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Il perduto amore

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VIII

Non fu per quella sola notte. Fu per molte notti di seguito, finchè Silvio non ritornò bianco e smagrito dall'ospedale per riprendere il suo posto fra i vivi. Ma quella prima notte influì per sempre sull'avvenire di Silvina; fu in quella prima notte che il suo istinto si decise ad agire indipendentemente dalla ragione e dalla coscienza, e dalle circostanze che fino allora avevano dominato la sua vita; in quella prima sciagurata notte, abbandonata a sè stessa, Silvina rinnegò per l'ultima volta, irreparabilmente, padre e madre, tutto il suo passato, e oserei dire anche sè stessa, o almeno quella Silvina che noi tutti avevamo amata con tanta indulgenza. Io penso che la gente superstiziosa si raffiguri giustamente come spettri notturni i maligni spiriti, e li veda sempre intanati nel buio, in agguato sotto gli antri oscuri, nelle cave rovine dove non penetra mai luce di sole, e specialmente senta la loro presenza invisibile nelle notti d'uragano, quando il mondo intero è alla mercè delle tenebre. In quella sciagurata notte, uno di me meno scettico penserebbe che un maligno spirito s'insinuò nel cuore di Silvina e vi stabilì il suo dominio.

Colei che s'era offerta come sua compagna di solitudine l'aveva condotta in una camera foderata di rosso, piena d'un profumo morbido e triste, male illuminata. Non c'era che un gran letto, poche sedie, uno specchio stretto e lungo in un angolo, con a fianco un piccolo tavolo coperto di tela bianca. Due bauli stavano semiaperti nel vano della finestra, e c'erano abiti e pezzi di biancheria sudicia sparsi in disordine qua e là, sulle sedie, in fondo al letto, appesi ai muri, come se chi abitava quella stanza fosse sul punto di raccogliere le cose sue e di andarsene via. Silvina si sentì subito triste, quando ne ebbe varcata la soglia. Ma la sua compagna le disse per confortarla:

– Si sta tanto bene qui. Siamo lontane da tutti. Per ciò anch'io la notte ho un po' di paura quando sono sola. Ma in due?

E la spinse dolcemente sul letto e l'abbracciò.

– Mi piaci tanto! disse poi sorridendo e fissando su lei quei grandi occhi senza dolcezza. E le domandò: – Non ti dispiace se ti parlo con confidenza? Mi sembra di conoscerti da tanto tempo. Come ti chiami?

– Silvina.

– Silvina, soggiunse. E sai come mi chiamo io? Mi chiamo Soave. E quanti anni hai?

– Diciotto anni, rispose Silvina.

– Poco meno di me, disse Soave. Anche tu sei giovane. E sei sola?

Silvina non comprese. La guardò perplessa, senza rispondere.

– Sei orfana? domandò Soave.

– No, disse allora Silvina, non sono orfana…

– Come ti invidio! sospirò Soave. Io non ho avuto mai nè padre nè madre…

Soave curvò il capo e rimase così assorta per qualche minuto. Poi chiese:

– Da quanto tempo stai con quel giovane?

Silvina avrebbe voluto tacere, spegnere il lume, coricarsi in quel letto, non muoversi più per tutta la notte. Ma facendo uno sforzo rispose:

– Da quattro mesi…

– E sei fuggita con lui da casa tua?

– Sì, rispose Silvina.

– E ti vuol bene?

– Sì, rispose ancora Silvina.

– E ti dà molto denaro?

Silvina abbassò la fronte e non rispose.

Soave si alzò, andò dinnanzi allo specchio, si sciolse i capelli, prese un lapis rosso e incominciò a ritoccarsi le labbra.

