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Il perduto amore

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V

Sposai Luisa. La sposai. Presi per moglie Luisa. Io che volevo lasciarmi morire, che certo avrei finito per uccidermi, fui costretto a riprendere la mia vita come prima. Per lei: per lei sola. Perchè la sposai? Perchè non mi misi a ridere come un pazzo, quando Esposito mi accusò d'aver disonorata sua sorella, anzichè rispondere, come un pazzo, di volerla sposare? Pazzia per pazzia, sarebbe stato meglio che mi fossi messo a ridere senza fermarmi più, finchè non fossero venuti a prendermi con la camicia di forza. Ma Luisa, quando rimase sola con me, quella sera, dopo le mie parole insensate, mi prese le mani e incominciò a baciarmele piangendo e a bagnarmele delle sue lacrime. Io stavo seduto sul letto, con gli occhi fissi su lei, come un idiota. Ma Luisa di quando in quando levava su me il suo sguardo di bambina spaurita, come per domandarmi: Dunque è vero? È proprio vero ciò che ho udito? Tu mi sposi? Tu mi liberi?

Luisa non credette veramente che la sposassi se non quando fummo benedetti dinnanzi all'altare del prete che ci unì. Soltanto allora non dubitò più di essere vittima di un perfido sogno e di doversi ridestare d'un tratto nella consueta realtà della sua vita. Esposito non assistette alle nostre nozze. Dopo quella sera non lo vidi più. Io venni ad abitare qui con Luisa. Divisi con lei, diventata mia moglie, il suo piccolo letto di fanciulla, e la nostra prima notte fu senza amore. Non rispettai la sua verginità, dopo averla sottratta al commercio che voleva farne Esposito, suo fratello; ma rispettai il rantolo di sua madre che riposava in un altro letto, separata da noi appena da una tenda. Luisa mi teneva le mani strette nelle sue e posate all'altezza del cuore, sotto il suo piccolo seno molle, tepido e nudo. Così passò quella notte. Luisa aveva trent'anni, ma ne dimostrava sedici. Veramente non so se la magrezza e la povertà del suo corpo fossero indizio di una giovinezza precocemente sfiorita o che ancora dovesse sbocciare. Era giovane e vecchia. Non aveva età. Io non potei fare a meno di pensare con ironia al caso che dopo avermi negata ogni felicità d'amore aveva voluto infine regalarmi quella gran donna per moglie. Finalmente qualche cosa potevo godere anch'io nella vita! Una donna! E non dico solo una donna, poichè certo ne avrei trovata una ad ogni angolo di strada che si sarebbe lasciata prendere e godere da me per una notte, ma una donna mia, interamente mia, e mia per tutta la vita. Il sogno di tanti anni alfine lo avevo realizzato. Oh! potevo ben considerarmi più fortunato di tanti altri, i cui sogni non si realizzano mai. Avevo una donna mia, coricata nuda accanto a me, in mio assoluto potere. No: non era Daria. Non era propriamente neppure una donna. Io non l'amavo, non la desideravo: non l'avrei nè amata nè desiderata mai. Eppure era mia moglie. Avrei piuttosto voluto alzarmi pian piano, in silenzio, cautamente, da quel letto di sposo, e lasciarla al suo sonno innocente e beato, e andarmene come ero venuto, lontano, e non rivederla mai più: essere generoso con lei come il destino era stato generoso con me. Avrei voluto anche domandarle: – Luisa, se hai sposato me, perchè non hai sposato quell'altro? Se hai sposato me senza amore, e senza amore mi stai ora nuda fra le braccia, non potevi senza amore sposare lui in mia vece, e coricarti al suo fianco? Far contento Esposito ed evitare a me questo atto pietoso? Non sono mica io quello che tu vorresti avere ora vicino e dargli tutta te stessa! E chi sarà dunque mai?

