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Il perduto amore

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IX

Quella macchia bianca mi rimase negli occhi. Quella macchia bianca, senza nè forma nè sostanza, molto vaga e mobilissima, correva innanzi a me mentre andavo strisciando contro i muri, per vie buie e strette, senza veder nulla se non quella macchia bianca che saltava nell'ombra. Dovunque volgessi lo sguardo, la ritrovavo; sul marciapiede, sulle case, vicina e lontana, sempre egualmente mobile e bianca. Chiudevo gli occhi ed essa si rifugiava tra le pupille e le palpebre; e non potevo in nessun modo liberarmene. A un tratto urtai contro un corpo duro e provai un acuto dolore alla fronte. Toccai, e la mia mano si sporcò di sangue; sentii una goccia calda scendermi dalla fronte sul viso. Col fazzoletto premetti la ferita e continuai a camminare. Mi pareva di udire un suono di banda lontano ma molto distinto, una fanfara marziale, con prevalenza di trombe, di tamburi e di piatti, al cui ritmo cercavo di misurare il mio passo. Non sapevo dove andare. La testa mi doleva, e pensavo: – Questa cravatta, questa maledetta cravatta mi soffoca… Finalmente, dietro un arco, vidi una luce scialba nel buio, una porta illuminata. Dall'osteria non usciva nessuna voce, nessun rumore. Spinsi la porta ed entrai. L'oste stava seduto in fondo, dietro il banco, tra le bottiglie e i caratelli. Mi guardò (era guercio) e non si mosse. Io mi sedetti a un tavolo, battei il pugno due o tre volte, e gridai che mi portasse da bere. Egli si alzò, mi portò il boccale e il gotto, e rimase appoggiato all'altra sponda del tavolo, a guardarmi. Mi sembrava che il suo viso giallo e gonfio fosse liscio come una zucca, e che quell'unico occhio, umidiccio e peloso come un ombelico, gli si aprisse in mezzo alla fronte. Quell'occhio mi stizzì a tal punto che, per non vederlo, gli voltai le spalle. Poi inzuppai nel boccale il fazzoletto e incominciai a inumidire la mia ferita.

– Se mai un po' d'aceto, signore, – disse l'oste. – Il vino non serve…

Aveva la voce di una chitarra, di una chitarra fessa.

– Va bene! – gridai inviperito. – Che te ne importa?

Egli se ne tornò dietro il banco, a rintanarsi fra le botti. Il mio dolore cresceva. Se per poco cercavo di dirigere la mia attenzione sopra una qualunque delle cose che avevo intorno, subito rivedevo quella macchia bianca, bianca e inafferrabile, e il mio tormento cresceva tanto da non poterlo più sopportare.

– Ho la faccia sporca di sangue, – pensavo, – ma che importa? Non è questo che mi tormenta. Anche i Ciclopi avevano sangue rosso (rosso o azzurro?) e un occhio in mezzo alla fronte. Erano come scimmie bianche, gigantesche scimmie pelate, i Ciclopi. Ma che importano ora i Ciclopi?

Improvvisamente un colpo di vento sparpagliò questi pensieri sconnessi, mi ricordai e scoppiai in singhiozzi. Piangevo, e tutto ciò che non volevo ricordare mi ritornò alla memoria, e vidi ogni cosa come era avvenuta. – Daria! Daria! – urlavo in me stesso, e pareva che avessi una voce tonante e assordante, una voce immensa. – Daria! – e non sapevo trovare se non questa parola unica, questa parola fatata, e ripeterla in me stesso fino a stordirmi, fino al punto di non comprenderla più. Non sentivo ormai nessun male alla fronte. Il male era tutto dentro, una piaga dolorante e spasimante al posto del cuore, un coltello che mi colpiva, senza tregua, sempre al cuore. In tanta angoscia a volte pareva che la mia vita intera si arrestasse, e l'anima rimaneva sospesa, come sul punto di abbandonarmi.

Infine l'oste si mosse e mi battè sulla spalla.

– Ora basta, – disse. – Ora si chiude e andiamo via.

– Andiamo via? – balbettai. – Ma dove, dove andiamo?

Egli sogghignò. S'era messo un berrettone nero in capo e una sciarpa intorno al collo.

