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Il perduto amore

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IV

Queste e molte altre cose io dovetti fantasticare e a lungo, poichè la strada era ritornata silenziosa. Soltanto pochi lumi superstiti davano ormai gli ultimi loro guizzi rossi bianchi o verdi, ed io me ne stavo ancora là con quella lettera tra le mani, senza aver nulla deciso. Da un pezzo avevo udito mio padre dare il catenaccio alla porta, poi salire le scale col suo passo pesante e cadenzato; la sua voce aveva risonato nel corridoio e poi s'era allontanata a poco a poco verso l'altra estremità della casa. Mia madre anche s'era ritirata nella sua camera, dove di quando in quando l'udivo ancora muoversi, aprire e chiudere mobili: segno che aveva allora finito di riepilogare con Marta, la nostra vecchia serva, i conti della giornata, e ora si preparava a coricarsi. Marta, con i suoi zoccoli di legno, che destavano echi sordi per tutta la casa, aveva sceso e salito due o tre volte la scala, riempito d'acqua le brocche, raccolte tutte le scarpe dinnanzi agli usci, e poi se ne era andata a dormire. A vegliare il ferito avevano lasciato Battista, perchè a lunghi intervalli lo sentivo tossire nella stanza vicina. Mi riscossi e m'affacciai un momento alla finestra. La finestra di Silvina era buia e chiusa. Poi spensi il lume e la luce bianca della luna inondò la mia stanza.

Aperto adagio adagio l'uscio, mi bastò di fare un passo nel corridoio per vedere il raggio di luce che spartiva l'uscio socchiuso della stanza dove riposava Silvio, e Battista vegliava. Ma occorse un minuto di più perchè i miei occhi, non ancora abituati al buio, scoprissero contro quella fessura illuminata il contorno appena distinto di un'ombra. L'imposta lentamente lentamente s'apriva, e quindi lo spiraglio illuminato s'andava allargando a poco a poco, ed anche la striscia di luce gialla sul pavimento s'allargava e s'allungava nel buio. E quando fu larga quanto una mano, allora, nella penombra pallidissima che si diffuse intorno a quella striscia di luce, senza stupore, come se avessi saputo di trovarla là in quel momento, riconobbi Silvina. Silvina! Era scalza, ma vestita e pettinata come in pieno giorno. Con il viso appoggiato contro il battente, ella guardava nella stanza illuminata, e fra lei e il letto doveva levarsi qualche ostacolo opaco, perchè, per vedere, ella doveva allungare il collo ed alzarsi sulla punta dei piedi. Finalmente sospirò e rimase un buon tratto senza muoversi. Poi si staccò un poco dall'uscio, si piegò sulle ginocchia e incominciò a cercare qualche cosa per terra, aguzzando gli occhi e spazzando il pavimento con le mani. Fu allora che, nel voltarsi, ella vide la mia ombra nel buio. Vide la mia ombra e si alzò in piedi di scatto.

– Ah, sei tu? mormorò con accento irato. Che cosa vuoi da me? Perchè mi spii?

Non si muoveva Silvina. Non cercava di fuggire. Poichè volgeva le spalle alla poca luce della fessura, il suo viso era completamente buio. Ma io sentivo su di me i suoi occhi pieni d'odio, che mi guardavano dall'ombra.

– Andiamo! dissi. Non facciamo troppo chiasso qui. Vieni nella mia stanza. Ti debbo parlare…

La presi per un braccio e la trascinai. Chiusi la porta, e la costrinsi a sedere sul mio letto. Poi, rimanendo in piedi dinnanzi a lei e guardandola fissamente:

– Silvina! Silvina! esclamai, quale pazzia è la tua? Non pensi al babbo, non pensi alla mamma, che avrebbero potuto sorprenderti? Non pensi che Battista, un servitore, avrebbe potuto uscire improvvisamente da quella stanza e trovarti là, scalza, dietro la porta, a spiare? Che cosa avrebbe pensato di te? Ah! tu sei una bambina, una vera bambina! Rispondimi: che cosa facevi là a quest'ora, mentre tutti dormono? Che cosa cercavi per terra, dietro quell'uscio?

– Tutti dormono! rispose Silvina. Ma tu no, tu non dormi!..

E sorrise maligna, guardandomi con disprezzo.

