fiori e di rose.
 
 
        E una un orso e l'altra avea un leone,
   50 legato ed ammansito con un freno;
        la terza similmente un gran dragone.
 
 
        E come fa 'l cagnol che dorme in seno,
        cosí le fère si stavan con loro
        ed anche il drago senza alcun veneno.
 
 
   55 Intorno intorno a tanto concistoro
        eran tranquilli giuochi e dolce canto
        di diverse persone a coro a coro.
 
 
        Perché da loro er'io distante alquanto,
        cenno fatto mi fu che m'appressasse
   60 alla regina del collegio santo.
 
 
        Io m'appressai e le ginocchia lasse
        in terra posi, ed ella anco fe' segno
        che confidentemente a lei parlasse.
 
 
        – Alta regina, a questo loco vegno
   65 – diss'io a lei – dal mondo con fatiga,
        per contemplar di te e del tuo regno.
 
 
        Minerva fu a me primiera auriga;
        ella è che m'ha scampato e sú condotto
        per mezzo delli vizi e di lor briga.
 
 
   70 E ch'io venisse a te mi fece dotto,
        che m'insegnassi questo tuo reame
        e delle tue donzelle tutte e otto.
 
 
        – Dacché di me sapere hai sí gran brame,
        – rispose quella, – ascolta, e dirò pria
   75 del mio uffizio e poi dell'otto dame.
 
 
        Dio fatto ha l'uomo per sua cortesia
        e posto in mezzo lui tra 'l bene e 'l male,
        ché lá e qua ei combattuto sia.
 
 
        E diede a lui la parte sensuale,
   80 la qual al male impetuosa corre
        come sfrenato e indomito animale.
 
 
        E però Dio mi volle con lui porre,
        ché 'nverso il mal egli precipitára,
        se con miei freni a lui non si soccorre.
 
 
   85 Per farti ben la mia risposta chiara,
        com'egli verso il mal si move ratto,
        cosí va tardo alla parte contrara;
 
 
        ché, come infermo debil e disfatto,
        si move col disio inverso il bene,
   90 se con forti speroni ei non è tratto.
 
 
        Perciò altra virtú esser conviene
        cioè Fortezza, e questa i sproni mova,
        quando uom come infingardo si ritiene.
 
 
        Ella è che fa che l'uom, il qual si trova
   95 nella battaglia, vince e non s'ammorza,
        sí come il cavalier di buona prova,
 
 
        o come il buon nocchier, che allor si sforza
        che ha la gran tempesta in mezzo all'onda,
        quando el combatte da poppa e da orza.
 
 
  100 Ed io 'l mantengo, quando va a seconda,
        ché 'l fo attento che 'l timon non lassa,
        senza lo qual la nave si profonda,
 
 
        e che non dia de' calci a chi lo 'ngrassa;
        e, quando esalta la fortuna destra,
  105 io fo che tiene il freno e che si abbassa.
 
 
        Cosí armato a dritta ed a sinestra,
        da un de' lati Fortezza el defende,
        dall'altro lato son io sua maestra.
 
 
        Donna è che con mill'occhi su risplende,
  110 che 'l guida dietro e innanti, e 'l fine sguarda,
        tanto che chi lo segue non l'offende.
 
 
        Piú suso sta dell'uom la quarta guarda,
        Astrea dico, che resse la gente
        'nanti che fosse fallace e bugiarda.
 
 
  115 Alle otto dame omai tu porrai mente;
        dirò de' loro uffizi, se m'ascolti,
        che reggono il reame qui presente.
 
 
        In prima sappi che impeti molti
        son rei nell'uomo contra bona legge;
  120 ma tre son li peggiori e li piú stolti.
 
 
        Il primo è l'ira in cui governa e regge;
        e questa fa il cor di pietá nudo
        contra li suoi subietti e la sua gregge.
 
 
        Clemenza è detta ovver Mansuetudo
  125 la prima dama, che dalle radici
        stirpa l'ira del core troppo crudo.
 