– Queste disperazioni io le conosco! – disse mentre mi alzavo. – Per pochi soldi qualcuna te le farà passare.

Mi sbattè la porta dietro le spalle ed io ricominciai a camminare a caso. Con un certo sforzo compresi che di fronte a me stava il mare e che quella striscia d'argento, interminabile, era la luna sull'acqua, e che quel rumore fastidioso era appunto il rumore dell'onda. La luna fendeva le nuvole grige di perla. – Bum! bum! scioc scioc! cu cu! bau bau! – e di scoglio in scoglio mille grida confuse, lugubri, beffarde, si propagavano con lunghi echi.

– Mi ucciderò! – dissi. – Perchè non uccidersi? È molto semplice, molto facile…

Il desiderio di morire era così forte che già mi pareva d'esser morto e di vedere ogni cosa da lungi, dall'alto di un monte, di una montagna altissima tra le nuvole. Giunsi fino all'estremo limite della spiaggia; poi mi volsi e rapidamente me ne tornai a casa.

Nella mia stanza c'era qualcuno che russava. Era buia, ma nella penombra scorsi una forma umana sul letto: un uomo vestito che russava. Accesi un lume. Sterpoli stava placidamente disteso e addormentato sul mio letto.

– Sterpoli! – gridai afferrandolo per un braccio.

Egli scosse il capo, sospirò, si volse sopra un fianco, senza aprire gli occhi.

– Sterpoli! – gli urlai in un orecchio. – Svegliati!

Allora egli tentò di rizzarsi su un gomito. Ma ricadde subito e cominciò a mugolare:

– No, non voglio… Per amor di Dio… Bambola… Un po' d'acqua. M'è rimasta una lisca in gola…

– Che lisca! – esclamai. – Sono io!

Sterpoli schiuse finalmente gli occhi e si guardò intorno stupidamente. Si toccò la fronte e poi rise, d'un riso idiota idiota, da ubriaco.

– Ah! ah! sei tu? – disse. – Sì, sì, mi ricordo. Ma lei dov'è andata? Mi scappa sempre, quel demonio! Non sta ferma un minuto.

Si mise a sedere sulla sponda del letto e mi fissò attentamente, a lungo, perplesso.

– Scusa, – disse poi, – non ti avevo riconosciuto. Ora ti vedo… Sei tu.

Tese la mano verso di me e ammiccando soggiunse:

– Anche tu hai bevuto. Ti si vede il vino rosso, sulla faccia. E che vuol dire? Si beve. Ma perchè si beve? È chiaro. Si beve perchè si ha sete, molta sete, sempre sete. Tu le dici: – Su via, amore, sii buona. Dammi un bacio, un bel bacio… Porgi la bocca e senti che non c'è niente; non trovi mai niente con la bocca. Dici: – Perchè dunque non vuoi darmi nemmeno un bacio? Sii ragionevole, trottola. Tutti abbiamo diritto di vivere. Non è vero? Ora, che c'è di male se certi uomini hanno un cuor tenero, un cuore di burro? E che c'è di male in un bacio? E lei ride e ti risponde: – Va là, allontanati. Non mi voglio sporcare. Allora è quando si cerca la bottiglia e si beve. Sì, fratello mio: questo ci consola…

Io l'ascoltavo. M'ero seduto accanto a lui, sul letto, rassegnato ad ascoltarlo.