– Ah! bambina mia, esclamò, sono passata anch'io per la tua strada… Sembra che a tutto debba bastare l'amore, la prima volta. Ma poi, quando si vede che gli uomini sono tutti uguali, si dice: – Volete godere? E allora pagate…

Le sue labbra erano ora perfettamente rosse. S'incipriò il collo e ritornò a sedere sul letto accanto a Silvina. Allora l'abbracciò, e posando il capo sulla sua spalla, le disse:

– Non essere sciocca anche tu, come sono stata io. Non aspettare che lui si stanchi di te. Scegline un altro, di quelli che ti desiderano di più, e preferisci il più ricco. Non ti curare che sia bello. Noi, noi sì, anche quando sembriamo brutte, noi siamo belle. Ma gli uomini! Tutti schifosi a un modo! Ti piacciono a te, forse, gli uomini?

Silvina ebbe un sorriso sdegnoso. Soave la strinse ancora più teneramente a sè e la baciò sulla bocca. Silvina ebbe un piccolo moto di disgusto e si pulì istintivamente le labbra. Soave la guardò stupita, e poi scoppiò a ridere, battendo allegramente le mani.

– Non ti piace il rossetto? le domandò. Eppure è dolce come il miele. Perchè non ti tingi le labbra? Saresti mille volte più bella. La tua bocca è un poco pallida: così non piace agli uomini. E anche le tue ciglia sono troppo chiare: i tuoi occhi ci si perdono. Perchè non ti tingi gli occhi di nero?

– Vedo, disse poi con un'intenzione di malizia, che non ti ha insegnato nessuno… Ora ti insegno io…

E Soave corse a prendere il lapis nero, e il lapis rosso, il vasetto della pomata e lo scatolino della cipria, e, tutta ilare, costretta Silvina a voltarsi con il viso al lume, incominciò a dipingerla. Prima furono gli occhi. I chiari occhi di Silvina, i chiari occhi che mia madre baciava con tanto amore, che erano freddi ma casti, brillarono d'una strana luce nel cerchio nero che li chiuse intorno intorno alle ciglia. Da quel momento essi perdettero ogni pudore; non furono più gli occhi di una fanciulla. Poi fu la volta delle labbra, delle labbra che mia madre baciava con tanta purità, che erano cattive ma caste nel loro pallore malato, e divennero rosse, sbocciarono in una rosa purpurea e sensuale. La sua bocca divenne da quel momento impura; non fu più la bocca d'una fanciulla. Poi le dita leggiere di Soave spalmarono il viso di Silvina, il caro viso che mia madre accarezzava con tanta tenerezza, d'una pomata bianchiccia che rese la pelle liscia e lucida come seta, illuminando il suo pallore di strani riflessi di madreperla. Quindi sulla fronte, sulle gote, sul mento, sulla gola passò il piumino e vi posò un velo di cipria rosea, e la madreperla si annebbiò d'una opacità calda e vellutata, come l'alito caldo fa sullo specchio.

Così fu distrutta Silvina nostra. Ella fu da quel momento un'altra Silvina.

– Irriconoscibile! esclamava Soave, guardandola raggiante. Che meraviglia! Guàrdati! Guàrdati!

E la trascinò dinnanzi allo specchio perchè anch'ella potesse ammirare l'opera delle sue mani, vedere quanto fosse mutata. E vi dico che Silvina non torse vergognosa gli occhi da quella sua triste immagine, non si rivoltò rabbiosa contro Soave per insultarla, non disfece inorridita quella turpe maschera che le deformava il volto, non si gettò in terra singhiozzando umiliata, ma sorrise con compiacenza alla Silvina che senza pudore le sorrideva dallo specchio e inchinò il capo da ogni lato per ammirare quanto giovasse al suo profilo la bocca così fortemente segnata.

– È vero, disse, con una voce che non era la sua solita voce, una voce che vibrava tutta di commozione, è vero! Come sono diversa!..

– E più bella! esclamò Soave.

– Sì, disse Silvina, quasi più bella…

Allora Soave le sciolse i capelli, affondando in quella seta morbida le sue mani come aveva fatto prima mia madre, come aveva poi fatto Silvio, e diceva:

– Cara, cara… I tuoi capelli come sono dorati! Questi non occorre tingerli: sembrano raggi di sole, spighe di grano… Come sono fini! Quanti sono! Come pesano!