– Ah! se tu sapessi, esclamai, se tu sapessi perchè non dormo! Non sorridere così, Silvina! Non guardarmi con questi occhi cattivi! Che cosa sono io per te? Nulla? Assolutamente nulla? Non sono forse Paris, tuo fratello?

– Mio fratello! disse Silvina. Questa sera, questa sera per la prima volta, ti ricordi d'essere mio fratello! Ma poi, soggiunse dopo una breve pausa e alzandosi in piedi d'un tratto, che importa a me che tu sia mio fratello? Lasciami andare via di qui. Io non debbo a te nessuna spiegazione: nessuna!

Fece un passo verso l'uscio. Ma io mi posi fra lei e l'uscio, e la supplicai:

– Silvina, Silvina, ascoltami! Ti parlo così perchè debbo parlarti così. Non sei che una bambina, eppure non hai fiducia che in te sola. Dimmi, per carità: chi è questo Silvio? Chi è questo Silvio per te?

– Silvio? domandò Silvina con voce piena di stupore. Quale Silvio?

– Ma Silvio, Silvio! esclamai, quel giovane che è di là ferito! Silvio! Di chi vuoi che parli, se non di quel giovane?

– Credo che tu sia pazzo! disse Silvina con accento compassionevole. Come vuoi che sappia che si chiama Silvio? E che ho da fare io con quel giovane?

– E allora che cosa stavi cercando per terra dinnanzi a quell'uscio, continuai, – e parlando accesi il lume, – che cosa stavi cercando? Non cercavi forse questa lettera – e le mostrai la lettera agitandola per ogni verso sotto il suo viso – questa lettera che tu hai perduto, oggi, rientrando in casa, quando eri mezzo svenuta?

Il viso di Silvina si dipinse di meraviglia. Ella guardò la lettera, guardò me, poi di nuovo la lettera, poi levò gli occhi al cielo, e, giungendo le mani, esclamò con un profondo sospiro:

– Credo davvero davvero che tu sia impazzito!

E allora mi guardò con ironia e si mise a ridere, e incominciò a dar segni di viva impazienza.

– Dunque, domandai, dunque questa lettera tu non l'hai mai veduta? Non sai che cosa ci sia scritto qui! Non ne sai assolutamente nulla!

Silvina si strinse nelle spalle e scrollò il capo.

– Allora, esclamai, quando è così, prendila e leggi!

Silvina esitò un momento, poi con un gesto molto indifferente, anzi pieno di degnazione per me, prese la lettera che le porgevo e incominciò a scorrerla. Arrivò presto in fondo, e il suo viso non si scompose, non ebbe il più lieve moto nè di stupore, nè di contrarietà. Soltanto, quando ebbe finito, inarcò le labbra con disprezzo e mi restituì la lettera senza parlare.

– E ora, le domandai, neppure ora hai nulla da dire?

– Sì, rispose, ora ho qualche cosa da dire. Dico che siete tutti idioti allo stesso modo, voi uomini!

Abbassai il capo e mossi qualche passo per la stanza. Incominciai a dubitare allora che Silvina non avesse davvero mai veduta quella lettera e che Silvio le fosse del tutto indifferente. Forse non era andata se non spinta da un'innocente curiosità, chi sa per quale capriccio, a spiare all'uscio della stanza di Silvio; ma Silvio non le aveva ispirato nessun sentimento di simpatia, ed ella ignorava persino che fosse innamorato di lei. Chi può scrutare nel cuore d'una fanciulla? Chi può indovinare fino a che punto arrivi l'ingenuità di una fanciulla, che dovrebbe essere tutto candore, tutta innocenza, e fino a che punto una fanciulla possa mentire, fino a che punto sappia fingere?

– Silvina, le dissi con dolcezza, tu non sai, non hai mai voluto sapere il bene che io ti voglio. Ma credimi: tu non hai e non avrai nella vita un amico più sincero, più fedele di me. Io ti amo teneramente, perchè sei la mia piccola sorella, perchè sei Silvina nostra; sei la più piccina, la più giovane. Se tu fossi in pericolo, io mi ucciderei per salvarti. Ora, ti supplico, sii sincera con me: non mi nascondi nulla? Non c'è assolutamente nulla fra te e quel giovane? Se sapessi a che cosa ci conducono talvolta i nostri sentimenti! Tutto ci sembra bello, buono, desiderabile, innocente. Ci lasciamo andare. Le illusioni ci trasportano. La prima mano che ci viene tesa, noi siamo sempre pronti a stringerla con effusione, a riconoscere una mano amica, una mano fraterna. Poi le illusioni crollano, e la realtà è ben triste. Tu potresti anche amare Silvio. Dopo tutto è un bel ragazzo, punto volgare; i sentimenti che egli esprime in questa lettera sono nobili, sebbene piuttosto vaghi, e romantici; a vederlo sembra un ragazzo di buona condizione, un signore, e potrebbe anche offrire ad una ragazza come te una vita agiata e felice. Ma che cosa ne sappiamo noi? Chi è, chi sarà poi questo Silvio?