Così venne l'alba, e incominciò la nostra vita in comune. Io non ebbi il coraggio di rivolgermi a Pietro Suavis per chiedergli di essere riammesso al mio impiego. Oltre tutto la presenza di Esposito mi sarebbe stata intollerabile. Rimasi alcuni giorni senza lavoro. Infine fui assunto nella redazione di un piccolo giornale settimanale, che era una specie di bollettino dei mercati e delle fiere della città. Avevo il mio ufficio nell'angolo più buio di una piccola tipografia. Il mio guadagno non sarebbe bastato a sfamare me, Luisa e sua madre se non avessi trovato da racimolare qualche altro soldo come correttore di bozze. Luisa cominciò col cucirmi una camicia, poichè quella che portavo era tutta rammendi e brandelli. Ma la nostra miseria era tale ch'ella dovette rassegnarsi a vedermi addosso quest'abito logoro ed unto, che oggi non è più che uno straccio. Quando rientravo a casa la sera, tardi, con le pupille addolorate per la penosa fatica degli occhi, Luisa mi veniva incontro con il suo mesto sorriso, mi toglieva il cappello dal capo, mi sollevava sulla fronte i capelli disordinati, e, guardandomi pietosa, mi domandava: – Sei stanco? Sei molto stanco anche oggi? E siccome io scrollavo il capo sconfortato senza rispondere, ritraeva la mano già alzata per accarezzarmi e se ne andava a capo chino presso il fornello, dove c'era la pentola della minestra a bollire. Io mi lasciavo cadere di peso sopra una sedia accanto al tavolo e guardavo sua madre, che mi fissava muta tentennando il capo, con quei suoi occhi senza pensiero che parevano intenti a decifrare i tratti del mio viso, come per indovinare chi fossi io, quell'intruso dai capelli arruffati, dalla barba incolta, che ogni sera entrava silenzioso e si sedeva da padrone a quel tavolo. Ed io, esasperato dalla fatica della mia giornata, dallo spettacolo di quella tristezza e di quella miseria che mi vedevo d'intorno, da quella ripugnante immagine del dolore e dell'idiozia che mi fissava tremando, avrei voluto afferrarla per le spalle, e, facendole sbatacchiare la testa come ad un fantoccio di stoppa, avrei voluto rispondere: – Chi sono? Ora te lo dico chi sono. Sono uno che era sull'orlo della felicità, di quella felicità dalla quale tu mi guardi con il tuo ghigno di ebete. Ed ora se ne è allontanato per sempre, per sostentare il tuo corpo di bestia e quello tisico di tua figlia! Per sfamare voi due, io vivo e fatico e mi accieco dalla mattina alla sera. Per pietà di voi due io mi sono rassegnato ad essere il più ridicolo e il più infelice degli uomini… Ma perchè ci ostiniamo tutti e tre a vivere? Su via, madre nostra: dacci l'esempio… E le avrei tirato il collo come ad una vecchia gallina. Ma Luisa con la scodella fumante e colma, camminando in punta di piedi, trattenendo il respiro per paura di versarne una goccia, mi veniva accanto, e quando mi aveva posato il piatto dinnanzi, allora soddisfatta mi sorrideva del suo sorriso buono e innocente di bambina intristita.

– Mangia, povero piccolo, mi diceva posandomi una mano leggiera leggiera sopra una spalla. È buona, vedrai… Ti farà bene.

Ed io, distratto improvvisamente dai miei lugubri pensieri, sentivo nascere dentro di me un'ilarità cattiva, che avrebbe voluto prorompere in un riso sguaiato, rovesciarsi brutalmente su tutta quella tristezza.

– Piccolo, a me, a me, piccolo! pensavo con una smorfia beffarda. Io, qui, vecchio e sfiancato, brutto e sporco come un cesso, io qui un rifiuto d'uomo, con una faccia da ergastolano, con tutto il mio dolore, e la mia pena, e la mia stanchezza scritta sulla fronte, io, io, mi si chiama così, come un bambino: povero piccolo, povero piccolo! Chi ti crede, bella mia? Chi vuoi che la beva? Non mi vedi mica tu quanto sono brutto e sporco, miserabile, e vecchio, e stracco; quanto sono ripugnante ed odioso; come sono irritato e cattivo!.. Niente affatto piccolo. Povero: povero sì. Ma povero diavolo, povero cane, povero idiota… Ecco i miei veri nomi. E tu li sai, via, cara Luisa: li sai meglio ancora di me!..

