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Il perduto amore

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III

Mi sedetti al tavolo di Esposito. C'erano sopra tanti registri aperti l'uno sull'altro, con tante polizze appuntate con uno spillo al bordo d'ogni pagina. Ma non osavo toccare quei registri, non potevo toccarli. Avevo detto addio a tutte quelle orribili e stupide cose, e a ritrovarmele dinnanzi ne soffrivo come d'una nausea. Occupavo la sedia di Esposito. Questo era il mio stretto dovere: provare, sedendo a quel posto, che Esposito era presente. Certamente se avessi voluto aprire il cassetto di destra avrei dovuto cercarne la chiave nel cassetto di sinistra. Ma non sentivo nessuna necessità di aprire il cassetto di destra. Anzi non avrei adoperata mai quella chiave. Credevo d'essermi liberato per sempre da quella lurida stanza, di avere risoluto definitivamente il problema, da vent'anni sospeso, della mia esistenza sbagliata. Ora invece mi toccava riannodare quel filo: provvisoriamente, ma dovevo riannodarlo per forza. Eppure non potevo rimanere così immobile senza far nulla. Bisognava fingere di lavorare. Ma in che modo ingannare il tempo? Come occupare la lentezza e la noia di tante ore inutili? Già incominciavo a sbadigliare. Intorno a me non c'era nulla di nuovo. Allora, quasi involontariamente, aprii il cassetto di sinistra della scrivania di Esposito, e vidi subito, posata da un lato, la chiave del cassetto di destra. Il cassetto di destra era chiuso. Ma quella chiave era fatta appunto per aprirlo. All'infuori di quella chiave, quel cassetto non mostrava alcuna particolarità interessante. Era mezzo vuoto, e non vi si vedeva che un mucchietto di carta bianca, un asciugamani ed uno specchio. Forse l'altro, quello di destra, avrebbe offerto alla mia oziosa curiosità pretesti di svago meno limitati e soliti. All'uomo la tentazione d'Eva si presenta a volte sotto forma di serpente o di pomo, tal altra sotto forma di demonio, e può persino, sè vuole, assumere il modesto aspetto di un cassetto chiuso. In certi casi si chiama «sete della conoscenza», in altri semplicemente curiosità. Ma la causa in ogni circostanza, fu sempre la stessa per tutti: ozio e noia da illudere in qualche modo, sia che si tratti di aspettare la fine di un orario d'ufficio, sia che si tratti addirittura di aspettare la morte. Io dunque aprii il cassetto di destra. Sollevati tre o quattro libri di contabilità, con mia grande soddisfazione lo trovai pieno fino all'orlo di carte manoscritte, lettere dalle buste d'ogni colore, e sopra tutto posata una fotografia.