Silvina, mentre io parlavo, era tutta intenta a intrecciare il nodo della sua cintura. Lo faceva e rifaceva continuamente, e sembrava, più che indifferente, estranea, alle mie parole.

– Tutte le tue supposizioni, disse poi tranquillamente, senza interrompere il lavoro delle sue dita, senza alzare gli occhi su me, sono inutili. Sia chi vuole. A me non importa.

Il fiocco della cintura era ben fatto, ed ella si alzò, e andò dinnanzi allo specchio a rimirarsi. Con piccoli tocchi delle dita, leggieri, aggraziati, precisi, ne volle perfezionare ancora la forma che era già abbastanza perfetta. Si specchiò di fronte, di fianco, di schiena, e specchiandosi disse:

– Io vi trovo semplicemente ridicoli, tutti e due: tu con i tuoi dubbi, lui con le sue dichiarazioni. Non ho bisogno di nessuno, io; nè di protettori, nè di innamorati. L'uomo che deve piacere a me non è forse nato ancora. Se dovessi innamorarmi di tutti quelli che mi guardano, ah! ah! Paris, credimi: dovrei esser morta già mille volte trafitta da mille occhiate!

Pronunciate queste parole Silvina si staccò dallo specchio, e senza neppure voltarsi a guardarmi, uscì dalla mia camera e si rinchiuse nella sua con due giri di chiave. Io rimasi un momento perplesso a guardare l'uscio per il quale se ne era andata, silenziosa a piedi scalzi; poi feci la lettera in mille pezzi e li gettai dalla finestra. Che infinito silenzio! Che infinito spazio! Poveri noi, piccoli uomini, fratelli, sorelle, amanti, gelosie, litigi, contrarietà, delusioni, attaccamento alle cose d'ogni giorno, limitazioni, divieti, paura della vita! Silvina nel vano della sua finestra, alla luce della luna, stava sciogliendo le sue trecce bionde, che a quel lume pallido eran d'oro pallido.

 

– Silvina, dissi sottovoce, ma abbastanza forte per essere udito da lei, guarda che meravigliosa notte, quale divina gioia sarebbe morire! Ma tu vivi, vivi felice, Silvina! Sii altrimenti felice!

Silvina ripiegò indietro il capo e i capelli le caddero sulle spalle; scrollò il capo e i capelli sciolti si agitarono e si sparpagliarono sulle sue spalle, circondandole il viso d'un nembo d'oro.

– Silvina! Silvina! esclamai, difendi la tua giovinezza, salva la tua innocenza! Perduti questi beni, notti simili a questa non se ne godono più con gioia…

Silvina chiuse le persiane, e scomparve. Fui riscosso dal passo di Battista nella stanza dell'ammalato. Lasciai la finestra e andai a vedere che cosa faceva Battista. Egli era curvo sul capezzale di Silvio, e versava dell'acqua in un bicchiere.

– Non si agiti così, diceva, le farà male. Beva piuttosto un sorso d'acqua, e cerchi di riposare ancora.

Ma egli non vedeva che Silvio, quantunque avesse gli occhi aperti, non era sveglio, e non comprendeva le sue parole, e forse nemmeno le udiva. I suoi occhi erano dilatati nel delirio; parole rotte e sconnesse uscivano dalla sua bocca. Erano:

– Amore… giuro sulla vita… vi ucciderò… fuggite fuggite…

Ad un tratto udii, udii distintamente che, come in un sospiro, disse:

– Silvina…

V

Tre giorni dopo Silvio lasciò il letto e prese commiato da noi. Silvina uscì dalla sua camera proprio nel momento in cui Silvio baciava la mano a mia madre, e si mostrò per un attimo appena nell'arco della scala. Ma quell'attimo bastò a me ed a Silvio per vedere che ella portava una bella rosa rossa alla cintura. Io ne ebbi il cuore trafitto e, nella mia sconfinata stupidità, arrossii per lei di quel gesto. La notte seguente Silvina, mentre tutti dormivano, fece un piccolo involto delle cose sue più care, attraversò il frutteto e, per la piccola porta dell'orto dove Silvio la stava aspettando, se ne fuggì. La mattina mia madre andò come sempre a bussare all'uscio della sua camera. Entrò, trovò la camera vuota, il letto intatto. Io ritornavo allora dalla mia caccia d'insetti; avevo raccolto alcune «monachelle» verdi lungo la roggia: avevo visitato il mio formicaio. Ero lontano mille miglia dalla mia vita, la testa piena di strane idee sulla potenza della natura che governa l'universo intero con una legge sola, e fece l'insetto e l'uomo allo stesso modo, Daria e la mantide assolutamente simili; l'una dotata di occhi dolcissimi, di una bocca soave, d'una carne diafana e profumata, d'una intelligenza sottile per sedurre i maschi della sua specie; l'altra tutta colorata del più tenero verde, con ali meravigliosamente trasparenti ed iridate, e d'aspetto così pio da ingannare non soltanto gli insetti, ma gli uomini, che la chiamano «monachella» anzichè chiamarla «pantera». Prega, prega sempre la «monachella» con le braccia congiunte, il collo torto, i grandi occhi ipocriti levati al cielo. Sembra che non faccia che sospirare avemarie. Verso la fine di agosto, quando cadono più stelle dal cielo che dal susino susine mature, e il ciuffolotto per la selva vede con gioia arrossire i corbezzoli, ecco un giovine mantide innamorato dell'amore che, dopo aver molto girovagato qua e là per le insalate, vede alfine all'ombra d'una foglia di zucca, sul bordo del ruscello, la creatura dei suoi sogni lungamente desiderata, sospirata con spasimo. Divina creatura! Una Beatrice. Assorta nella mistica visione del paradiso, ella è l'immagine viva della sorella-amante, la purissima, la pietosa, la consolatrice. Ed ecco, per attrarre sopra di sè misero i suoi sguardi sublimi, il mantide apre le ali variopinte e le agita, le fa vibrare di delicate armonie, finchè gli sembra che gli occhi di lei ora confondano in un unico sguardo l'immagine lontanissima di Dio e la sua persona presente. Legge un invito amoroso in quell'affascinante sguardo, e, tremando, le si avvicina e l'abbraccia sospirando: – Mia! Finalmente mia! Questo innamorato è un bel maschio agile, vigoroso, ardente. Passano ore lente d'ebbrezza. Beatrice lo tiene stretto come in una dolce catena; egli si abbandona felice. Poi Beatrice lo prega languida: – Dammi la tua nuca che io la divori di baci! Egli le offre la nuca, e Beatrice gliela morde, ed egli le sospira: – Uccidimi! Uccidimi! Non vorrebbe veramente morire. Vorrebbe poter desiderare così la morte per tutta la vita, stretto in quel delirante abbraccio. Ma la pia «monachella» lo ha già morso, e prima che egli abbia potuto ripetere: – Deh! Uccidimi! – è già morto, e ora Beatrice, incominciando dal collo, giù giù tutto se lo divora, finchè non rimarranno che le ali, le belle ali con le quali egli s'illuse di conquistarla, le belle ali che scoloriranno al sole come petali caduti ad un fiore.

Pensavo appunto che gli uomini avevano dovuto circondare l'amore di molte idealità per non vedere l'istinto crudele che lo produce e lo domina, quando m'incontrai con mia madre che scendeva le scale in gran fretta, pallida, gli occhi pieni di lacrime, chiamando con voce angosciata Adalgisa, Marta, Battista, Maria.

– Oh, Paris, Paris, esclamò abbracciandomi. Dov'è Silvina? Dove, dove è andata? Paris, Paris non mi lasciare anche tu…

Ogni ricerca fu vana. A forza d'interrogare quanti passavano dinnanzi alla nostra casa, si seppe di uno che l'aveva veduta uscire a notte dalla porticina del frutteto, di un altro che si era imbattuto, sulla via maestra, in una carrozza a due cavalli dove stava Silvina in compagnia di un giovane dalla fronte bendata. Allora dovetti raccontare a mia madre e a mio padre quanto sapevo di quella fuga, la storia della lettera trovata nel corridoio e il mio dialogo con Silvina. Mio padre montò in furore e minacciò di spianare il mondo. Ma si ridusse a piangere come un bambino e da quel giorno non fu più l'uomo sereno e gioviale di un tempo. Mia madre anche pianse, e pregò molto devotamente, come se Silvina fosse morta ed ella volesse raccomandarla alla clemenza di Dio. Poi incominciò a sbiancarsi, a spegnersi a poco a poco sotto i nostri occhi, consumata da quel dolore.