– Fratello, fratello mio… – continuò prendendomi una mano e stringendola fra le sue, – io ti volevo domandare qualche cosa di molto importante. Sono venuto proprio per rivolgerti una domanda. Ho detto fra me: – Quel ragazzo m'ha l'aria di uno che può illuminarmi con un consiglio leale. – E ti ho aspettato. Ora ti domando: – Perchè noi ci consoliamo così presto? Un po' di vino basta dunque davvero? Ah! quanto mi addolora! Tu non sai quanto mi affligga questo pensiero sciocco che un po' di ebbrezza basti per consolarci. Vogliamo forse essere consolati dal vino? No! No, noi non chiediamo queste consolazioni. Tu dici: – No, Sterpoli, ciò ci lascia indifferenti. Ed io ti rispondo che è vero, e che noi non vogliamo consolarci. Noi vogliamo godere. Noi vogliamo amare. Noi vogliamo che quando le diciamo, supplichevoli: – Su, amor mio, mia vita, dammi un bacio! – ella risponda con un bacio. E che questo bacio non mentisca; che ella non pensi, mentre tu senti che in realtà un bacio s'è posato sulla tua bocca, un bacio tepido come una colomba, non pensi: – Contentiamo questa bestia, questo animale cornuto. Noi vogliamo essere amati, fratello, teneramente, appassionatamente, come fanciulli, come malati, come moribondi. Godere dell'amore. Che cosa importa tutto il resto? Che cosa può darci il vino? Il nostro cuore è frollo, delicato, sensibile, dolce come lo zucchero. Perchè esse ce lo rendono duro e amaro, duro e malvagio? E anche questo volevo sapere: perchè amiamo? E che cosa si aspetta da queste femminucce color di cera, da questi piccoli serpenti dorati?

Egli parlava e mi guardava teneramente con occhi semispenti, ma pieni di lacrime.

– È vero… – sospirai, – hai ragione. Non sai quello che dici, ma Dio in persona ti suggerisce.

– Quale Dio? – domandò Sterpoli, aggrottando le sopracciglia. – No, non può essere.

Tacque e scosse il capo. Strinse più forte la mia mano e mormorò:

– Ora ti dirò tutto. Non spaventarti. Non mi insultare. Abbi pietà di me. Sento qualcosa qui, nel petto, che gira. Non è il cuore. Sento anche il cuore. È un'altra cosa. Ora, io non posso sopportare… Questo peso, questo enorme peso, non posso reggerlo tutto da solo. Ascolta. Mi aveva detto: – Da questa sera sarò tua. Sarò per te. Non amo che te. Tu non lo sai, ma io ti ho sempre amato, così, in segreto. Lippi! Non ti pare un nome dolce, un nome amorevole? Un nome da innamorato, da amante? Ebbene: da questa sera sarò tua. Tutto il male sarà compensato. Tu sarai felice. Mi ha detto così ed io l'ho aspettata un'ora, due ore, quattro ore. Pensavo: – Verrà. Fra poco, prima che io abbia contato fino a cinquanta, fino a cento, sarà qui. Avevo preparato un piatto di dolci, un mazzo di fiori, una bottiglia di vino leggiero. Non per consolarmi, ma per goderlo con lei, tutti e due insieme. E, a sera inoltrata, quando attendevo e speravo ancora, quella vecchia maledetta è venuta e mi ha detto: – È inutile che tu aspetti. – Come? esclamo. Non viene? – No, dice, non viene. Non verrà. – Ma dove, dove è andata? La vecchia sogghigna e risponde: – Non so. Certo non è andata lontano. – Per la tua vita! grido torcendomi le mani. O mi dici dov'è, o ti uccido! Allora impaurita balbetta: – Da Clauss… È andata da Clauss! – Basta! Io son cieco d'ira e afferro tutto ciò che mi capita fra le mani e tutto riduco in frantumi.

 

Sterpoli si arrestò ansante.

– Comprendi? – mi domandò.

– Comprendo, – mormorai. – È vero. Erano insieme. Si sono baciati. Li ho veduti con i miei occhi…

– Tu! – esclamò Sterpoli. – Anche tu?

– Anch'io…

X

L'uscio si mosse come se un soffio di vento o una mano leggiera lo sospingesse. Dallo spiraglio spuntarono quattro dita. Poi l'uscio non si mosse più, e quelle quattro dita rimasero così, immobili, nella fessura. Dietro l'uscio qualcuno ora stava spiando nella stanza o attendeva di essere invitato ad entrare. Sterpoli era ricaduto bocconi sul letto, le braccia incrociate sul capo, la faccia schiacciata contro le coltri. Mi alzai lentamente, e, cercando di vincere il tremito dei miei ginocchi, in punta di piedi mi avvicinai all'uscio e feci l'atto di aprirlo. Subito quella mano intrusa scomparve. Ma io trassi bruscamente a me l'imposta e vidi contro il muro, nell'oscurità fonda del corridoio, una ombra confusa di cui non discernevo chiaramente che il bianco degli occhi. Riconobbi subito Soave. Ella fece un passo verso di me. Prima che io avessi il tempo di parlare, mi prese con forza per la mano e mi tirò fuori dell'uscio, che rapida ella stessa richiuse alle mie spalle senza rumore. Quando fummo tutti e due nel buio, non staccò la sua mano dalla mia, anzi la strinse più forte e se la premette sul seno, mentre con tutto il corpo aderì al mio corpo, tanto che sentivo il suo cuore battere contro il mio.