Mi curvavo sulla minestra e mi mettevo a mangiare in silenzio. Luisa con una mezza scodellina allora mi sedeva di fronte, e v'intingeva appena la punta del cucchiaio, e non mangiava che con la punta delle labbra. Bastava ch'io levassi gli occhi dal piatto e facessi un gesto vago, indeciso, un gesto qualunque, il più insignificante, il più indeterminato, per vederla saltare in piedi e sentirla domandare premurosa:

– Che cosa vuoi, dimmelo, caro? Il pane? Ah! Il sale…

E correva a prendere un cartoccino di sale pestato e me lo scartocciava dinnanzi. Io non volevo il sale. Non volevo nulla.

– Grazie, le dicevo, secco, irritato da quell'esagerato zelo, non voglio sale… Ce n'è anche troppo…

Luisa s'alzava per tempo la mattina: prima di me. Sgusciava dal nostro lettuccio stretto senza che io la sentissi, e per prima cosa accendeva il fornello e riscaldava il caffè. Poi lustrava le mie vecchie scarpe, e con infinita pazienza smacchiava il bavero, le maniche e i calzoni del mio abito tutto unto e sdrucito. Poi, vestita sua madre, le lavava il viso e le mani con una pezzuola inzuppata, e la conduceva a sedere sulla poltrona. Tutto questo in punta di piedi e scalza, quantunque si fosse d'inverno, per non destarmi. Mi destava quando tutto era in ordine, il caffè caldo. Mi toccava leggermente una spalla e mi sospirava quasi sul viso un: – Dèstati, Paris… Paris, ti svegli?.. Io, la mattina, avevo il sonno stanco e pesante. Ella temeva di sentirmi gridare, di vedermi adirato. Aspettava qualche minuto, zitta, immobile, per conoscere l'effetto del suo primo richiamo. Io non l'avevo udito nemmeno, non mi muovevo, continuavo a respirare profondo e grave, addormentato. Allora la sua mano mi si posava sul capo e un poco più forte la sua voce diceva: – Paris, è tardi… Ti svegli, Paris? Finalmente mi svegliavo, e la prima cosa che vedevo svegliandomi era quel sorriso malinconico e pietoso sul visuccio di Luisa.

VI

Era una santa? L'avrebbero beatificata un giorno? Ci sarebbe stata una Beata Luisa di Paris? Ah! Ah! Una buona, una devota serva: secondo la mia opinione d'allora questo era Luisa, mia moglie.

Tutto il giorno io lo passavo fuori. A mezzodì la mia colezione consisteva in un pezzo di pane inzuppato in un po' di vino. Nessuno degli operai che lavoravano in quella tipografia era miserabile quanto me: un borghese. Luisa, quando aveva ripulito tutta la casa, si metteva in capo il suo cappellino spennacchiato, al collo una sciarpetta di lana, e andava a misurar camicie ai suoi clienti. Il suo mestiere era infatti di tagliare e cucire camicie da uomo. Questo lavoro non le rendeva quasi nulla, ed io veramente ho sempre pensato che le servisse più che altro da pretesto per uscire e rimanere lunghe ore fuori di casa. Ma non ero geloso. Non me ne importava nulla di lei. Io non la consideravo neppure una moglie. Era una cosa, niente altro che una cosa, per me. Ma anche Luisa aveva le sue piccole vanità. Quando si vestiva per uscire, il suo povero cappellino se lo appuntava con civetteria sulla fronte, e non si staccava dallo specchio senza prima essersi assicurata che i due ricciolini, sulle orecchie, fossero bene inanellati. Il suo modo di camminare per la strada era franco e disinvolto, mentre in casa aveva sempre l'atteggiamento d'una persona timida ed impacciata. Era donna, in fine, Luisa, come tutte le altre.

 

Un giorno di domenica, la mattina ero ancora a letto, e Luisa si vestiva per uscire. Quando fu vestita, come sempre si sedette dinnanzi allo specchio e incominciò ad arricciarsi con la punta delle dita i capelli corti delle tempie. Non erano nè i capelli neri di Daria, nè i capelli biondi di Silvina. Erano castano-grigi i capelli di Luisa. Erano dei brutti capelli. Mentre facevo fra me questa considerazione, ella vide nello specchio che la guardavo. Arrossì tutta, d'un tratto, e confusa si volse verso di me.