 
        E, secondo duo nomi, ell'ha duo uffici:
        l'uno è che li superbi e troppo altèri
        inchina a' servi, quasi a dolci amici;
 
 
  130 l'altro è che quei, che son crudeli e fèri
        e c'hanno alla vendetta accesi i cori,
        li fa al perdonar dolci e leggeri.
 
 
        Però è detta donna de' signori,
        ché li reami e Stati senza lei
  135 non saríen signorie, ma gran furori.
 
 
        Ed anco è detta sposa delli dèi,
        che son propizi e non corron mai tosto,
        ma tardi alla vendetta contr'a' rei.
 
 
        Ell'è che esser fe' Cesare Agosto
  140 contra 'l nemico suo giá mansueto,
        il qual a tradir lui s'era disposto.
 
 
        Ed egli el chiamò seco nel secreto
        dentro alla cambra sua cogli usci chiusi,
        ove gli disse con parlar quieto:
 
 
  145 – Non è bisogno, amico, che ti scusi,
        ch'è manifesto e non ne puoi far niego
        del tradimento, che contra me usi.
 
 
        Ma una cosa a te chiedendo prego,
        che della tua amistá mi facci dono;
  150 ed io similemente a te mi lego.
 
 
        E ciò c'hai detto o fatto ti perdono. —
        E, per piú fede, a lui la destra porse:
        cosí 'l fe' amico a sé verace e buono.
 
 
        Questa è, che fe' ch'Alessandro soccorse
  155 con gran benignitá al suo vassallo,
        quando del suo bisogno egli s'accorse,
 
 
        e desmontò de su del suo cavallo,
        e del suo manto le membra gli avvolse,
        ché uopo non avea d'altro metallo.
 
 
  160 Traian l'insegne al suo gran carro folse
        solo alla voce d'una vedovetta,
        al cui parlar mansueto si volse,
 
 
        dicendo: – Imperador, fammi vendetta,
        ché 'l tuo figliolo il mio figliol m'ha tolto,
  165 ond'io a lamentarmi son costretta. —
 
 
        Ed ei rispose con benigno volto:
        – Il mio figliolo, o donna che ti lagni,
        ti dono in cambio di quel c'hai sepolto. —
 
 
        Cesare primo, il maggior tra li magni,
  170 li suo' famigli ovver li suoi subietti
        non li chiamava «servi», ma «compagni»,
 
 
facendo a loro onore in fatti e in detti. —
 

CAPITOLO IV

Delle spezie e rami della temperanza.

 
        Io stava ad ascoltar come scolaio,
        che dal maestro prende la dottrina,
        mentre narrò dell'impeto primaio.
 
 
        E poi continuò quella regina:
    5 – Sappi che rifrenar io debbo ogni atto,
        al qual la parte sensual inclina.
 
 
        Il diletto del gusto e quel del tatto
        vuole Dio ch'io rifreni e ch'io m'oppogna:
        questa è la mia materia, ch'io pertratto.
 
 
   10 E ciò ch'è inonesto e fa vergogna
        al nobil uomo, e ciò ch'el fa brutale,
        ho io a regolar quanto bisogna.
 
 
        Vero è ch'io anco reggo in generale
        i vizi tutti e la lor circumstanza,
   15 e rifren ciò che la ragione assale.
 
 
        E questo suona el nome «Temperanza»,
        cioè ch'ella rifreni, regga e tempre
        ogni inonesto e ciò che in troppo avanza.
 
 
        E questo tu per regola tien' sempre,
   20 ch'a ciascuna virtude s'appartiene
        corregger ciò, che la ragion distempre.
 
 
        Iusto e prudente è l'uom, se noti bene,
        e temperato, ed anche ha in sé fortezza
        e tutte le vertú insieme tiene;
 
 
   25 ché dal peccato ovver dalla dolcezza,
        che gli è opprobriosa, si disparte,
        o che, vincendo, sofferisce asprezza.
 
 
        Ogni virtú, ogni scienza ed arte
        ha sua materia propria, che pertratta;
   30 ma 'n general l'una all'altra comparte.
 