Era, naturalmente, una fotografia di donna: una donna giovane che guardava con profonda malinconia l'orologio appeso in mezzo alla parete, sopra gli scaffali. L'orologio (lo guardai anch'io istintivamente) segnava le 11. Senza dubbio mi trovavo dinnanzi alla donna di cui mi aveva parlato Esposito nel dirmi addio, forse la causa unica e sola del sacrificio che io stavo appunto compiendo, seduto a quel tavolo. Come in tutte le fotografie, così anche in quella lo sguardo era d'una stranezza ridicola e nello stesso tempo sconcertante. Ce ne sono che non vi tolgono mai le pupille di dosso, e comunque le rivoltiate, vi fissano con un'insistenza così sfacciata e odiosa che vi vien voglia di forare i loro occhi con uno spillo. Altre, non si sa per quale legge misteriosa, guardano nel medesimo tempo chi sta loro dinnanzi, e tutte le altre cose o persone che stanno intorno, siano esse vicine o distanti. Queste si ha voglia di schiaffeggiarle, per indurle a fermare sopra un punto solo la loro attenzione. La fotografia di quella signora, o signorina, guardava l'orologio. Era senza dubbio una stranezza come tutte le altre, dovuta al caso. Ma a me venne fatto di pensare che ella attendesse con una certa apprensione lo scoccare di quell'ora in cui Esposito le aveva promesso che sarebbe corso da lei, la mattina di quel, per me, malaugurato giorno. – Datti, datti pace, le dissi allora con acida ironia; se non è arrivato ancora, arriverà fra poco. Eccomi qua: io ne so qualche cosa… E, veramente, avrei voluto per dispetto farla in quattro pezzi. Ma pensai con raccapriccio che, divisi l'uno dall'altro, uno qua e l'altro là, quei suoi occhi avrebbero continuato ognuno per proprio conto a guardare l'orologio. Così accade delle code delle lucertole, che tagliate dal corpo, continuano ad attorcigliarsi come se nulla fosse accaduto. E poi, per l'appunto, quella signora non aveva di bello che gli occhi. Erano due grandi e malinconici occhi neri, in un viso piccino piccino, patito e aguzzo, con un nasino appena disegnato e una bocca dalle labbra sottili sottili, una bocca insignificante. Neppure i suoi capelli, la sua pettinatura, l'espressione del suo volto avevano nulla di straordinario, e nemmeno nulla di notevole. Erano tutte cose comuni. La prima impressione che la contemplazione di quell'immagine poteva suscitare in un uomo era un senso di indifferenza. Subito dopo, un senso di pietà. Somigliava proprio in tutto a quei ritratti che si vedono stampati sui giornali, nelle cronache dei delitti più tristi ed oscuri, sotto cui è scritto sempre e semplicemente: La vittima; e basta un'occhiata per pensare: – Poverina! Aveva il suo destino scritto in fronte! Così era lei, la donna di Esposito. Innamorata, fidanzata, amante? Chi poteva dirlo? Forse le lettere accumulate in quel cassetto, sulle cui buste si leggeva il nome di Esposito ripetuto infinite volte, in una minuta calligrafia femminile tutta uguale. Ne sfoderai alcune. Tutte erano firmate: Armida, fuorchè una, della stessa persona, che era firmata Adì. Era lei! Mi parve che nella sua confusione di parole, al momento di lasciarmi, Esposito avesse pronunciato proprio quel nome.