– Perchè mi guardi così? mi domandò cercando di sorridere, timida.

– Niente, risposi anch'io confuso. Non ti guardo più.

– Ti dispiace? mi domandò allora Luisa senza più sorridere.

– Che cosa? Che cosa mi dispiace?

Luisa esitò un istante.

– Credevo, soggiunse abbassando gli occhi, credevo che ti dispiacesse di vedermi allo specchio. Sono così brutta, Paris…

Poi nascose il viso sempre coperto di porpora e mormorò:

– Vorrei essere bella… bella… bella…

Io mi misi a ridere. Luisa, piegatasi sul tavolo, ruppe in singhiozzi. Il mio primo impulso fu di alzarmi per picchiarla. Ma mi girai sopra un fianco e le voltai la schiena.

– Che cosa sono queste scene? gridai. Che cos'è questo piangere? Spetta forse a me di consolarti? Per me sei bella: bellissima. Per me sei anche troppo bella… Finiscila, Luisa! Ci sono mali peggiori… Se si deve piangere, piangiamo per qualche altra ragione.

Luisa cessò di piangere. Forse continuò a piangere, ma pianse in silenzio.

– Guarda, adesso, che storie! pensavo. Lo racconta a me, che non è bella. Le ho mai chiesto di essere bella, io? L'ho forse mai rimproverata di non essere bella abbastanza?

– Come siete curiose voi donne! dissi forte. Non avete il più piccolo senso dell'opportunità.

Dopo un poco Luisa si alzò, si avvolse la sciarpa di lana due volte intorno al collo e si incamminò verso l'uscio. Con la mano posata sulla maniglia, rimase un momento a guardarmi.

– Mi devi credere ben sciocca, tu, Paris, mormorò.

Non mi mossi. Allora ella si avvicinò a me e mi disse umilmente:

– Paris… Mi perdoni?

– Sì, sì, risposi, ti perdono. Di che? Ti perdono, ti perdono…

– Non così, ti prego, Paris… Lo so: sono tanto sciocca… Ma tu devi compatirmi.

– Sì, cara, sì, sì, risposi questa volta con voce dolce, da ipocrita. Non ci pensare più… Ti ho già perdonato.

Luisa uscì ed io rimasi a ridere di me stesso. – Ma se non le chiedo nulla! pensavo. Che cosa vuole ancora da me? Se lei non è bella, che cosa sono io, al suo confronto? Non sarò certo il suo tipo. Ogni donna, infatti, ha un tipo suo d'uomo. E quantunque il più delle volte le donne finiscano per amare proprio un uomo che non è il loro tipo, io veramente non potevo essere il tipo di nessuna, nemmeno quello di Luisa. Ciò che m'irritava contro di lei era appunto quel suo continuo mascherare la gratitudine, che certamente nutriva per me, che la rendeva così docile, così sottomessa, così affettuosa, così premurosa in ogni suo atto e pensiero, era proprio questo volerla mascherare da amore, mentre amore non poteva essere, che mi irritava contro di lei. E anche la sua gratitudine in fondo mi irritava. Avrei voluto diventare ricco d'un colpo, o soltanto ricuperare la mia agiatezza d'un tempo, per far sì ch'ella non si sentisse più in obbligo di lavorare per me, di alleggerirmi del peso dell'esistenza sua e di sua madre, adattandosi alle fatiche più umili e mortificanti per pagarmi il suo debito di riconoscenza. Ma, infine, perchè dunque mi affaticavo tanto per una cosa di così poco conto? A me bastava di vedere chiaramente quale fosse la mia vera situazione di fronte a Luisa, senza lasciarmi ingannare dalle apparenze. Sopratutto mi bastava di vivere andando alla deriva, sottoponendo il mio corpo a tutte le pene necessarie, costringendo i miei occhi a consumarsi sulle bozze nella falsa luce della tipografia, il mio stomaco a sopportare l'appetito come una regola di perfetta igiene, i miei poveri piedi a guazzare nell'umidità del fango che mi riempiva le scarpe tutte buchi e strappi, a subire le punture gelide della tramontana invernale le carni mal difese da quella ragnatela di vestito; ma lasciando inerte e addormentato il mio pensiero, il cervello arrugginito, l'anima lontana, ignara, assente. Così, soltanto così, mi sentivo ancora la forza di vivere.