 
        La sensualitá brutale e matta
        reggo io con queste dame a me propinque,
        e ciò che all'uom opprobrio e biasmo accatta.
 
 
        E questi vizi in radice son cinque,
   35 e prima l'ira, della quale ho detto
        ch'è opposta alla clemenzia, delinque.
 
 
        Poscia è superbia, il vizio maladetto
        dell'avarizia ed anco della gola
        e di lussuria il bestial diletto.
 
 
   40 Omai contempla la mia bella scòla:
        la bella donna, che ti scorse il passo,
        che mi sta a piè umil senza parola,
 
 
        vince superbia e vince Satanasso
        (mirabil cosa!), che 'nsú monta tanto,
   45 quanto nel suo pensier si pone a basso.
 
 
        L'altra donzella, che mi siede accanto,
        la moderata Parcitá si chiama:
        ell'è la quarta in questo regno santo.
 
 
        Ella lega la lupa sempre grama
   50 e pon mesura alla voglia bramosa,
        che mai non s'empie e che, mangiando, affama.
 
 
        L'altra, ch'è tanto adorna e gloriosa,
        è Continenza, agli angioli sorella
        e del sommo Fattor celeste sposa.
 
 
   55 Ella Cupido e Venere fragella,
        ogni turpe atto fugge ed hallo a sdegno,
        e sdegna chi ne tratta o ne favella.
 
 
        La sesta donna in questo nostro regno
        a Cerere ed a Bacco pone il freno,
   60 ché del bisogno non passino il segno.
 
 
        E, perché tutto sappi ben appieno,
        dirò dell'altre mie compagne ancora,
        che stanno meco nel regno sereno.
 
 
        Io suadisco ciò che l'uomo onora,
   65 e vieto ciò che a lui è turpe e lado,
        perché sua dignitá sia piú decora.
 
 
        Però la donna del settimo grado
        è chiamata Onestá ed ha la vesta
        tutta inorata sopra il bel zendado.
 
 
   70 Vedi che tutte l'altre gli fan festa;
        vedi che adorna tutte di splendore
        della corona, ch'ella porta in testa.
 
 
        Com'io li desidèri di furore,
        i quali rifrenar all'uomo è forte,
   75 tempro col freno dello mio valore;
 
 
        cosí è altra donna in questa corte,
        Modestia chiamata, e tiene il loco,
        che qui gli è dato nell'ottava sorte.
 
 
        Ella è che 'l modo pon tra 'l troppo e 'l poco
   80 negli atti esteriori, in fatti e in dire,
        nel rider, nell'andar, nel prender gioco,
 
 
        in suntuositá e nel vestire;
        e dove e quando, innanzi a cui e come,
        oltra i termini suoi, non lassa ire.
 
 
   85 Tra noi coronat'ha le bionde chiome;
        Modestia è detta, perché serva il modo,
        sicché 'l suo uffizio è consequente al nome.
 
 
        In questo regno, nel qual io mi godo,
        sta la Vergogna ovver l'Erubescenza;
   90 la qual non per virtú però la lodo,
 
 
        ma perché è freno e perché ha temenza
        di fare il lado; e questo è atto buono
        e che mena a virtú, se ha permanenza.
 
 
        Ma 'n quei che saggi o che antichi sono,
   95 perché debbono il capo aver esperto,
        il vergognarsi trova men perdono.
 
 
        Però Vergogna in testa non ha 'l serto
        perché non è virtú, come siam noi,
        che 'l capo di corona abbiam coperto.
 
 
  100 Dell'altre cose, che qui saper vuoi,
        elle diranno co' lor dolci canti,
        una cantando pria e l'altra poi. —
 
 
        Clemenzia, al cielo alzando gli occhi santi,
        un canto cominciò tanto soave,
  105 piú che mai musa, che cantar si vanti.
 