– Pazza, pazza, – dissi con voce soffocata, – che cosa vieni a fare qui a quest'ora? Questa non è casa mia. E come hai potuto entrare?

Dai suoi capelli, con la densità di un fumo di incenso, vaporava contro il mio viso un odore acuto di gelsomino che io penavo a respirare. Il suo cuore batteva sempre più forte. E non parlava.

– Rispondi! – esclamai con forza. – Rispondi e vattene, vattene subito…

Ma per tutta risposta Soave mi trascinò verso il fondo del corridoio e si fermò soltanto sulle scale, dinnanzi alla grande finestra illuminata dalla luna. Allora, guardandomi fissamente con i suoi immensi spiritati occhi, mi bisbigliò:

– Dov'è Daria?

I suoi occhi erano veramente pieni di spavento e di follia. Le sue labbra, il suo mento tremavano, e le sue mani non cessavano un istante di aggrapparsi alle mie, convulsamente, come se avesse voluto spezzarmele. I suoi capelli erano arruffati e le piovevano in tanti radi ciuffi sulla fronte e sulle gote. Il suo povero corpo scompariva nelle pieghe di uno scialle di lana nera.

– Dov'è Daria? – ripetè con l'accento della disperazione. – Dov'è? Dov'è?

Io mi sentivo morire. Nuovamente il mio cervello si riempiva di confuse e plumbee nuvole, e dinnanzi ai miei occhi tutto ricominciava a rotare. Per non cadere chiusi le palpebre. Risposi con un filo di voce:

– Non so… Da Clauss. L'ho lasciata laggiù.

– Ah! – esclamò Soave. – Dunque non mi ero ingannata! Non era lei nella tua stanza!

– No, – dissi, – non era lei. E mi salì alla gola un rantolo di riso.

– E chi era nella tua stanza? – domandò Soave, con tono imperioso.

– Non ti riguarda, – risposi. – Del resto, se vuoi saperlo, era Sterpoli, quello che conosci.

– Lui! lui! – gridò Soave, e fece un moto improvviso come se avesse voluto fuggire. Ma io soffocai le sue grida chiudendole la bocca con una mano, e afferrandole un braccio la costrinsi a rimanere.

– Non gridare, idiota! – le ordinai infuriato. – Vuoi destare tutta la casa?

Soave si lasciò cadere sopra un gradino, e come svenuta si abbandonò contro il muro. Poi riaprì gli occhi, e levandoli umilmente su me, sussurrò:

– Non sai dunque nulla? Kate era appena rientrata in casa, ed io mi stavo spogliando. Era già tardi. Kate piangeva e non riuscivo a farla parlare. – Ma parla, dunque, per l'amore di Dio! supplicavo. Che cosa è accaduto? E lei singhiozzava e non riusciva a spiccicare una nota. Improvvisamente si ode un tonfo alla porta, uno schianto, e lo sbatacchiare delle due imposte contro il muro, un tumulto di passi su per le scale, e un mugolio sordo che sembra di belva. Sterpoli, lui, proprio lui, si sente correre per le stanze gridando: – Dove siete, maledette ruffiane! Fuori! Fuori, ch'io vi scanni! Tutta la credenza della stanza da pranzo precipita con un fracasso enorme, tutto va in pezzi, sembra che crolli la casa, e sento Kate che grida: mamma mia! Io non mi muovo: ero fredda come il marmo. Si direbbe che tutti siano morti. Non odo più nulla. E poi la voce di Sterpoli grida: – E ora scanno quell'altra! – e si butta giù per le scale. I suoi passi si allontanano per la strada, ed io con il cuore in bocca mi affaccio sull'uscio, e vedo Kate lunga distesa fra uno sterminio di bicchieri, le sottane rovesciate, come morta. Ma non era morta. Apre gli occhi e dice: – Madonna mia perdonatemi… E si mette in ginocchio e prega. Mi avvicino a lei, e quando vede che sono io: – Brutta bastarda, – dice, – ti fosse cascata la lingua per il troppo gridare! E si mette a piangere e a battersi il petto: – Maria Vergine, perdonatemi voi… Io penso a Daria e a Sterpoli che è impazzito, e prendo questo scialle, e mi butto anch'io per le scale, e corro corro a casa di Clauss, e, arrivata dinnanzi al cancello, vedo Sterpoli che ne esce. Il vicolo è stretto e non posso più fuggire. Mi faccio piccina contro il muro. Sterpoli cammina adagio, si ferma a ogni passo come un ubriaco, parla a voce alta, e ride. Mi passa dinnanzi senza vedermi. Ma, non so come, a un tratto si volta, e allora i suoi occhi si fissano dalla mia parte, e torna indietro. Io mi nascondo il viso nello scialle e non vedo più nulla. Lo sento che è a un passo da me, la terra che sgrigliola sotto i suoi piedi, lui che dice: – Sii buona, rondinella. E mi pare che mi stia addosso e che voglia abbracciarmi. Allora spicco un salto e mi butto giù per la scesa come una pazza, mi nascondo in una pianta di oleandro e non mi sono mossa più. Mi parve un secolo. Finalmente Sterpoli passò e disparve. Allora sono uscita, sono tornata su, il cancello era aperto, una finestra era illuminata, sono entrata in giardino, ho chiamato, nessuno ha risposto… Ho avuto paura che qualcuno dalle ville vicine mi udisse. Ho aspettato. Poi ho pensato a te e sono venuta a cercarti.

Tacque e incominciò a singhiozzare.

– Bene! – dissi io. – E dopo tutta questa storia perchè Daria dovrebbe essere qui con me? Che cosa sono io? Che cosa è Daria? Finitela con questa commedia! Non temere. Sterpoli non ha scannato nessuno.

– Sì, ma allora, dimmi, dove sarà?

– E che importa a me di saperlo? – risposi. – Vuoi che io vada a cercarla nel letto di Clauss per farti contenta? E dove vuoi che sia? Vuoi che ti porti io per mano dietro la porta della loro camera, e che contiamo insieme i baci che si danno, e gli abbracci, e il resto? Vuoi che io faccia, io, quello che Sterpoli non ha fatto, perchè lui è ubriaco e io sono sveglio? – Ah! sono sveglio, ora, ben sveglio, bambina mia! – esclamai, trascinato da una specie di esaltazione ironica. – Sveglio! Non mica addormentato come oggi! Così avessi veduto sempre tanto chiaro! Non sono più un ragazzo ingenuo, non credo più a nulla. Se tu non fossi tu, ma Daria in persona, e non stessi lì a piangere, ma a supplicarmi, ma ad adorarmi in ginocchio, ma a baciare la terra dove posano i miei piedi, non ti crederei, non ti crederei, e scoppierei dalle risa. Altro che carezze sulla bocca, altro che bisbigli di parole tenere nell'orecchio, altro che sguardi caritatevoli voglio io! E io stesso ti porterei per mano da Clauss e gli direi: Eccola questa sgualdrina! Te l'ho portata. Prenditela…

Sudavo freddo, la testa mi doleva. Nelle orecchie avevo il tumulto di una burrasca. Non ci vedevo più.

– E ora vattene! – dissi. – Vattene via…

La urtai più volte con la punta del piede, ma sopratutto il mio ridere a scatti, a sussulti, dovette spaventarla. Senza altre parole, singhiozzando, Soave scese le scale e scomparve. Mentre, barcollando, disfatto, esausto, ripercorrevo il corridoio per rientrare nella mia stanza, la voce di Sterpoli echeggiò dietro l'uscio socchiuso, chiamandomi per nome.

Entrai. Stava seduto sul letto, voltato verso l'uscio, con la faccia dipinta di paura.

– Ah! – disse, – sei tu…

Abbassò il capo, si passò un fazzoletto sulla fronte e domandò:

– Dove sei stato?