Luisa rientrò poco dopo con un mazzolino di viole mammole, che si affrettò a mettere in un bicchiere. Il bicchiere lo posò poi in mezzo al tavolo, e mi guardò come perchè le dicessi:

– Oh! un po' di fiori… Brava piccola! Hai fatto bene a comprare questo mazzolino di viole.

Ma non dissi nulla e pensai:

– Tutte trovano chi regala un mazzolino di fiori. Povera piccola! Anche tu hai diritto alle tue illusioni…

– Non ti piacciono? mi domandò Luisa, vedendo che continuavo a tacere.

Prese di nuovo in mano quelle poche viole e le odorò, e avvicinatasi a me disse:

– Senti che profumo di primavera…

Me le porgeva perchè le odorassi. Vi accostai appena il naso. Dissi semplicemente:

– Buono…

Allora Luisa disse:

– Le ho comperate per te. Credevo che ti piacessero i fiori. Ce ne erano tante. Costano appena tre soldi…

– Tre soldi, tre soldi, brontolai io. Ci vuol poco, giusto, a sudarli, tre soldi!

Luisa disillusa abbassò la fronte.

– E anche per lei, soggiunse poi, a voce bassa, indicando sua madre. È la sola cosa che la faccia ancora sorridere.

Si voltò e si avvicinò alla poltrona dove era seduta sua madre, nel vano della finestra.

– Mammuzza, le disse, senti come sono profumate…

E le accostò il mazzolino alla bocca.

La vecchia perdeva un filo di bava dall'angolo delle labbra e tentennava la testa facendo no no no, sempre no, e tutte le cose no, a tutte le parole no, sempre sempre quel no no no che non potevo sopportare senza un senso di irritazione profonda, quasi non fosse il moto involontario di un'idiota, ma una sua negazione cosciente e beffarda di tutto ciò che vedeva e udiva e le passava dinnanzi. Ma quando ebbe le viole mammole sotto il naso, il suo viso di mummia io lo vidi subitamente illuminarsi di un sorriso macabro, come quello di un teschio in un grottesco di Goya; e la sua testa cessò di oscillare. Allora notai, che così, disteso da quel sorriso, il viso della madre somigliava al viso della figlia come ogni caricatura somiglia all'originale. Era proprio Luisa, ottantenne ed idiota, che sorrideva in quel viso odioso! Ella sarebbe stata così un giorno… Così: ed io avrei dovuto farle odorare dei fiori per provare se qualche cosa della sua anima vivesse ancora… Anche costei era stata giovane come Luisa ed era stata amata. Anche lei era uscita le domeniche vestita a festa, e aveva ricevuto in dono un mazzolino di viole mammole da qualche spasimante accorato… Anche lei aveva preteso di allietare con il suo amore la vita di un uomo, e forse di due o tre uomini nello stesso tempo; ed essi l'avevano considerata come un ornamento della loro vita, come un bene desiderabile e degno di essere conquistato, goduto e difeso. Si sarebbero uccisi per lei… L'avrebbero uccisa… Forse avevano sofferto e pianto, s'erano disperati per lei… Questo era l'amore che avrei dovuto chiedere a Luisa, che ella sembrava volesse offrirmi con quelle prime viole d'inverno…

Allora mi rivoltai e le dissi:

– Luisa, siamo marito e moglie: dovremo vivere forse lungamente insieme. Ebbene: sappi che non amo nessuna di queste cose che quasi tutti gli altri amano. I fiori, i dolci, i sorrisi, le tenerezze, non mi piacciono. Queste cose mi commovevano un tempo. Ora non le sento più, Luisa… Non le posso più sopportare… La vita ha distrutto in me tutto ciò che sapeva di poesia: tutto. E ricordati che se ti ho sposato, ti ho sposato per me, per me solo, perchè mi faceva piacere sposarti e per nessuna altra ragione…

Così le parlai dolce e cattivo. Luisa non fiatò, ma da quel giorno fu un'altra donna con me.