 
        – Non ha peccato – disse – tanto grave,
        che dell'intrar a te, Signor e Dio,
        chiunque si pente non trovi la chiave;
 
 
        ché se' sí mansueto e tanto pio,
  110 che tua clemenzia il peccator soccorre,
        pur ch'e' si penta e non voglia esser rio.
 
 
        La tua piatá, che a vendicar non corre,
        a quel che volle a te assomigliarse
        e la sua sede a lato alla tua porre,
 
 
  115 pur ch'e' volesse ancora umiliarse
        alle tue braccia, dicendo: – Peccai, —
        ad abbracciarlo non faríale scarse.
 
 
        Per questo, o Signor mio, saper mi fai,
        che sempre si perdoni a chi si pente;
  120 al superbo non si perdona mai.
 
 
        Quando al ciel venne il grido della gente
        di Sodoma e Gomorra e di lor setta,
        tu descendisti a vederlo presente;
 
 
        ove m'insegni ch'io non creda in fretta,
  125 quando la fama il peccator condanna,
        e tardo e con piatá faccia vendetta.
 
 
        Per questo tu ponesti, o santo Osanna,
        l'asprezza della verga dentro all'arca
        colla dolcezza insieme della manna.
 
 
  130 La Maddalena, o sommo Patriarca,
        tu ricevisti pio e mansueto,
        quando a te venne di peccati carca,
 
 
        e del suo cor compunto e del suo fleto
        piú ti pascesti che su nella mensa
  135 del fariseo, e piú staesti lieto.
 
 
        La donna, ch'era allor allor comprensa
        nell'adulterio e menata nel tempio,
        benignamente da te fu defensa;
 
 
        dove, alto mio Signor, mi désti esempio
  140 che sol del peccator voglia l'emenda,
        e chi altro ne vuol, è crudo ed empio,
 
 
        e quel, che egli fa, nullo riprenda;
        ch'altru' accusando, quel se stesso pugne,
        quand'egli avvien che 'n quel medesmo offenda.
 
 
  145 Tu giá facesti e fai che ancor si ugne
        il core a' regi, perch'e' sien benegni,
        e 'l re dell'api fai che non trapugne;
 
 
        in questo esempio, mio Signor, m'insegni
        che sieno i grandi grati e mansueti,
  150 e che non sian superbi in li lor regni. —
 
 
        E poscia, al cielo alzando gli occhi lieti,
        Parcitá cominciò sua cantilena,
        poiché Clemenzia ebbe i suoi detti quieti.
 
 
        – Beato – disse – è l'uom che si raffrena
  155 e pone a quella voglia la mesura,
        che sempre brama e mai diventa piena.
 
 
        Beato quello che non sforza o fura
        per piú avere e non prende l'affanno,
        sempre sudante d'infinita cura;
 
 
  160 ma, com' Fabrizio nel povero scanno,
        del poco e con vertú piú si contenta
        che di piú posseder con froda e inganno.
 
 
        Ma piú felice è l'uomo, il qual diventa
        perfetto sí, che tutto il disio taglia,
  165 e di ricchezza ha ogni voglia spenta,
 
 
        e che 'l piú e 'l meno non cura una paglia,
        e che niente alla Fortuna chiede,
        quando losinga e quando dá battaglia.
 
 
        Colui di tutto il mondo è ricco erede,
  170 che, avendo o non avendo, piú non vuole;
        ché, quanto uom non desia, tanto possede. —
 
 
Qui finí 'l canto ed anco le parole.
 

CAPITOLO V

Della virtú della continenza e delle sue spezie, e dell'astinenza.

 
 
        Cominciò Continenza il terzo canto,
        quando l'onesta Parcitá si tacque;
        e prima gli occhi alzò al cielo alquanto,
 
 
        dicendo: – A Dio verginitá sí piacque,
    5 che lei elesse sposa, in lei discese,
        quando di vergin madre al mondo nacque.
 
 
        A san Ioanni l'angel fu cortese
        per la verginitá, a lor sirocchia,
        quando, di terra su levando, el prese,
 
 
   10 dicendo: – Su, su, lieva le ginocchia:
        fratelli e servi siamo in quel Signore.
        che ciò, che è futur, presente adocchia. —
 
 
        Non pure il cielo a lei fa onore,
        ma l'universo ed ogni creatura
   15 alla bellezza di tanto valore.
 