Glieli accarezzò a lungo, mentre il suo viso si imporporava, chiudendo gli occhi per il piacere che le veniva dall'accarezzare quei capelli così morbidi e densi. E Silvina, ad occhi chiusi, si lasciava accarezzare. Si lasciò accarezzare, e, quando Soave le disse: – Lascia ch'io ti spogli! – lasciò che Soave le slacciasse l'abito viola e poi l'abito azzurro, disse semplicemente: – Avevo tanto freddo! – lasciò che cadessero ai suoi piedi la sottoveste bianca, i calzoncini orlati di pizzo, la camicina ch'era trattenuta appena da un nastro rosa annodato sulla spalla. Rimase così nuda nuda dinnanzi allo specchio, e soltanto quando, aperti ad un tratto gli occhi, si vide così nuda nello specchio, e vide Soave che la guardava estatica, con un piccolo grido si rifugiò nel letto perdendo nel salto le sue scarpette che volarono chissà dove. Ma Soave spense il lume e la raggiunse sotto le coltri, l'abbracciò stretta stretta e le disse:

– Senti, senti, se la mia pelle non è più liscia della pelle di Silvio…

Poi le disse:

– Ora le mie labbra non ti faranno ribrezzo, perchè anche le tue sono dipinte. Senti se il rossetto non è dolce come il miele…

E la baciò sulla bocca. Poi appoggiò la sua testa sulla spalla nuda di Silvina, e dolcemente si addormentò: perchè Soave, Soave era innocente. Ma Silvina non si addormentò subito. Il cuore le batteva forte. Ella pensava con gioia, con una specie di dolorosa, di amara, di cattiva voluttà, che quel corpo tiepido, che era così strettamente allacciato al suo, non era il corpo di Silvio. Ed ella godeva d'un piacere ignorato, al pensiero che il suo letto di fanciulla era tanto lontano, che non si sarebbe mai più coricata in quel deserto candore. Pensava che anche il letto di Silvio era lassù, freddo e vuoto, sotto il solaio, in quella stanza tenebrosa su cui la pioggia piangeva le sue fredde e lamentose lagrime, e che ella, Silvina, non sarebbe mai più stata sola, perchè il suo pudore l'aveva abbandonata, quella specie d'impedimento fisico che la rendeva straniera a tutte le cose che non le appartenessero da lungo tempo. Da quel momento ella era perfettamente libera, tutto le apparteneva, tutto poteva prendere, fare suo. Non esistevano più ostacoli alla sua volontà, non più limiti, non più divieti. Buono era quel letto in cui stava coricata per la prima volta; e come un giorno aveva potuto addormentarsi senza il bacio di sua madre, così ora, tra poco, si sarebbe addormentata senza il bacio di Silvio.

Quando fu giorno, Soave con una carezza svegliò Silvina. Il sonno era stato per entrambe un sereno riposo. Esse si guardarono sorridendo, e videro con gioia che un raggio di sole pallido filtrava attraverso le tende della finestra. Il nuovo giorno non era così triste come l'altro. Silvina si vestì in fretta, si pettinò, e quando fu vestita e pettinata Soave le mise in capo uno dei suoi cappellini di feltro, le attorcigliò intorno al collo una volpe azzurra, e Silvina uscì nel mattino tutto ridente di solicello per andare all'ospedale. L'ospedale era un gran palazzo di pietra grigia. Le strade su cui si affacciavano le file interminabili delle sue finestre puzzavano tutte di cloro. La pioggia non aveva spazzato via quel tanfo nauseabondo, non aveva lavato le sue mura sudicie. Nell'andito una vera moltitudine di miserabili si pigiava in silenzio, e Silvina dovette attraversare quella folla prima di arrivare alla porta. Un corridoio nudo e lunghissimo, attraversato di quando in quando da qualche suora di carità, si presentò dinnanzi a lei, ed ella dovette percorrerlo in tutta la sua lunghezza, e vedere, attraverso le sue cento porte aperte, file e file di letti bianchi, popolati di bianchi fantasmi, per entrare infine in una corsia squallida come tutte le altre. Chiese timidamente di Silvio. Fu portata dinnanzi a uno di quei volti mostruosi, e riconobbe Silvio con un senso di repulsione invincibile, come se non lo avesse mai veduto prima di allora, come se fosse un altro uomo. E Silvio la guardò con le sue ardenti pupille, e non la riconobbe. Ella potè così fermarsi soltanto un istante dinnanzi a quel letto, udire appena il rantolo che usciva dalla gola strozzata dell'infermo, e senza rivolgergli una parola, senza sfiorargli la fronte con una carezza, senza compiere nessuno di questi pietosi doveri, potè fuggirsene via, e sottrarsi al pensiero che quelle labbra gonfie e violacee ella le aveva baciate, e quelle gote, trasudate livide irsute, le aveva carezzate, aveva toccati quei capelli aridi, sorriso a quegli occhi insensati. La giornata invernale era povera povera di sole. L'azzurro del cielo sembrava un'illusione di sereno. Ma a Silvina, quando uscita dall'ospedale si sentì presa in quel solicello, sotto quel cielo timido, sembrò di camminare per le vie di un paradiso primaverile, tutto luce, serenità, gaudio.