VII

Era questo il nostro stato d'animo quando Isacco venne ad occupare lo sgabuzzino che io occupavo prima di sposare Luisa: quella cameretta dove ora dorme tranquillo. La nostra vita era come l'ho descritta: una vita grigia, senza gioia, senza pace. Isacco è di natura ciarliero come un merlo. Egli si mise subito a chiacchierare con noi attraverso questo paravento di parete che divide la mia dalla sua stanza. Era accaduto qualche cosa di insolito in città, e, tardi, verso mezzanotte, fummo destati da uno scoppio cupo e lungo come un tuono. Luisa, spaventata, non potè fare a meno di gridare: – Paris, che sarà, che sarà? E Isacco si credette in obbligo di rassicurarla. Doveva essere scoppiato il gazometro. Infatti da dieci giorni gli operai delle officine minacciavano di farlo saltare. Senza dubbio la città sarebbe ora rimasta al buio per intere settimane, poichè le officine elettriche, che erano adiacenti al gazometro, dovevano aver subito gravi danni a causa dell'esplosione. In molti punti della città, in previsione di quella catastrofe, fino dalla sera innanzi i soldati del genio avevano piazzato dei riflettori. E Isacco descrisse a vivi colori l'aspetto delle vie e delle case illuminate da quei fasci di luce bianchissima. – Sembrava tutto un altro mondo, disse. Ogni cosa ha un aspetto diverso da quello che noi vediamo abitualmente… Vatti a fidare ora della realtà!.. E se anche quella che chiamiamo realtà non fosse altro che un'opinione? Vi stupirebbe?

– Poco importa!.. dissi io. E per conchiudere, soggiunsi: – Buona notte…

– Buona notte, signora, rispose Isacco, e tacque.

Dopo un momento di silenzio, durante il quale, indifferente all'annuncio di quei cataclismi sociali, io mi stavo riaddormentando, la vocina di Isacco ricominciò:

– Non vi sembra di udire come un crepitìo di fucilate?

Riaprii gli occhi e stetti un momento in ascolto.

– Non mi sembra, risposi. E ripetei: – Buona notte…

– Buona notte, disse Isacco.

Passarono ancora pochi minuti, durante i quali mi rannicchiai tutto nel mio angolo di letto, con le coperte sul capo. Poi la voce di Isacco domandò:

– Domani mattina si potrà attraversare il ponte? O saremo tagliati fuori dai quartieri del centro?

– Speriamo di no, dissi. E ancora una volta ripetei: – Buona notte…

– Buona notte, disse Isacco.

M'ero quasi riaddormentato, quando la voce di Isacco più sveglia che mai esclamò:

– Questi sono fucili!..

Ma io, fingendo di russare, non gli risposi più nulla.

La mattina dopo veramente tutti i ponti erano sbarrati da cordoni di soldati. Il nostro quartiere era isolato dal centro della città. Tentai invano di passare, spiegando a un sergente come la tipografia nella quale lavoravo fosse proprio subito al di là del ponte. La consegna era rigorosa. Ritornai perciò lentamente verso casa mia, percorrendo un tratto del viale lungo il fiume. Incominciò a nevicare attraverso i rami nudi degli alberi. Il fiume era gonfio. Sempre così silenzioso, si levava allora dalla corrente tutta mulinelli e spume un cupo e lungo boato. Le due rive erano semideserte. Soltanto alle due estremità di ogni ponte c'era radunata una folla che si guardava silenziosa, con buffa curiosità, come se da una parte e dall'altra non fossero stati gli stessi che fino alla sera prima si erano trovati a camminare insieme su quei ponti che allora li dividevano. Già stavo per affrettare il passo sotto la neve che cadeva sempre più fitta, quando qualcuno mi si mise al fianco e mi salutò. Era uno che non avevo mai veduto. Ma subito si fece conoscere.

– Sono il vostro nuovo vicino, mi dichiarò sorridendo. Ve lo dicevo, iersera, che i ponti sarebbero stati sbarrati?