 
        Subietti stanno a lei, quando scongiura.
        li maladetti piovuti da cielo,
        per forza, per amore o per paura.
 
 
        La vergin sacra giá accese il velo
   20 nel foco estinto; e l'altra la gran nave
        trasse con un capello d'un sol pelo.
 
 
        Il capricorno sí feroce e grave
        da lei pigliar si lassa, ed ella el regge;
        e segue lei mansueto e soave.
 
 
   25 Ma, perché è scritto nell'antica Legge:
        «Crescete insieme vo' e moltiplicate»,
        come in quel testo piú volte si legge,
 
 
        per questo molti la verginitate
        impugnano, perché non è feconda
   30 come lo stato delle coniugate.
 
 
        Convien che a questi detti si risponda
        che funno a tutte spezie e fûn comuni
        non a persona prima ovver seconda,
 
 
        ché vòlse Dio e vuol che sianvi alcuni,
   35 perché alle cose sue meglio s'attenda,
        che d'ogni atto venereo sian digiuni.
 
 
        Benché verde grillanda o sacra benda
        adorni quella c'ha la mente negra,
        non però vergin esser si comprenda;
 
 
   40 ché la verginitá pura ed allegra
        è la mente incorrotta a Dio divota,
        cogli atti onesti e colla carne intègra.
 
 
        E, se l'integritá fusse rimota
        contra 'l voler, non però si sospetti
   45 perder corona e la celeste dota.
 
 
        La castitá è poi de' men perfetti;
        ma, se si parte dalle cose sozze,
        il frutto di sessanta in cielo aspetti,
 
 
        se non trapassa alle seconde nozze,
   50 se lassa ciò in che Marta s'affanna,
        se piú non vuol marito che rimbrozze,
 
 
        e se con Michelina e con sant'Anna
        abita sola e dimora in quel templo,
        ove si gusta la celeste manna;
 
 
   55 se dalla tortora anche piglia esemplo,
        che beve turbo e sola sempre è 'n lutto,
        quasi dicendo: – Io castitá rassemplo. —
 
 
        Il matrimonio è poi di minor frutto;
        perché convien che la famiglia rega,
   60 non può inverso Dio attender tutto;
 
 
        ché quanto piú col mondo alcun si lega
        ed alla cura bassa sta piú attento,
        tanto dal contemplar di Dio si piega.
 
 
        Allora è santo e vero sacramento,
   65 se in una vera fede egli è fundato,
        in santa pace e in un consentimento;
 
 
        se solo a quel buon fine egli è usato,
        pel quale al primaio uom, quando fu fatto,
        la sposa Dio gli trasse del costato.
 
 
   70 Se bestiale ovver meretricio atto
        fra lor non si usa, allor è continenza,
        ché fuor de' miei confini e' non è tratto. —
 
 
        Poi, come donna che fa reverenza,
        lassando il ballo, tal atto fe' ella,
   75 e prese il quarto canto l'Abstinenza.
 
 
        Alzando gli occhi al ciel, quella donzella
        disse: – La mente mia libera e lieta
        sublimo al mio Signor, che mi favella.
 
 
        Egli è che spira e che mi fa profeta:
   80 Egli è che ciba me, lui contemplando:
        Egli è che di vertú mi fa repleta.
 
 
        Di me all'uomo fe' il primo comando;
        e, quando el ruppe, a morte ed a fatiga
        e tra mille timori el pose in bando.
 
 
   85 L'offizio mio quella parte castiga,
        dov'è 'l desio e quel voler ribello,
        che alla legge mental dá sí gran briga.
 
 
        Li tre fanciulli ed anche Daniello
        profeti fei, perché funno abstinenti
   90 e parlavan con Dio, com'io favello.
 
 
        Avventurate giá l'antiche genti,
        a cui il pasto delle giande ed erbe
        fe' 'l viver lungo e san senza tormenti!
 