Le lettere di Armida ad Esposito erano cinquanta o sessanta in tutto, ordinate cronologicamente. Ne trovai di quattro, di otto, di dodici e alcune perfino di ventiquattro pagine fitte. Le ore della mattina mi bastarono appena per leggerne meno della metà. Ma quando le ebbi lette, ed anche prima di arrivare in fondo, sapevo perfettamente che cosa pensare di Armida, molto più che se l'avessi conosciuta da vent'anni. Il ritratto di Armida che dall'insieme delle sue lettere ad Esposito balzava fuori intiero e vivo, non corrispondeva affatto a quello che m'ero figurato poche ore prima nel contemplare la sua immagine. In verità se fra i due c'era una vittima, per quanto vittima fortunata, questa andava identificata in Esposito. Armida doveva essere una creatura ardente e appassionata, una di quelle donne che, amando un uomo sino alla follia, lo distruggono. E il suo viso che non esprimeva che malinconia, dolcezza e rassegnazione! Si erano incontrati alcune settimane prima, ai giardini pubblici. Esposito si era impadronito dell'anima sua con un solo sguardo. «Tu mi hai affascinata come il serpente. Avevi quel giorno negli occhi una luce diabolica. Mi seguivi senza parlare, e mi pareva che strisciassi ai miei piedi. Pensavo: – Ecco, ora mi avvolgerà in una spirale di fuoco. Sarò sua, sarò sua! E tu, con il fiore all'occhiello, che forse un'altra donna ti aveva dato, ti pavoneggiavi specchiandoti in tutti i vetri delle botteghe, e cercavi, con lo stesso sguardo infiammato, di affascinare tutte le altre. Da quel primo istante ho giurato a me stessa: – Sarà mio, ma soltanto mio! Non sarà di nessuna altra, all'infuori di me! Mi avrà, ma a prezzo della sua vita! Non dimenticarti questo giuramento, Esposito, non lo scordare giammai!» Armida aveva un marito. Era descritto così: «L'ho amato veramente un giorno, quando gli feci dono della mia innocenza di fanciulla, e lasciai che cogliesse con le sue mani il fiore dei fiori? Ah! Esposito: se oggi le guardo, quelle sue mani tutte coperte di peli neri ed ispidi, (e vedo invece con gli occhi dell'anima le tue piccole mani affusolate, le tue mani bianche e morbide che m'accarezzano con tanta dolcezza, e sono le mani di un vero signore), e dalle sue mani risalgo alla sua faccia, in cui non c'è neppure un tratto che non sia volgare, col doppio mento, gli occhi stanchi e lividi, la fronte calva, e poi abbraccio con un solo sguardo la sua persona goffa, i suoi abiti trascurati, le sue cravatte di pessimo gusto, debbo confessare a me stessa che mi sono ingannata, e che non ho mai amato quest'uomo! Eppure, perchè nascondertelo, mio caro Esposito? Per tanti anni ho creduto di amarlo. Mi sono data a lui ciecamente. È la vera parola, poichè lo vedo ora per la prima volta nella sua ripugnante realtà». Ed io pensavo alla delusione di quella sciagurata Armida il giorno in cui avrebbe finalmente veduto in tutta la sua realtà anche Esposito. Ma Esposito doveva conoscere, in modo che io stesso non avrei mai sospettato in lui, l'arte di conquistare il cuore di una donna e di tenerlo soggiogato, in perenne stato febbrile. «Da due giorni sei mutato con me, Esposito, diceva un'altra lettera: non sei più lo stesso. Usi strani modi, rimani per lungo tempo distratto e taciturno, quando, risvegliati i sensi nei tuoi abbracci che mi spremono dalle vene più nascoste fin l'ultima goccia di sangue, più che mai avrei sete di te. Tu ami un'altra, Esposito! Sei già stanco della tua Armida! Mostra a costei il segno che i miei denti ti hanno lasciato sulla gota. Dille che quello è il marchio di Armida. Mostrale quella ciocca bruna che porti nella doppia scatola del tuo orologio, e dille: – Questi li ho colti nei giardini di Armida!» Ella trovava una sublime felicità in questo convulso e sanguinoso amore. «Sono felice! Più ti vedo debole, affranto, più m'inorgoglisco, più godo, più ti amo, Esposito! Dico a me stessa: – L'amor mio lo ha vinto così. Tutto ciò che in lui sfiorisce, fiorisce in me. Tutto ciò che vien meno alla sua vita, si trasfonde nella mia. Il mio corpo racchiude la miglior parte del suo!»