Lo guardai. Era un piccolo uomo più basso di statura molto di me: mi arrivava appena alla spalla. Andava un po' curvo, a passi brevi e ineguali, stretto in un mantellino color cioccolato, con il cappuccio tirato sopra una berretta di panno verde, tonda come una papalina. Doveva avere poco meno di trent'anni. La sua faccia era olivastra pallida, con una rada barba corta e increspata e tutti i tratti propri della sua razza: gli occhi grandi e neri, le labbra leggermente tumide. Sentii che da quel momento avrei dovuto subirlo come una mosca. Infatti, con quelle parole mi si accompagnò, salì con me le scale, entrò con me nella nostra camera. E poi che si fu sgrullata la neve dal mantellino ed ebbe abbassato il cappuccio, si tolse il berretto, e, rivolto a Luisa, le domandò con il tono più naturale del mondo, come se l'avesse conosciuta da vent'anni:

 

– Che ne dice lei, signora Luisa?

Così Isacco si introdusse nella nostra intimità: senza cerimonie, divenne uno di casa. Isacco era commesso in una botteghina di libri usati situata all'angolo dell'Università, molto frequentata dagli studenti poveri. Si credeva, e ancora si crede, un sapiente. Sa a memoria i titoli di centinaia di libri. Conosce la storia dei loro autori, l'anno in cui furono stampati. Ben presto manifestò per me una simpatia esagerata, un attaccamento quasi morboso. Ogni sera veniva ad aspettarmi quando uscivo dalla tipografia e mi riaccompagnava a casa. Se mi vedeva con un viso più buio del solito:

– Capisco, mi diceva, che questa sera non vi va di parlare…

E, facendo uno sforzo che doveva costargli molta fatica, camminava al mio fianco in silenzio, misurando il suo passo sul mio, le mani affondate in tasca, il capo insaccato tra le spalle. Me se per poco avevo il viso sereno, allora incominciava a raccontarmi mille storie diverse e non si stancava di domandarmi che cosa io ne pensassi. Io non pensavo mai nulla di nulla, ma Isacco non si arrendeva facilmente alla mia indifferenza. Spesso non ritornavo subito a casa, ma mi perdevo in lunghi giri per le vie più deserte della città. Senza mostrare nè impazienza nè stanchezza, mi seguiva nei miei vagabondaggi, anche sotto la pioggia o nella neve, come se non avesse altro desiderio che di camminare senza uno scopo in quelle fredde sere d'inverno. Giunti all'angolo della nostra casa, Isacco si separava da me per andare a mangiare in una bettola poco lontana, mentre io salivo quassù dove m'aspettava la mia magra cena. Ma prima di allontanarsi mi diceva:

– Fra poco vi rivedo… Voglio augurare la buona notte alla signora Luisa…

Così bussava discreto alla porta, metteva fra i battenti la sua faccia pallida tutta annerita dai peli e dagli occhi, e domandava dolce:

– Si può?

Io levavo il capo dalla tavola e lo guardavo senza simpatia. Mi era odioso. Non lo potevo soffrire. Lo giudicavo il più grande importuno che fosse mai nato sulla terra e consideravo la sua compagnia come l'ultima delle mie sventure. Ma Isacco, incoraggiato da un mezzo sorriso di Luisa, entrava facendo un profondo inchino alla vecchia che lo guardava dalla poltrona con quei suoi occhi di stupore, e si veniva a sedere fra noi due, accanto al lume.

Io lo trattavo rudemente, quasi con villania, sperando, che, offeso, se ne andasse per non ritornare mai più. Ma Isacco, la sera, non vedeva che Luisa; non si occupava che di lei. Le ripeteva tutte le storie che aveva già raccontato a me durante la strada, e sempre chiedeva che cosa ne pensasse la signora Luisa. Luisa si credeva in obbligo di rispondere, e ne nascevano conversazioni interminabili. A un certo punto, senza parlare, io mi alzavo in piedi e mi avvicinavo lento lento al letto. Incominciavo in silenzio a sbottonarmi la camicia; mi sfilavo la giacca e l'appendevo al piolo. Allora Isacco diceva:

– Lasciamolo che si corichi… Stasera, signor Paris, avete più sonno del solito…

Rimetteva la sedia al suo posto e Luisa lo accompagnava nel corridoio, e là rimanevano ancora a chiacchierare. Io mi spogliavo tutto e mi stendevo tra le lenzuola. Quando finalmente Isacco le dava la buona notte, Luisa rientrava e io le dicevo:

– Basta, basta, per carità! Non la finirete più di parlare… Costui s'attacca come la rogna…

– Piano piano, supplicava Luisa. Lo sai che si sente tutto, di là…

– E che importa a me, se si sente? replicavo. Dico che basta. È peggio della rogna.

