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Il perduto amore

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***

Quando Perdifiato fu guarito e potè alzarsi dal suo giaciglio, prese la gruccia e se ne andò in città. Là, in cima a una gradinata altissima, sorgeva una vecchia chiesa sul cui frontone era scritto a grandi caratteri:

Virgo tua gloria partus

, dove Perdifiato entrò segnandosi. La Madonna, che gli era apparsa in sogno vestita di rosa e d'azzurro, stava ora seduta in una nicchia fra due colonne, tutta coperta di cuori d'argento, e non aveva quel vestito celeste, ma era tutta di marmo bianco, salvo il piede che era d'oro. Tante lampade pendevano intorno intorno alla nicchia e in ognuna brillava tremando una fiammellina. Contuttociò la nicchia era piena d'ombra. La Vergine aveva in capo una mitra d'oro altissima, e il Bambino, che ella teneva in piedi sulle ginocchia, aveva pure una mitra d'oro, ma un poco più piccola. Ma mentre il pargolo era tutto nudo, la mamma portava sul vestito di marmo una specie di corazza tutta scintillante d'oro e di gemme, e intorno al collo dieci file di perle d'ogni grandezza, e alle dita anelli che splendevano come fari. Perdifiato, prono dinnanzi a quell'immagine, la contemplava estatico, e si domandava perchè mai la Madonna, che aveva già tutti quei gioielli meravigliosi, avesse chiesto a lui, povero ladro di poca fortuna, la sola collana che in vita sua gli fosse riuscito rubare. Egli cercava una risposta a questa domanda e non la trovava. Finchè i suoi occhi non si posarono sopra quelle file di perle che cingevano il collo della Vergine, e allora credette di averla trovata, perchè veramente eran tutte collane di perle, e non ce n'era nemmeno una che avesse uno smeraldo. Allora Perdifiato si alzò lentamente, e senza staccare gli occhi dal volto della Madonna, la quale pareva seguire ogni suo atto con quelle sue pupille bianche, andò verso un frate che, pregando a testa bassa, teneva sulle ginocchia un piatto d'argento. Con un gesto umile, quasi vergognoso, egli trasse di tasca la collana dallo smeraldo, e, sospirando, la lasciò cadere tra le monete di rame di cui quel piatto era pieno. Il frate senza interrompere le sue preghiere assentì gravemente col capo, e disse con un po' più di voce:

Ave Maria gratia plena, domin… tec… benedi…

 E il resto si perdè in un bisbiglio.



***

Là, un giorno vuoto, ho riveduto io, per caso, la collana di Daria, la collana di Silvina. Essa ora appartiene al cielo: è di Dio. Sospesa al collo della Vergine, sembra risplendere d'una luce dolce e serena, senza sinistri riflessi. Nessun maligno fascino si sprigiona più dal suo verde lume. Ed io pensai, riconoscendola dalle sue maglie smaltate e dal colore della sua trasparenza, che anche Daria, se è morta come disse Soave, e Silvina che vive ancora, potranno forse un giorno purificarsi.



PARTE QUINTA

Luisa

I

Ho trentacinque anni. Sono invecchiato e stanco. Non ho più voglia di vivere. Se rileggo i miei scartafacci scritti dieci, quindici anni fa, e vedo come la vita mi sembrasse già allora disperata, e come poi abbia potuto vivere ancora altri dieci, quindici anni, ho un desiderio pazzo di aprire la finestra e di precipitarmi giù nella strada, per schiacciare questa mia testa contro il selciato e impedirle per sempre di ragionare. Io mi rivolto, con un'irascibilità nella quale riconosco pur troppo i segni della mia malattia e della mia precoce senilità, mi rivolto contro me stesso, perchè m'è intollerabile pensare, come risulta dalle pagine scritte per Daria e per Silvina, che io abbia potuto per lunghi anni considerarmi una vittima del destino e circondare di pietà gli atti più stolti della mia vita, e di tutte le cose avere un'opinione falsa e sbagliata, senza che la verità mi balenasse mai per un istante alla mente, quantunque pretendessi di penetrare il segreto delle cose e a tutte dare un significato. Se mi affaccio alla finestra, solo che abbassi gli occhi sul fondo della strada buia che s'inabissa fra le case, con quei lumicini, laggiù, languidi e opachi e quelle formiche nere che silenziosamente corrono sbucando dall'ombra per rintanarsi in altra ombra, la vertigine mi prende alla nuca e mi tira giù a precipizio nel vuoto. Basterebbe che mi abbandonassi. Ma invece, vile, e in perfetta contraddizione con quanto ho ideato poco fa, mi abbranco con tutte e due le mani alla ringhiera, e chiudo gli occhi per non vedere, e mi ritraggo spaurito, e ripiombo qui, dinnanzi a questo tavolo, dove m'attende e m'inchioda quel pensiero che vorrei uccidere per sempre in me.