XI

Il silenzio che seguì fu lungo e penoso. Nessun rumore nella casa o nella strada. Una solitudine sconfinata. E in quel gran vuoto, in quello spazio senza limite, noi due seduti sul letto, noi due vicini, noi due soli, sperduti in quel mondo vasto e vacuo come un abisso! Ah! come tutto era ridicolo in noi e intorno a noi: i nostri abiti, le nostre tube nere e lucide sui cuscini; i nostri volti attoniti e quel dolore che affratellava improvvisamente due creature estranee, che ci sospingeva l'un verso l'altro, lui e me, con un trasporto pieno di timore e di speranza; di speranza e di tenerezza; di molta tenerezza e di molto amore. Quanto era accaduto un momento prima, quell'eccitazione crudele, quel barlume di coscienza ironica, tutto era svanito. Rimaneva il peso inerte di un doloroso ricordo già lontano. Una commozione insensata. Uno smarrimento cupo e angoscioso. La prima brezza mattutina entrò con un lieve soffio nella stanza e mi accarezzò la faccia. Finalmente Sterpoli, forse scosso da quella stessa carezza di frescura, mormorò:

– Che fare? Che fare? Ormai è finita per sempre. Ah! non si può tornare indietro: non si può ricominciare da capo. Ognuno ha la sua propria sorte, un destino infame. Non c'è scampo. Non c'è modo di fuggire, d'indietreggiare, di resistere! Una voce è sempre presente, una voce imperiosa che dice: – Ubbidisci! E tu curvi le spalle e ubbidisci, umilmente ti sottometti al tuo destino di schiavo. Che fare? Come potevo io resistere o fuggire? Mi aveva detto: – Sarò tua. Tutto il male sarà compensato. Tu sarai felice! – ed io ero come un prigioniero al quale si dice: – Sta lieto! Domani ti apriremo le porte. Il mondo sarà tuo. Promettere la felicità? Io ero già pazzo di gioia al pensiero che sarei stato felice, che ella sarebbe stata mia. Mia! Perchè questa parola è magica? Quale ebbrezza! Ma d'un colpo, in un attimo, questo sogno rovinava. Con frastuono immenso, con scompiglio spaventoso, questo sogno rovinò sul mio capo, su me, e mi seppellì vivo sotto le sue rovine. – Che fare? – urlavo disperatamente. – È possibile? È vero? – e tutto ciò che toccavo, riducevo in frantumi, in briciole, in polvere! L'idea della morte mi balenò subito nel cervello. Subito la sua figura, schifosa e orrenda, m'apparve e si mise al mio fianco, e mi avvolse con il suo sguardo buio, beffarda e amorevole, spaventosa e attraente. – Che vuoi da me, civetta? – urlavo, ed ella mi additava con gesto servile la sua ghirlanduccia intorno al cranio vuoto, intorno al cranio nudo e risonante, per indicarmi che non tutti i fiori che fioriscono sono di questa terra, di questa terra fangosa e verminosa, di questi giardini che noi irroriamo di lacrime e di sangue! – Morire! dicevo a me stesso. Anche questa è una salvezza, un rifugio, uno scampo. Si può morire. E mi pareva di udire una soave musica di trombe angeliche, lontano e meraviglioso concerto. Di essere libero e insensibile, leggiero e felice. Mi vedevo disteso sopra un letto abbrunato, con questo vestito e questa tuba, e intorno a me s'affollavano uomini e donne che dicevano singhiozzando: – Mi pento di averlo offeso! Mi pento di non averlo amato! Poi ad un tratto tutti si traevano da un lato e Daria si avanzava lentamente, tenendo una rosa rossa fra le dita; s'avvicinava e mi appuntava quella rosa sullo sparato. – Mi pento, diceva guardandomi come una madre guarda il suo bimbo morto. Poi si curvava per posare un bacio sulla mia bocca. Ah! io non sentivo quel bacio! La mia bocca era insensibile. Io non potevo muovermi, alzarmi, abbracciarla, stringerla e tenerla contro di me, e dirle – Vedi? per te mi sono ucciso. Ora mi ami? No: non potevo nè muovermi nè parlare. Allora un uomo si faceva largo fra gli altri, la