Nel pomeriggio continuai la mia lettura. Che cos'è di spaventoso l'intimità di due amanti! Io domandavo ad ogni passo: – Dio mio, dove andranno a finire? E mi pareva di vedere un incendio divampare e crescere sempre più intorno a quei due, e i loro corpi arroventati dibattersi come in un rogo. Infine, secondo le mie previsioni, scoppiò la catastrofe. Una lettera in data 4 dicembre, scritta con una calligrafia disordinata, a stento riconoscibile, diceva testualmente così: «Amore, è finita, è finita! Egli sa tutto. Ha trovato tue lettere. Minaccia di uccidermi. Come sarei felice, amore, di morire per te! Ma invece di uccidermi, ti cerca da ieri in lungo e in largo per la città. Nasconditi e attendi notizie. Tua per la vita». Questa lettera era firmata Adì. Due giorni dopo Esposito riceveva un ultimo biglietto scritto a lapis, sopra una pagina strappata a un quaderno: «Amor mio, diceva quel biglietto, non mi è più possibile sopportare questa pena. Egli mi impone di partire con lui, per strapparmi per sempre al mio amore. Esposito, Esposito! Sento la tua voce che m'invoca. Senti tu la mia? È scoccata l'ora tanto sospirata, in cui una bella morte ci strapperà alle angustie di questa vita per trasportarci in un eterno nirvana… Dopo domani, alle nove in punto, ti aspetterò all'angolo della cattedrale. Porta con te molti fiori… Tua oltre la vita. Armida». Quando lessi queste parole definitive erano le sette di sera. Ahimè! Le nove di quello sciagurato giorno erano passate da un pezzo! Rimasi come inebetito a guardare l'ultima lettera che, tremando, stringevo fra le mani. Avrei voluto alzarmi, chiamare i miei compagni, farli partecipi della mia macabra scoperta. Ma mi sentii incapace di muovere un gesto, di pronunziare una sola parola. E quando il sudor freddo e il tremito di quei primi momenti di commozione furono passati, mormorai con un profondo sospiro: Consumatum est. Senza avere neppure il coraggio di posare un ultimo sguardo sul ritratto della povera Armida, richiusi in fretta le lettere nel cassetto dal quale le avevo tolte. Che fare? Era tardi ormai. Troppo tardi. Immaginavo quella creatura così esile, delicata, fragile, che sotto apparenze tanto insignificanti racchiudeva invece così violenti umori, un'anima di leonessa, una natura felina, giacere immobile accanto ad Esposito, stretta a lui in un supremo amplesso. Ora la vedevo coricata sopra un letto, con i capelli sciolti, il suo corpo mingherlino appena velato dalla camicia, la mano nella mano di Esposito, che era invece vestito da capo a piedi, e sempre con il suo colletto lucido, inamidato. Pareva che l'uno e l'altra dormissero un soave sonno. Ora invece m'appariva rovesciata in un lago di sangue, ai piedi dei bastioni, il viso nella polvere, i polpacci scoperti con calze di grosso filo nero, e Esposito bocconi accanto a lei, con le braccia distese verso il suo corpo, come in un disperato desiderio di abbraccio. Un pensiero che mi fece sorridere fu questo: che Esposito si fosse preoccupato, in simili circostanze, di lasciare a me la consegna del suo lavoro d'ufficio. Nobile anima di burocrate, austero senso del dovere, che non avevo mai sospettato in lui! Eppure, infine, egli avrebbe potuto dire d'essere stato amato, veramente, perdutamente amato; d'un amore che aveva qualche cosa di anormale, di crudele, di inumano; una vera follia d'amore, un vortice, un vulcano d'amore; ma amore, amore e morte, come nelle più sublimi leggende. Forse era stato felice più di qualsiasi altro uomo, ed ora certamente era il più felice di tutti. Più felice di me, che non vedevo ormai altra felicità se non in quel nulla nel quale egli si era inabissato. Ma non solo! Non disperatamente solo, come me! Con Armida sua! Con la sua terrestre, umana, inebbriante felicità d'amore…

 

Riposi nel cassetto di sinistra la chiave con la quale avevo aperto quello di destra e, a capo chino, senza salutare nessuno, mi allontanai.