 

IX

Ad un angolo di strada, in un giardino tutto di palme incappucciate, Silvina vide una serra piena di fiori, e comprò un gran mazzo di rose rosse, che sembravano sbocciate allora nel più tepido sole di maggio. Stringendosi al seno quelle rose, tutta così stupendamente fiorita, attraversò mezza città, salì le scale della sua casa, ed entrò in quella stanza dalla quale la sera innanzi era uscita tremando. Quantunque per l'abbaino piovesse un po' di sole, quella stanza non le sembrò meno squallida. Ma il color vivo delle rose riscaldò con i vaghi riflessi di una aurora il candore nudo di quei muri.

Poco dopo la porta lentamente si socchiuse, e Silvina, sorpresa e intimidita, vide apparire fra i due battenti la faccia gialliccia dello zio Stanislao. Senza attendere un suo invito, egli si fece avanti a piccoli passi di danza, e, baciandole umilmente la mano, le domandò:

– Mi perdonate, signora?

Il tono della sua voce era così dimesso, i suoi modi così modesti, che Silvina non potè fare a meno di perdonarlo con un breve sorriso. Gli indicò una sedia, ed egli subito pronto a quel gesto si sedette, mentre Silvina, sedutasi dinnanzi a lui, lo contemplava con uno sguardo pieno di studiata indifferenza, così freddo ed estraneo che il poveretto si sentì d'un tratto mancare la voce.

– Signora, disse alfine, balbettando, vi chiedo scusa se ho osato salire quassù senza il vostro permesso. Ma Silvio non vi parlò mai del principe Stroztki, suo amico?

S'interruppe, e poichè Silvina ebbe assentito con un lieve cenno del capo, s'inchinò e soggiunse:

– Il principe Stroztki sono io…

Pronunciate queste parole, egli abbassò gli occhi modestamente ed attese. Silvina ricordava benissimo quel nome, e ciò che Silvio le aveva detto di lui, e cioè che, avendola ammirata all'Alhambra, l'aveva paragonata ad una viola mammola. Ma dovette compiere uno sforzo per scartare l'immagine dello zio Stanislao, che fino a quell'istante ella aveva considerato con un senso di invincibile ironia, e sostituirla con l'immagine ben altrimenti rispettabile e interessante di un principe. Silvina aveva scoperto allora allora il trucco del parrucchino nero che stava leggiadramente posato sulla fronte di Stanislao, e pensava di vedere la sua testa brillare d'un tratto denudata da un colpo di vento; la sua testa tutta pelata, che doveva essere tonda gialla e liscia come il suo viso. Non s'era mai incontrata con un uomo simile, che non avesse un pelo in faccia, così irrimediabilmente calvo, nonostante quella perfetta parrucca, e così giallo da non parer fatto di carne, ma impastato di una carta pesta ingiallita. Poteva avere qualunque età, fra i trenta e i sessanta anni; eppure, piuttosto che d'un vecchio, aveva l'aspetto di un uomo non finito, d'un burattino al quale, passata sul viso una prima mano di vernice e incollata in fretta sul tondo della zucca una parrucchetta di peli neri, senza appiccicargli nè sopracciglia, nè ciglia, nè baffi, nè barba, e dare alle sue labbra e ai suoi pomelli una spennellata di rosso carnicino, fosse stato mandato per il mondo, a vivere in compagnia d'altri burattini tutti rifiniti per bene. Il sarto, sì, aveva compiuto perfettamente l'opera sua, vestendolo con abiti di un taglio, come si dice, irreprensibile e secondo l'ultimo figurino; alti colletti a pizzi rotondi, cravatta di seta colorata, biancheria finissima immacolata di seta, tutto tirato a lucido, e infine scarpine con tomaie di pelle di un delicato color tortora, che stringevano il suo piede sottile e lungo come in un guanto. Ma una volta scoperto che quel burattino era un principe, bisognava riconoscere che non sarebbe sembrato un vero principe se non avesse avuto quell'aspetto di burattino. Gli antichi videro metamorfosi ben più stupefacenti di questa. E se Mirra potè mutarsi in pianta, e Nictimene in gufo, e Niobe in roccia, a maggior ragione potè lo zio Stanislao, agli occhi di Silvina, mutarsi in un principe, la cui calvizie altro non fosse se non un indizio dell'antichità della razza, stanca ormai di produrre tanti principi polacchi tutti adorni delle più sontuose zazzere d'Europa.

Mentre in Silvina avveniva una così ardua revisione della sua persona ridicola, il principe Stanislao pensò che fosse inutile procrastinare di qualche minuto ancora il momento in cui, divenuto insostenibile quel silenzio che durava già troppo tempo, egli avrebbe dovuto in ogni modo parlare, confessando a Silvina la segreta ragione di quella visita. Egli dunque chiamò a raccolta tutti i suoi spiriti coraggiosi, e composto il gesto in una specie di ieratica immobilità, abbassò il capo per non vedere come Silvina avrebbe accolto le sue parole. Quindi con voce velata di commozione disse:

– Silvina, sono venuto per confidarvi un segreto: un segreto così grave, che da esso dipende tutta la mia vita. Se sentiste, Silvina, (e si premette una mano sul cuore) come il mio cuore batte in questo istante, sono certo che credereste subito a quanto sto per dirvi, senza dubitare mai mai che io possa fingere o mentire. Così come mi vedete, non più giovinetto, ho ancora l'anima semplice d'un fanciullo. Sì, ho anch'io vissuto intensamente, ho amato e sono stato amato, ho viaggiato molto, e, frequentando uomini e donne d'ogni razza, posso dire d'avere più d'ogni altro un'esperienza assai estesa del mondo. Ma io vengo da un paese freddo, dove l'ingenuità è degli uomini oltre che dei fanciulli, e perciò ancora oggi soffro di una ingenuità quasi infantile. La mia prima giovinezza trascorse tutta tra severe regole, nell'isolamento assoluto di un vecchio e tetro castello lituano. La solitudine di quegli anni influisce ancora su molti lati del mio carattere. In ogni caso io sono incapace di mentire, così come sono incapace di nascondere i palpiti del mio cuore; e quando il mio cuore parla, sono incapace di tacere. Mi promettete almeno, Silvina, di ascoltarmi con benevolenza, e di giudicare poi non tanto le mie parole, quanto le mie intenzioni? Sì, Silvina, soggiunse con un tono di voce più bassa, ciò che io sto per dirvi è molto grave. Tutto dipende da voi…

Silvina, senza distrarsi dallo studio accurato della persona del principe, lo ascoltava con un vago senso di noia. Ma a quel mutamento di voce, che egli fece improvvisamente, ebbe un breve palpito di paura e domandò:

– È di Silvio che volete parlare?

Il principe scosse il capo negando e sorrise con malinconia.