 
        Ora li cibi e le mense superbe
   95 son sí cresciuti, che la vita brieve
        è inferma e poca e pien di doglie acerbe.
 
 
        Ora, se innanzi al pranzo non si beve,
        pare altrui pena; e troppa dilicanza
        fa che 'l cibo comune al corpo è grieve.
 
 
  100 Il corpo, che del poco ha sua bastanza,
        se non ha buono assai e spesso e presto,
        mormora guasto dalla mal usanza.
 
 
        Or pochi fanno quel digiun richiesto
        per decima da Dio, che gli sia offerta,
  105 del tempo, che a ben far n'ha dato in presto.
 
 
        E non val ch'è precetto e che si accerta
        ch'estirpa i vizi e le virtú acquista,
        e che lieva la mente a Dio sú erta. —
 
 
        Qui lasciò 'l canto come 'l citarista;
  110 poi come fa'l falcon, quando si move,
        cosí Umiltá al cielo alzò la vista,
 
 
        dicendo: – O alto Dio, o sommo Iove,
        nulla umiltá che pretenda bassezza,
        possibil è che mai in te si trove.
 
 
  115 Ma, permanendo in sé la tua altezza,
        il tuo Figliuol l'umanitá si unío
        non con difetti, ma con l'altra asprezza,
 
 
        sí ch'egli, essendo insieme e uomo e Dio,
        in quanto Dio che satisfar potesse,
  120 e in quanto uom patisse ove morío,
 
 
        per colui che, produtto allora in esse,
        ruppe la sbarra del comando primo
        ed attentò che, quanto Dio, sapesse.
 
 
        Però convenne che 'l superbo limo
  125 s'umiliasse quanto insú era ito,
        ed egli non potea piú ire ad imo.
 
 
        Ed anco 'l suo peccato era infinito,
        pensando quel Signore, in cui presunse
        e che a non obbedirlo fu ardito.
 
 
  130 Per questo, Dio umanitá assunse
        ed un si fece seco e fu quell'Agno,
        che pei peccati altrui s'offerse e punse.
 
 
        O alto mio Signor, tu se' sí magno,
        che tutti quanti i ciel son la tua sede,
  135 e la terra è scabello al tuo calcagno.
 
 
        Alla grandezza tua, che tanto eccede,
        l'umiltá sola gli fece la casa,
        quando umanò 'l tuo eterno Erede
 
 
        nel petto di Maria, qual è rimasa
  140 speranza a' peccatori e sempre advoca
        che Piatá tenga a lor la porta pasa.
 
 
        Quella Umiltá, che 'n croce si fe' poca,
        fu esaltata e, posta al lato destro
        appresso a Dio, in alto si collòca.
 
 
  145 E, quando al mondo stette per maestro,
        con umiltá conversò tra la gente
        non come prince, ma come minestro;
 
 
        ove li gradi mostra, a chi pon mente,
        dell'umiltá, e prima che subietta
  150 sie a' maggiori e presta ed obbediente.
 
 
        L'altra è che a' suoi egual si sottometta;
        l'umiltá terza alli minor subiace:
        questa è suprema ed è la piú perfetta.
 
 
        Di un'altra umiltá, che nel cor giace,
  155 il primo grado non dispregia altroi;
        l'altro, s'è dispregiato, non gli spiace.
 
 
        Il terzo grado è dopo questi doi;
        che, s'egli è dispregiato, se ne goda
        e non si turbi, perché altri el nòi;
 
 
  160 e che avvilisce sé, quando altri el loda,
        e sol risponde, quando altri el domanda,
        e non si cura, benché opprobrio oda;
 
 
        e come il buon corsier, che cosí anda
        come altri mena il fren, cosí la voglia
  165 pon nell'arbitrio di chi ben comanda;
 
 
        e, benché alcuno a lui la vesta toglia,
        o se la sua mascella li percuote,
        non contendendo, lo mantel si spoglia
 
 
e paragli anco l'altra delle gote. —