IV

Ormai non sarei più tornato indietro. Veramente mi sarebbe riuscito impossibile sostituire, ora, Esposito. Avrei dovuto sostituirlo per tutta la vita. La mia presenza a quel tavolo, dinnanzi a quei registri, diveniva ormai superflua. Ero nuovamente libero e padrone di me. Appena giunto all'angolo della strada, comprai un giornale, e cercai nella pagina della cronaca il ritratto di Esposito. Non c'era. C'era però, sotto un titolo molto tragico, la notizia che cercavo. Per quanto vi fossi preparato, non potei leggerla senza un brivido di terrore. Nel fiume, che era in piena, la barca degli asfittici aveva pescato due cadaveri d'una donna e d'un uomo, ancora giovani. Essi erano allacciati l'uno all'altra da una lunga sciarpa di seta, i loro due corpi legati in un abbraccio che neppure la morte e la corrente vorticosa avevano potuto sciogliere. Così avevano voluto insieme abbandonare la vita, e uniti lasciarsi trasportare nel buio! Nessuno dei due aveva addosso nulla che potesse servire ad identificarlo. Ma i loro connotati corrispondevano perfettamente a quelli di Esposito e di Armida, secondo la fotografia di lei che io conoscevo. Mi stupì molto di non aver pensato al fiume, forse perchè quei fiori, che Armida invocava nell'ultima sua lettera ad Esposito, avevano suscitato dinnanzi ai miei occhi l'immagine di altre morti. Non avevo pensato che Armida potesse morire come Ofelia, tra fiori galleggianti sull'acqua. Ma infine quella era una morte come tutte le altre. Con un sospiro ripiegai tristemente il giornale che avevo letto alla luce d'una bottega di parrucchiere, e ripresi lento il mio cammino. Veramente tutto era finito. Forse qualcuno, alla morgue, aveva già riconosciuto in quei due annegati d'amore Esposito e Armida. All'indomani sarebbero andati a frugare nei cassetti di quel tavolo, e il mistero del loro suicidio non sarebbe stato più un mistero per nessuno.

Assorto in questi pensieri non m'accorsi neppure d'entrare nell'androne semibuio di casa mia e di salire le scale che dovevano condurmi al mio sgabuzzino. Ma mentre stavo per mettere il piede sull'ultimo ballatoio, un uomo sbucò in gran fretta dall'ombra e mi urtò con tanta violetta che per poco non mi fece cadere.

– Signore! gridai voltandomi. E mi fermai meravigliato. Dinnanzi a me stava ritto Esposito. Era lui, non c'era dubbio: lui in carne ed ossa, non il suo fantasma. Le ombre hanno volti sereni, impietriti, di statue indifferenti e impassibili. Il volto di Esposito era invece sconvolto e trasudato: esprimeva una profonda e dolorosa ansia.

– Lasciami andare! esclamò soffocato, allontanando la mano con la quale istintivamente gli avevo afferrato il braccio. Tu non immagini nemmeno! Mia sorella Luisa… Capisci? Scomparsa!.. Non si trova più!

– Tua sorella? domandai. Tua sorella? (e pensavo: – Ha dunque una sorella, Esposito?) E in che modo? In che modo è scomparsa?

– Ah! gemette Esposito, stringendosi la fronte con le mani, storia lunga, caro mio! Sembrò subitamente preso da un profondo sconforto, si appoggiò alla ringhiera, abbandonò le braccia, piegò il capo sul petto. – Tutto era pronto, cominciò a raccontare vagando qua e là con lo sguardo smarrito, gli invitati erano tutti qui, chi nel corridoio, chi sulle scale, alcuni aspettavano giù, in cortile, e persino nelle carrozze, sulla strada. Mia madre, lo sai, è ebete… Poverina! Ma Luisa era già vestita, tutto era in ordine. Me lo hanno detto. Io… io giunsi tardi… Ah! Ah! esclamò guardandomi improvvisamente con odio e stendendo il pugno contro di me, tu sei la causa di tutto! Se non ti fossi fatto tanto aspettare, io sarei stato qui in tempo, stamane, per scongiurare questa maledizione! Ma tu, tu, che importa a te tutto questo? Arriva lo sposo, con i suoi amici, si degna di salire tutte le scale, fin quassù, quantunque soffra gravemente di cuore. Domanda di Luisa. Gli dicono: – È con sua madre, in camera, già pronta… Chiamate la sposa! dicono. Esse, mia madre e mia sorella, abitano qui. Io ho un'altra casa per conto mio. Ma sono io che pago anche questa. Bussano. Nessuno risponde. Aprono. C'è mia madre seduta nella sua poltrona. Luisa non c'è più. Dove sarà? La chiamano, la cercano, interrogano mia madre che non sa, non vede, non sente nulla; corrono da tutti i vicini… Luisa non si trova. È scomparsa! Quando sono arrivato io, lo sposo se ne era già andato… Molti se ne erano andati… Allora anch'io mi sono messo a cercarla, e l'ho cercata tutto il giorno, ma non l'ho trovata…

Esposito si raddrizzò, alzò gli occhi al cielo, si torse le mani disperatamente. – Dove sarà? gridò furioso. Dove sarà? E si precipitò giù per le scale di corsa, prima che io avessi il tempo di pronunciare una parola.