Il piccolo Isacco se ne è andato or ora. Mi ha lasciato qui, accanto, un modulo stampato che debbo riempire. Povero ragazzo! Non dimentica nulla, lui. Ora lo sento nella stanza vicina che si toglie le scarpe e le sbatte contro la porta. Sempre così, ogni sera. Luisa non poteva soffrire questi rumori che Isacco fa spogliandosi nella sua camera, e la sottigliezza della parete, che divide questa stanza dalla sua, fu sempre per lei cagione di grandi preoccupazioni, di profonda infelicità. Veramente sembra che Isacco sia ancora qui, accanto a me, e che si spogli in mia presenza, come se nulla ci dividesse, togliendoci l'uno alla vista dell'altro. Ora sento perfettamente che sospira, e dallo scricchiolio della sedia su cui è seduto (la sedia è accanto al letto) capisco che si sta sfilando le calzette di lana bianca, e forse il sospiro è dovuto ad un buco, che, nel cavarsi le scarpe, ha scoperto sulla punta o nel tallone. Durante la notte, lo sento che si rivolta nel letto, e poi percepisco il suo respiro pesante e calmo, quando si è addormentato. Spesso sogna, e allora chiama con voce lamentosa e lontana i nomi più strani, e fa lunghi dialoghi con qualche invisibile e misteriosa ombra.



Faceva così anche prima quando c'era Luisa, e non esisteva nessuna intimità tra noi. E Luisa mi diceva: – Se noi sentiamo tutto, persino quando inghiottisce lo sputo, sente tutto anche lui. Che tormento! E non parlava che sottovoce, e non camminava che in punta di piedi. Oh! lo sapevo benissimo anch'io quanto lei. Quella stanza dove ora sta Isacco è stata prima la mia stanza. E Luisa abitava appunto questa stanza, quando io abitavo quella. Non l'avevo ancora mai veduta, e già, Luisa, la conoscevo intimamente. Che strano caso! La sua vita non aveva più segreti per il mio udito, quando ancora i miei occhi non si erano posati neppure una volta su lei. Tutto è proprio nato dalla trasparenza di questa maledetta parete.



Mi ricordo come fosse ieri quando la vecchia Savina mi fece salire fino al sesto piano di questa casa immensa, e m'introdusse in quella stanza. Veramente non è una stanza. È il fondo di un corridoio, al quale la sua finestra dava luce prima che vi alzassero contro un tramezzo di legno e un uscio. Poi il corridoio rimase buio e Savina ebbe una stanza di più da appigionare. Ci sta appena appena il letto, che è di ferro sottile e nero, e a due passi, di lato, è appoggiato, contro l'altra parete, il cassettone, con sopra una specchiera rotta in più parti. Sotto la finestra si trova il lavabo pure di ferro, con un catino, una brocca e un secchio. In tutto non c'è che una sedia. Io sorrido se penso al senso di repulsione e di tristezza che ebbi, quindici anni or sono, entrando in quella povera camera di casa Sterpoli, che mi parve tanto inospitale, squallida e fredda, non appena v'ebbi posato il piede, da sentirmene il cuore piccino. Venivo da casa mia, dove tutte erano cose amiche, tutto era tepido e accostante, tutto bello e buono! Eppure quella, al confronto di questa, poteva considerarsi una reggia.



Ma quando entrai per la prima volta dove Isacco dorme e russa, or sono sei mesi o poco più, non venivo da casa mia, non lasciavo nè il letto caldo e soffice, con le sue belle lenzuola profumate di spigonardo, che la mia buona mamma faceva ogni mattina con le sue mani, nè la grande poltrona imbottita sulla quale passavo ore ed ore rovesciato a sognare stupide e meravigliose fantasie. Come la mia buona casa era già lontana, perduta, dimenticata! Come tutto era finito molto prima d'allora! Dal giorno in cui, morta mia madre, Marta la seguì per quel cammino così silenzioso che neppure sotto i suoi grossi zoccoli levò un rumore (anche la sua vita tanto semplice finì misteriosamente come tutte le altre), e mia sorella Adalgisa si sposò con un giovane di Pra che se la portò piangente di là dai monti, e mia sorella Maria volle entrare in convento, sono passati pochi anni, ma eterni. Quale esperienza della vita, in questi anni! Poco dopo anche mio padre morì, ed io, venduta la casa, la cascina e il podere, me ne fuggii per non ritornare indietro mai più. Lo stambugio che allora Savina m'offriva per pochi soldi, gli ultimi, finiti i quali non ne avrei posseduti più, mi sembrò quanto di meglio il caso potesse offrire a un disgraziato mio pari.