Passarono così alcune settimane. A un certo punto Isacco inventò di avere uno zio ricco, che possedeva anche un giardino, e mi capitò davanti una sera con un mazzo di rose.

– Che m'avete detto ieri, passando dinnanzi al fioraio? mi domandò.

– Che cosa?

– Oh! oh! esclamò Isacco ridendo. Non avete detto: «Che belle rose? Un tempo erano la mia delizia, le rose. Chi si ricorda più di quel tempo?»

Era vero. Avevo veduto delle rose carnicine, d'un colore chiaro e vivo come la gota di un bimbo, nella vetrina d'un fioraio, e m'ero lasciato sfuggire quelle parole. Dissi:

– Ebbene?

Isacco mi porse il mazzo.

– Ho pensato a voi, rispose. Le ho colte nel giardino di mio zio.

Presi quelle rose, che erano delicate e profumate, fresche ancora di goccioline d'argento, e vi affondai il viso per odorarle.

– Che soavità, dissi. E le porsi a Luisa.

Luisa le mise in una brocca, posò la brocca in mezzo alla tavola, e mi guardò sorridendo.

– Ah! esclamai senza pensare alle conseguenze che le parole che stavo per pronunciare potevano avere per me, queste sono le vere gioie del ricco! La vita è grama per tutti: per tutti ha un fondo di dolore… Ma alla superficie almeno si hanno delle piccole gioie che versano una goccia di oblio sui più tristi pensieri. Un fiore… Queste rose… E tutto si dimentica per un istante.

– Sì, continuai dopo una pausa, tu per esempio hai freddo: ecco un dolore fisico atroce, una sofferenza che dà la disperazione. Il povero la conosce. Il ricco accende una bella stufa o si avvolge nella sua pelliccia e dimentica che c'è un inverno tetro, la neve, il vento, una desolata stagione…

Isacco che mi udiva per la prima volta parlare, mi guardava meravigliato e non faceva che assentire col capo.

– E tutto forse finisce qui? domandai. Ora, dissi, io ho mangiato, tutti abbiamo mangiato. Possiamo dire di aver fame? Sete? No, certo: non abbiamo nè fame nè sete. Eppure se ci fosse qui, in mezzo alla tavola, una pasta sfoglia, un pasticciotto di crema, e un po' di rosolio, o un bicchiere di vino dolce, non ci sentiremmo forse men tristi? Meno stanchi della nostra giornata? Meno desiderosi di coricarci e di dormire, per non pensare più all'oggi e al domani, alla nostra povera vita di sempre?

– Così è, caro Isacco! soggiunsi battendogli una mano sulla spalla. Io lo so per esperienza. Ma ciò che si è voluto perdere, è inutile che si rimpianga. Allora si finge di credere di non amare più nessuna delle piccole cose che ci davano gioia e piacere un tempo. Addirittura si rinnegano, si disprezzano. Che cosa sono, in fondo, dei fiori? Sono degli stupidi balocchi della natura, una delle tante cose superflue che essa crea, a scapito di tante altre cose necessarie, di cui invece è avara. E a che servono? Quando li hai ben bene tenuti in fresco due giorni, appassiscono e muoiono, e bisogna buttarli via. E i dolci? Siamo forse dei bambini golosi? Vogliamo credere davvero che uno zuccherino ci farebbe contenti? Dobbiamo dichiararci schiavi di una debolezza infantile? Via! Via! Il male è, caro Isacco, che così, a poco a poco, l'uomo discende al bruto. Si riduce, Isacco, alla nostra feroce miseria, alla nostra universale negazione del bene. Con le cose frivole si distruggono anche le cose sublimi, e la nostra vita si riduce arida come un deserto…

Isacco soggiunse:

– È vero, è vero…

Io dissi:

– Ma questa, Isacco, è la nostra vita, ormai…