Lo seguii con lo sguardo, affacciandomi alla tromba delle scale, finchè non lo vidi scomparire. Poi guardai perplesso in me stesso. Infinita ridicolaggine della vita! Quello era Esposito. Era quel medesimo, identico Esposito che avevo creduto morto, e ripescato dal fiume, e coricato sul freddo tavolo di marmo della morgue accanto ad Armida. Forse neppure Armida era mai esistita, e quell'epistolario era tutto falso, tutta un'invenzione di Esposito. Forse erano lettere che scriveva lui a sè stesso! Dove non ci conducono le disillusioni? Io non dovevo credere più a nulla, nemmeno all'evidenza dei miei poveri occhi di idiota! Maledissi Esposito e me stesso, e, saliti gli ultimi gradini, entrai nel mio sgabuzzino e mi rinchiusi a doppio giro di chiave.

Finalmente c'ero: nulla mi avrebbe più smosso di là. Finalmente ero solo, isolato, difeso da quei muri e da quella porta. Anche quella stupida giornata era passata per sempre. Non avevo altro da fare che riprendere la mia vita dal punto in cui l'avevo lasciata la mattina, quando il ricordo della promessa fatta ad Esposito m'aveva stupidamente strappato al mio dolce nulla verso il quale già stavo scivolando dolcemente beato. Il letto era là, ancora sfatto, come quando la mattina m'ero alzato rovesciandone le coperte. Pareva che m'aspettasse. Bastava infilarsi di nuovo là sotto, e richiudere le coltri, come se nulla fosse avvenuto. Mi spogliai lento, ripensando alle stranezze del caso. Esposito… La sorella di Esposito, Luisa, e sua madre, che abitavano sotto lo stesso mio tetto, allo stesso piano di casa, forse proprio in quella stanza attigua alla mia… Ed io non ne sapevo nulla, io che stavo tutto il giorno con lui: nè che Esposito avesse una madre e una sorella, nè che il caso mi avesse condotto ad abitare proprio accanto a loro! Forse quella voce che durante la notte avevo udito lamentarsi e piangere era la voce di Luisa… E la voce di quell'uomo, ah! sì, ora la riconoscevo, quella voce aspra, minacciosa, era la sua voce, la voce di Esposito! Ora vedevo tutto chiaro. Luisa si rifiutava di sposare quel signore che le avevano scelto per marito… Ed Esposito la minacciava. Volevano disfarsi di lei, costringendola a quel matrimonio che le ripugnava… Forse la volevano vendere. Per ciò era fuggita… Era fuggita… Dove? Dove era fuggita? Dove poteva fuggire una povera ragazza sola, in quella città così grande? Forse il fiume in piena, nel quale nè Esposito nè Armida avevano mai pensato di gettarsi, portava ora il fragile corpo di Luisa verso un nascondiglio dove nessuno l'avrebbe più ritrovato. Luisa… E Armida? Che cosa era avvenuto di lei?

Ah! Eppure è bello non soffrire più per nessuna ragione, per nessuno. Stendersi in un letto, riposare le ossa indolenzite, pensare al sonno che verrà, al tepore che a poco a poco ti avvolgerà tutto come in una nuvola, e considerare tutte le cose come se fossero infinitamente lontane, e indifferenti, ed estranee. Dire: che importa a me? Se piove, se tuona, se crollano le montagne intere, se bruciano centinaia di case, se gli uomini si scannano sotto le mie finestre, che importa a me di tutte queste catastrofi? Sono qui coricato, dove nessuno mi vede, dove nessuno mi sente, tutto rattrappito sotto le mie coperte che a poco a poco si scaldano e fra poco mi scalderanno, e sappiate voi tutti, e voi, tutte le cose, sappiate che mi sono separato per sempre da voi, siete tutti morti, tutte morte per me, o tutte vive, poichè infine m'è uguale che siate vive o morte; la vostra prosperità o la vostra disgrazia, il vostro bene o il vostro male, mi sono uguali, ed io non vi voglio in verità nè male nè bene. Io solo esisto. Padrone di non esistere più quando me ne sia stancato. E basta.