– No, Silvina, soggiunse, io non debbo darvi nessuna grave notizia di Silvio. Spero che Silvio non corra nessun pericolo, ma non senza dolore vedo ora come voi lo amiate. Forse sarebbe più prudente per me che io rinunciassi senz'altro a parlarvi… Forse commetto una pazzia, giuoco disperatamente la mia felicità. Ma come potrei ora andarmene, senza sembrare ai vostri occhi il più ridicolo degli uomini? Ascoltatemi, dunque, e siate buona con me. Dovete sapere, Silvina, che da quella sera, in cui vi vidi per la prima volta all'Alhambra, la vostra immagine non mi ha più abbandonato. Considerate fino a che punto la nostra felicità sia alla mercè del caso! Chi può non credere alla fatalità? Mille volte, incontrando una donna non mai veduta prima in nessun luogo, ho esclamato: – È lei, è lei quella che ho sempre sognato d'amare! La sola che potrebbe rendermi felice! Ma, dopo averla ammirata per tutta una sera, dopo aver costruito progetti su progetti, fantasticando di tutto il mio avvenire, quella donna, com'era apparsa improvvisamente sul mio cammino, così improvvisamente scompariva, e per quanto cercassi, non riuscivo più a rintracciarla. Sempre, sempre, tutte sono scomparse, come se il destino, dopo avermele spinte incontro per tentarmi con la loro presenza, poi subito se le riprendesse, riportandole via, lontano da me, per modo che io non potessi mai più rivederle. Debbo dirvi, Silvina, che ho temuto anche per voi la stessa sorte? Quando interrogai Silvio ed egli mi disse: – È mia moglie… – sentii che la sua gelosia avrebbe provveduto a tenermi lontano da voi forse anche più di quanto non avesse fatto il destino per tutte le altre; e rassegnato rinunciai ad ogni mia speranza. Ma, ieri sera, incontrandovi inaspettatamente una seconda volta, pensai (debbo confessarlo, Silvina?), che io avevo disperato del destino forse nel momento stesso in cui era pronto a soccorrermi…

Il principe parlava con voce uguale, commossa. Silvina pensava: – Come è lungo! E per quanto non tradisse alcun pensiero, era impaziente e curiosa di giungere alla conclusione.

– Mi ascoltate, Silvina? domandò il principe ad un tratto.

Ella accennò di sì, e il principe continuò:

– Da principio credetti di essermi ingannato. Come potevate essere voi, proprio voi, in quella casa? Quelle ragazze mi chiamano lo zio Stanislao, perchè io le tratto con confidenza, come un vecchio amico. Ma non giudicatemi male, Silvina. Io sono un uomo debole, ma non un libertino. Cerco di sfuggire allo spleen unendomi a qualche allegra compagnia, senza per questo abbandonarmi al vizio. Del resto ognuno prende un'ora di spensierato oblio, un attimo di piacere, là dove li trova. Da questo lato la casa di madama Humbert è migliore di tante altre. Ma voi? Eppure, passato il primo momento di dubbio, ebbi la certezza di non avervi confusa con nessun'altra donna. No. Eravate voi, proprio voi, seduta in quella poltrona rossa, in compagnia di Odette e di Manon, di Mimì, di Soave. E Silvio? Ammalato. E voi? Sola. Lo credete? Rimasi così profondamente turbato da questo incontro che quando Odette volle trascinarmi nell'altra stanza perchè l'accompagnassi al piano, non ebbi la forza di rifiutarmi. Così, mentre non avrei mai più voluto allontanarmi da voi, fui costretto a rimanervi tutta la sera lontano. Ma quali sofferenze, dopo! Una voce interna mi diceva: – Meglio così, Stanislao, meglio averla sfuggita! E un'altra voce diceva: – Vile, vile! Odette ha potuto separarti da lei ancora una volta. Tu perderai anche questa, e poi incolperai il destino di non averti aiutato. Vergognati, Stanislao! E allora io riconobbi in questa seconda voce la vera voce del mio cuore, la voce dell'anima mia…