Silvio portò Silvina a vivere in città. Egli non aveva più nè cavalli nè carrozze nè denari per comprarsi dei begli abiti di non comune eleganza. Aveva fatto anche lui alla svelta un piccolo fagotto delle cose sue più care, e aveva lasciato padre e madre tristi e soli ad aspettare che la vita gli insegnasse a rinsavire. Era tutto felice di aver sacrificato ogni cosa all'amore per Silvina, come se il fatto di aver sposato con tanto slancio la povertà, fosse il degno complemento del fatto principale: d'avere cioè sposato Silvina a modo suo, rubandola alla sua propria casa contro tutte le regole che inceppano ancora in questo secolo la libertà dell'amore. Silvio era molto giovane; non aveva che ventitre anni. Egli condusse Silvina ad abitare al settimo piano di una casa di operai, in una piccola stanza illuminata da un abbaino, che aveva come giardino un bellissimo vaso di garofani rossi e una scatola di legno con una pianticella di salvia. Affacciandosi a quell'abbaino, si poteva dire di avere l'intera città ai propri piedi, perchè non c'era tetto che lo superasse, e, per uno spazio immenso, era tutto un mare rotto e fumoso di tegole, di antenne, di comignoli, disteso da ogni lato. Silvio celebrava molto la bellezza di quell'abbaino, e, il suo primo pensiero, quando al mattino apriva gli occhi svegliato dal sole, era quello di precipitarsi a spalancarne le imposte, gridando: – Libertà, libertà, che è sì cara!

Silvina che dormiva ancora, si destava a quel grido, e allora Silvio correva ad abbracciarla; poi rovesciava il lenzuolo e così, solo coperta dalla sua camicina, la conduceva dinnanzi all'abbaino, e mostrandole la distesa dei tetti che non finivano mai, le cupole alte delle chiese, le cupole basse dei teatri, i comignoli fumanti delle officine, tutta la città immersa nel sole alto d'agosto:

– Silvina, Silvina, le diceva, amor mio, vedi, tutto ciò ci appartiene! Chi è più ricco di noi?

E Silvina guardava con gli occhi abbarbagliati dalla gran luce il vasto dominio di Silvio, e posando il capo sulla sua spalla:

– Silvio, diceva, come erano belli quei fazzoletti di seta colorata di tanti colori che vedemmo l'altrieri! Brutto cattivo! Non ti ricordi che uno, uno almeno, me lo avevi promesso?

E Silvio rispondeva: – Oh, è vero! Che smemorato! Oggi, oggi certamente me ne ricorderò.

Silvio correva la città tutto il giorno, sotto il sole torrido, offrendo a chi volesse comprarla, anche per poco, la sua divina libertà. – Sono libero, diceva, sono libero come l'aria. Pochi uomini sono liberi come me. Io non ho falsi orgogli da difendere, scrupoli da osservare. Sono giovane, sono intelligente, pieno di volontà. Prendetemi, utilizzatemi, fatemi fare ciò che volete. Non c'è lavoro che non sia buono e onorevole per me. Dove troverete un altro che possa dirvi altrettanto? E tutti lo abbracciavano, gli battevano benevolmente la mano sulle spalle, e dicevano di lui: – Che bravo, che caro ragazzo! Silvio si sedeva sul bordo d'una fontana all'ombra di un tiglio, e contava i pochi soldi che gli rimanevano. Il gruzzolo scemava ogni giorno, ma c'era ancora posto per una mezza dozzina di fazzoletti di seta. Del resto poteva Silvina rimanere senza fazzoletti di seta? Avrebbe egli voluto vedere Silvina asciugarsi le labbra con fazzoletti che non fossero di seta morbida e profumata? Le delicate labbra di Silvina, ch'egli sciupava con i suoi baci ardenti, dalle quali beveva a lunghi sorsi la felicità, che, sorridendo, lo incantavano, e quand'erano tristi lo riempivano di paura? Ed egli si decideva finalmente al gran passo, sceglieva sei colorati e leggieri fazzoletti di seta, e, rientrando in casa, baciava Silvina sulla bocca, le mordeva il labbruzzo, e poichè ella diceva: Ahi! egli con uno di quei fazzoletti nuovi, morbidi e profumati, le medicava il dolore, ridendo felice.