Così mi stringevo intorno al corpo infreddolito le coperte ancora fredde, e non avevo alcun pensiero dell'avvenire. La fine sarebbe venuta da sè. Non avrei avuto che da aspettarla. Mi faceva piacere di essere così coricato, solo e senza preoccupazioni o doveri, con quel freddo di coperte intorno alla carne che mi dava più vivo il senso d'essere disteso in un letto, solo, senza una necessità al mondo di vivere altrimenti che così, coricato, immobile, abbandonato al mio peso… E a poco a poco le palpebre mi si chiusero sul fioco e instabile lume della candela, e mi trovai trasportato in quella soffice nube che dolcemente si cullava al soffio di un vento di paradiso. Allora, quando chiusi gli occhi, ebbi la prima sensazione del silenzio, sentii il silenzio che mi circondava, e fu appunto il soffio di un respiro umano, un rumore appena percettibile, che me lo fece sentire. Era, quel respiro, come un filo di luce, un'incrinatura di luce, in una tenebra profonda, smisurata, immobile. Sembrava che qualcuno fosse coricato al mio fianco, con il capo appoggiato accanto al mio sul guanciale, e che con le labbra semichiuse respirasse lento e uguale nel mio orecchio. Certamente era ancora quella maledetta parete che turbava la mia solitudine e m'imponeva la presenza di altra gente, introducendola nella mia stanza dove mi credevo bene isolato, ben chiuso.

 

Cacciai la testa sotto le coltri, già nuovamente distolto dalla mia felicità, dal mio abbandono: già costretto di nuovo a pensare, a ragionare, ad agire. Come era dunque possibile? Una parete che non teneva lontano nemmeno il respiro degli altri? Di che cosa era fatta quella maledetta parete? Di carta? Di un velo? Mi alzai a sedere, rovesciai le coperte, mi guardai intorno smarrito. Ma abbassando gli occhi vidi d'un tratto qualche cosa di nero luccicare per terra, che sbucava di sotto il letto, e non aveva alcuna forma precisa. Allungai una mano e toccai una cosa dura che mi sembrò la punta d'uno scarpino. Mi buttai col capo in giù, e vidi che sotto il mio letto, tutta raggomitolata, c'era una donna.

Allora mi rivestii, sospirando, e m'inginocchiai, e le parlai dolcemente, le dissi:

– Che cosa volete fare? Passare tutta la vostra vita sotto il mio letto? Andiamo: via! Siate ragionevole… Esposito non tornerà subito. Non avete un amico nel mondo, al quale chiedere aiuto e ospitalità per questa notte? Se volete, vi accompagno… Vi conduco io… Se incontriamo Esposito, io vi nascondo, io vi difenderò… Ormai il peggio è passato, Luisa… Vedete? Conosco anche il vostro nome. Ma intanto non piangete, Luisa… E fatevi almeno vedere…

Stesi una mano sotto il letto e trovai una sua mano. La strinsi e cercai di trarla a me con forza. Ella resistette un poco, poi si lasciò trascinare. Sbucò prima il braccio, poi la spalla, poi la testa con i capelli tutti arruffati che le coprivano il viso, poi tutto il resto. E rimase così accasciata accanto a me, con la faccia nascosta fra le mani.

– Dunque, soggiunsi, ditemi: che cosa debbo fare per voi, ora, Luisa?..