Giunto a questo punto critico del suo discorso, egli si arrestò impaurito dal pensiero che oramai non era più possibile divagare ancora. Levando per un attimo gli occhi su Silvina, la vide, rannuvolata, posare su di lui uno sguardo freddo ed ironico. Il suo silenzio e la sua immobilità lo spaventarono, ma pensò che gli era ormai impossibile indietreggiare. Allora, come uno che, dopo essersi tenuto per lungo tempo con inauditi sforzi in equilibrio sull'orlo di un precipizio, d'un tratto disperatamente si abbandona, il principe chiuse gli occhi e disse:

 

– Per aver ubbidito a quella voce, Silvina, io mi trovo ora qui, dinnanzi a voi. Credete che non veda come la mia situazione sia piena di pericoli, nello stesso tempo dolorosa e ridicola? Ebbene, ora vi domando: – Silvina, siete veramente la moglie di Silvio? Siete almeno la sua fidanzata? E se non siete nè moglie nè fidanzata, è vero che amate Silvio teneramente? E se neppure lo amate con passione, lo amate almeno per capriccio? E se questo capriccio fosse finito, permettereste ad un altr'uomo di occupare un posto nel vostro cuore? Pensate, Silvina, pensate quanto questa vita sia indegna di voi! (e con un gesto egli abbracciò la miseria di quella stanza). La vostra bellezza esige ben altra cornice. Voi potete avere tutto ciò che desiderate da un uomo che vi adora…

Pronunciando con forza queste parole, il principe Stanislao cadde in ginocchio ai piedi di Silvina. Ma prima che egli avesse toccato terra, Silvina s'era alzata, e saettava sulla sua testa prona i fulmini di uno sdegno che le riempiva gli occhi di lampi. Egli udì la sua voce sarcastica che diceva:

– Perchè Silvio non è qui per rispondervi?

Poi udì il suono di un riso beffardo, e la voce di Silvina che diceva:

– Alzatevi! Siete un principe, voi?

Ma quand'egli infine si decise a sollevare il capo per alzarsi in piedi, vide che Silvina non rideva più.

– Ciò che mi proponete è infame! – esclamò Silvina con voce rotta dall'affanno. E balbettando: – Uscite! uscite! si abbattè sulla sedia e, nascosto il viso, scoppiò in un tumulto di lacrime.

Il principe Stanislao scosse desolato il capo.

– Silvina, Silvina, sospirò, voi non mi avete compreso…

Poi, tesa timidamente la mano, le sfiorò il capo con una lieve carezza.

– Addio, disse. Ricordatevi… in ogni circostanza della vita… potete contare… su me…

E in punta di piedi, senza più voltarsi indietro, se ne andò.

Non appena egli ebbe varcata la soglia dell'uscio, Silvina raddrizzò il capo, e rise da sola, a lungo. Il suo viso non aveva traccia di lacrime. Le sue ciglia erano perfettamente asciutte. Quindi si alzò, andò a vedere nello specchio se quella scena di finta disperazione, che ella aveva recitata come nei vecchi drammi, le avesse sciupato il contorno rosso delle labbra, il contorno nero degli occhi. Ma, la sera, prima di addormentarsi col capo dolcemente posato sul suo seno, Soave le disse:

– Come sei fortunata tu, Silvina. C'è Odette che aspetta da un anno che lo zio Stanislao la prenda con sè. Non sai quanto è ricco? Avresti carrozza, cavalli, servitori, una bellissima casa con tutti i mobili nuovi, dove potresti dare dei gran pranzi… Vestiti, pellicce, gioielli, quanti tu ne volessi… E poi chi ti impedirebbe di sceglierti un bel ragazzo, magari di tenerti Silvio, se preferisci per forza un uomo alla tua piccola Soave? Lo zio Stanislao è brutto, ma il mondo è pieno di bei giovani, anche più belli di Silvio. E tu hai rifiutato? Soltanto Odette può ringraziarti. Povera Odette! Ha già più di trent'anni…