prendeva per le spalle e la spingeva via. Ed io avrei voluto saltare dalla mia bara (ero disteso in una lunga bara), aggredirlo, insultarlo, percuoterlo su quella faccia impassibile, su quella bocca sempre vittoriosa, urlare: – Lasciala! L'ho pagata col mio sangue! È mia! Ma rimanevo inchiodato tra quei quattro assi ed egli se ne andava con lei, tranquillamente. A che giovava dunque morire? Perchè morire? Perchè uccidersi? E il mio furore cresceva, cresceva la mia disperazione. Improvvisamente mi accorsi di correre lungo una strada buia, sulla quale ogni tanto s'aprivano rare stazioni illuminate, e dietro di me con rumor di zoccoli e di scope, con fracasso di forche e di molle, correva saltando una torma di folletti e di streghe, di spiriti neri e indemoniati. Così giunsi correndo dinnanzi alla casa di Clauss. Mi fermai. Improvvisamente tutti quei folletti svanirono, ed io mi ritrovai solo, sotto una luna livida che sbavava su me la sua luce da cimitero. Il cancello era socchiuso. Guardandomi intorno come un ladro, adagio lo spinsi ed entrai. La casa era buia, silenziosa, deserta: tutte le finestre chiuse e spente. Cauto salii le scale. Qualche cosa che era in una delle mie tasche mi punse la coscia. Trattenni a stento un grido di dolore e continuai a salire. Buio. Silenzio. Odor di fiori, di gigli, di rose. Più mi avanzo e più intorno a me le tenebre s'infittiscono. Mi sembra di essere in un castello fatato e di salire sopra una torre. Ad un tratto scopro uno spiraglio, uno spiraglio sottile sottile di luce: scorgo una fessura illuminata, una piccola striscia gialla e lunga al mio fianco. Quella lingua di luce mi punge, mi spaventa. Vorrei indietreggiare e fuggire. Ma le mie gambe vacillano, la mia testa gira come una banderuola, e sono pietrificato. Le orecchie ronzano e sembra che un frastuono immenso di campanelli riempia la casa. E in quel ronzìo, in quel tintinnìo assordante, odo una voce, la sua voce, e poi uno scoppio di risa dietro la porta. Un passo, sì, un passo si avvicina. La mia anima si sprofonda in un imbuto, mi appiattisco in un angolo, divento piccolo, piccolo e trasparente, invisibile. La porta si apre e un'ombra appare illuminata da tergo, si muove, si avvicina. Ora è a due passi da me, e ora a un passo, e ora mi sfiora, quasi mi tocca. – Chi è? domanda imperiosamente quella voce. So bene che dovrei tacere. Ma non posso. – Sono io! dico come in un soffio. L'ombra si arresta. – Chi è? ripete quella voce. – Sono io, Clauss, sono io! – rispondo. Poi alzo il braccio, lo alzo appena e lo abbasso lentamente, lentamente. Una voce rantolante sospira: – Daria! Aiuto!.. E odo un tonfo e qualche cosa di molto pesante cade di schianto ai miei piedi. – Sono io, – ripeto ancora. E poi più nulla…

 

Sterpoli si alzò. Un'ombra spaventosa era nei suoi occhi. Egli si curvò per baciarmi; ma io liberai le mie mani dalle sue, lo respinsi; inorridito lo respinsi e gridai:

– Vattene! Vattene! Assassino!

Egli fece un mezzo giro su sè stesso e si abbattè ai piedi del letto, come morto.

La candela si spense. Allora un gran panico mi invase, e corsi qua e là per la stanza. Rovesciai una sedia e quel rumore mi gelò il sangue. Mi pareva d'udire passi su per le scale e colpi sordi contro l'uscio, voci rauche, grida arrabbiate. Chiusi la finestra, chiusi l'uscio a doppio giro di chiave, e mi rifugiai in un angolo. Mi raggomitolai in un angolo e attesi. Il buio era opprimente. Soffocavo. Vedevo nelle tenebre, comparire e scomparire, accendersi e spegnersi, strane luci bianche. Qualcuno si muoveva, si avanzava strisciando. Sentivo il suo alito gelido sulle mie mani, e con uno sforzo penoso, sempre più penoso, balbettavo: – Indietro! Non mi toccare! Va via! Va via!