Luisa rimase qualche minuto immobile. Soltanto quando le toccai bruscamente una spalla per indurla a parlare, incominciò a sciogliere adagio adagio il nodo delle mani che s'era stretto sul viso. Sollevò il capo, agitandolo in un segno di sconsolato diniego, come per dire: – Che so, che so, io? – e allora vidi improvvisamente con infinito stupore dinnanzi a me il volto stralunato di Armida. Mi alzai di scatto. Non c'era dubbio! Quella era Armida. Quantunque la sua faccia fosse gonfia di pianto, inselvatichita da quell'arruffamento di capelli, la sua somiglianza con la fotografia che avevo tante volte contemplato quel giorno era indubitabile.

– E voi? gridai non appena mi riebbi dallo stupore, che fate voi qui, disgraziata? Sotto il mio letto? Che cosa c'entro io con i vostri drammi d'amore? Signora, signora Armida, esclamai esasperato, uscite subito di qui! Tutto il giorno, non mi avete dato altro che brividi ed ansie!.. Basta! Basta! Se volete vendicarvi di un amante spergiuro, fatelo fuori di casa mia! A me poco importa di Esposito e dell'epilogo che finirete per dare alla vostra goffa tragedia…

Così dicendo girai la chiave nella toppa e spalancai la porta. Ma Armida non si mosse e ruppe in un pianto ancora più disperato. In quel punto s'udirono dei passi frettolosi nel corridoio e sulla soglia della mia stanza apparve Esposito.

– Bene! gridai, affrontandolo con le braccia levate al cielo. Poichè sei venuto, ecco qui quel che ci vuole per te!.. Prenditela, e andate… Andate lontano, tu e la tua Armida! E scegliete la morte che più vi conviene, purchè vi decidiate una buona volta a morire!

Ma Esposito mi allontanò con un urto della mano e, afferrata la donna per le spalle, la squassò come se avesse voluto stroncarla.

– Maledetta! gridò. Ti ho trovata finalmente! Qui, qui, eri! Ora penso io a tutti e due!

Si raddrizzò e mi venne incontro minaccioso.

– Che dici tu di Armida? domandò con voce cupa. Che cosa ti importa di Armida? Di Luisa, di lei dobbiamo parlare! Tu l'hai nascosta qui… Tu lo sapevi… Ecco perchè hai tardato tanto stamani! Tu l'hai nascosta, e hai rovinato me, e tutti noi, per sempre. Per tua colpa le nozze non si sono fatte e non si faranno mai più… Infine, l'hai disonorata… Poichè Luisa è una fanciulla, e tu sei un uomo, e questa è la tua casa… Sai tu che cos'è l'onore di una fanciulla? Di una fidanzata? Ebbene: ora che l'hai disonorata, ora la sposi, tu!

Egli fece per afferrarmi le mani. Io lo respinsi violento. Mi sembrò d'essere divenuto cieco d'un tratto. Mi mossi, e mi piantai fra lui e Luisa, fra Luisa e la porta.

– Ebbene, sì, gli risposi con ira senza rendermi conto di ciò che dicevo. Non fu mai la fidanzata di nessuno, tua sorella, Luisa, se non mia… Mia fidanzata! Io l'ho nascosta, io l'ho salvata da te, dai tuoi intrighi infami… Domani, se ricapitasse, la nasconderei, la salverei ancora. Perchè, infine, sappilo, Luisa, tua sorella, io l'amo… Noi, noi ci amiamo! E da quest'istante è mia sposa!

Poi, curvatomi su Luisa, la presi per le mani e la sollevai. Ed ella si lasciò sollevare, e si lasciò stringere fra le mie braccia, si lasciò baciare sulle gote, sulla fronte, sulla bocca, inerte, abbandonata, muta, tremando in tutto il suo povero corpo, che io soverchiavo col mio. Mi rivolsi quindi nuovamente contro Esposito, che mi guardava stupito.

– Vattene! gli gridai. E non tenere l'immagine di tua sorella fra le lettere delle tue sgualdrine!

Lo sospinsi di viva forza fuori dell'uscio, chiusi con fracasso l'imposta e sfinito, smarrito, mi lasciai cadere sul letto.