– Ecco, ecco, la medicina! esclamava. Vedi che oggi non me ne sono dimenticato!

Silvina guardava attentamente uno per uno i sei fazzoletti e li contava.

– Mi darai un bacio, ora?

Ed ella gli dava un bacino sulla gota, e diceva: – Peccato! Sei fazzoletti non dureranno molto…

Silvio l'attirava a sè, le copriva il viso di baci, e raccontava ciò che aveva fatto, veduto, e detto in città.

– Ah! esclamava, tutti mi vogliono un gran bene. Vedi che cosa significa essere poveri, essere veramente liberi? Non c'è uno che ti consideri come un nemico, o che pensi di attraversarti la via, o che diffidi di te. Al contrario tutti sono pronti ad aiutarti, a darti una mano perché tu possa riuscire…

Guardava intorno le miserabili suppellettili della loro stanza, e soggiungeva:

– Certo questa stanza è troppo misera, troppo nuda. Se non avesse quell'abbaino dal quale si domina tutta quanta la città, sarebbe troppo triste vivere qui. Ma noi potremo cambiare questi mobili, sostituirli con altri meno rovinati e sudici, oppure cercare un'altra stanza, con una veduta anche più bella di questa. Quanto a me, purchè tu mi voglia bene, sarò in ogni modo felice!

Silvina si alzava senza parlare, posava i fazzoletti sul cassettone, e si buttava supina sul letto. Là, con le mani annodate sul capo, contemplava i travi del soffitto imbiancati di calce, seguendo il paziente lavoro che i ragni facevano tra l'uno e l'altro. Allora Silvio andava a sedersi accanto a lei, le prendeva il viso tra le mani e guardandola teneramente:

– Silvina, amor mio, sussurrava, mi vuoi bene? Non sei mica stanca già di me? Non sei mica annoiata? Se tu sapessi come ti amo, come ti adoro! Tutte le altre donne non esistono più per me; è come se non esistessi che tu sola.

Silvina staccava gli occhi dal soffitto, li fissava su lui, lo guardava a lungo, in silenzio.

– Che cosa mi dici con quei tuoi occhi di cielo? le domandava Silvio allora baciandoglieli lievemente. Occhi tutta trasparenza, tutto azzurro! Se non ci intendessimo tra noi, miei cari occhi, questa Silvina cattiva non direbbe mai di amarmi! Ma voi dite: – Ti amiamo, povero Silvio, ti amiamo tanto! – e io sono felice. Non è vero che parlano così i tuoi occhi?

E Silvina assentiva con una piccola mossa del capo, e riattaccava i suoi occhi al soffitto.

Allora Silvio si distendeva accanto a lei, posava la testa sul guanciale, avvicinava la gota alla sua gota, e rimaneva in silenzio a respirare il profumo dei capelli d'oro di Silvina, della sua pelle bianca e liscia, dei suoi abiti che ancora odoravano dello spigo che la mamma distribuiva ogni anno nei guardarobe. E così, preso da una vaga malinconia, egli meditava ad una ad una le sue illusioni, l'amore di Silvina, la gioia della povertà, la benevolenza degli uomini, l'avvenire radioso che lo avrebbe compensato ad usura della fede coraggiosa ed ardente con la quale aveva affrontato un destino incerto, e sopportava ora le difficoltà di quell'avviamento alla vita. L'aria imbruniva, e le pianticelle del garofano e della salvia nel vano dell'abbaino diventavano due neri bizzarri arabeschi contro il cielo viola; le rondini in frotte passavano e ripassavano nel rettangolo pallido, salutando con lunghi squilli il sole morente, e le voci lontanissime che salivano dalla strada parevano anch'esse attutite da quell'ombra morbida che circondava ogni cosa. Allora con il cuore traboccante di tristezza Silvio stringeva a sè Silvina, e, impadronendosi della sua bocca, con voce singhiozzante mormorava: Mia! Mia! e non se ne distaccava più, finchè non la sentiva morire fra le sue braccia.