Nevicava. Con una voluttà disperata andai a schiacciare il viso contro i vetri della finestra, ficcai gli occhi in quella notte buia tutta punteggiata di bianco. Finalmente c'era qualche cosa fra me e il gelo dell'inverno, fra me e quelle tenebre odiose, fra il mio viso e il vento che turbinava veemente spazzando le strade tutte deserte e bianche! Io volevo volevo morire. Ma per quel ridicolo senso di pietà, per quell'assurdo amor di noi stessi che neppure l'idea della morte sopprime, come se importasse qualche cosa ciò che potrà accadere quando tutto sarà finito per noi, mi faceva orrore il pensiero di essere sepolto dalla neve ad un angolo di strada, e poi calpestato, e poi urtato e forse ferito dalle pale degli uomini che all'alba raschiano la neve dai marciapiedi per ammucchiarla in mezzo alla via, e forse anche morso e divorato dai cani. Tutta l'estate avevo passato le mie notti all'aperto, disteso ora su questa ora su quella banchina del parco. Le notti erano serene e tepide, e faceva quasi piacere passarle coricati all'aria libera, nella dolce frescura. Ma poi, sopravvenuto l'autunno, avevo dovuto cercare una casa, e tutte erano troppo ricche per me, che non avevo se non il mio modesto salario d'amanuense, appena appena per mangiare, e non più: non per avere anche una casa. E così era passato anche l'autunno. M'avevano ricoverato le arcate dei portici, certi anditi fetidi nel quartiere basso della città. Ormai da molte e molte notti non conoscevo un letto, non potevo distendermi e riscaldarmi sotto una coperta di lana, posare il capo sopra qualche cosa di soffice. Quel letto su cui Isacco ora sogna e sospira, io lo palpai come un innamorato tocca voluttuosamente la sua donna la prima volta che la può stringere nuda fra le braccia. Mi gettai lungo e disteso sul suo duro materasso di crine, e mi sembrò di affondare in una nuvola di bambage e di essere trasportato lontano, in alto, da un vento silenzioso e dolcissimo.

 



II

Non ricordo se allora mi assopii, o se soltanto mi abbandonai a quella voluttà da povero diavolo, smarrendo in essa ogni altra sensazione esteriore, ogni mio pensiero. La notte doveva essere inoltrata molto, anzi non doveva essere molto lontana l'alba, quando mi parve di udire proprio al mio fianco, dietro il mio capo, un singhiozzo soffocato, come uno scoppio di pianto subitamente represso. Mi levai a sedere sul letto, annaspando nell'ombra. Trattenni il respiro per non turbare il silenzio che mi circondava da ogni lato, prossimo ed infinito. La stanza era buia, ma un pallido chiarore traspariva dalla finestra, tanto che vedevo i fiocchi di neve cader lenti lenti sparpagliandosi sul davanzale, e mi pareva ancora di salire, di salire in alto, non più rapito entro una nuvola, ma come se tutta quanta la casa volasse assunta in cielo. Non c'era nessuno nè accanto a me, nè dietro di me, tra il letto e la parete, tra la porta e il letto. Ma un altr'uomo stava nella stanza attigua, cioè in questa stanza, accanto a questo letto dove ogni notte ora mi corico disperatamente solo, e come me tratteneva il respiro aguzzando l'orecchio, cercando me nel silenzio, come io cercavo lui, e lo aspettavo in agguato. Ah! la pazienza gli venne meno troppo presto. Fu egli il primo a stancarsi.



– Non piangere, disse quella voce irosa di uomo. Scoppia, se vuoi, ma non piangere… Qualcuno è venuto ad abitare di là… Te l'ho detto! Non piangere…



Parlava di me.



– Taci, taci, diceva sempre più cupa, sempre più minacciosa, quella voce; è un certo Paris. Mi conosce. Lo conosco. L'ho intravveduto quando era là con Savina. Ti dico che si metterà a urlare, se ti sente piangere. Vuoi che si desti tutta la casa? Vuoi che per farti tacere io ti strangoli?



Queste parole furono pronunciate ancora con maggior violenza. Ma chi le pronunciò ebbe paura di aver forzata troppo la voce, e tacque. Chi era? Mi conosceva per nome? Aveva detto: Paris? Il suo accento mi riusciva nuovo. Certo, di giorno, con altra gente, quell'uomo doveva avere un'altra voce, un ben diverso accento. Intanto, nel silenzio, percepivo un singhiozzare fioco fioco, lontano, che pareva d'un fanciullo o d'una donna che piangesse con il capo avvolto in una coperta di lana o sepolto sotto un cuscino. Dopo questa breve pausa egli ricominciò a parlare sommessamente.



– Tu devi persuaderti, disse, ed è inutile piangere. Se non ti persuaderai, una di queste notti avrai finito di piangere per sempre. Vedi tua madre? Lei non piange più…



– Ma io non posso, te lo giuro, non posso, è più forte di me! gemette quella voce fioca, che era certamente d'una donna e d'una donna giovane (era la voce di Luisa).



Allora il maschio si raddolcì.



– Sciocca! E non vedi che piangere ti fa male, che diventi ogni giorno più brutta? disse in tono quasi pietoso, come per consolarla. Perchè? Perchè sprecarsi così? A che giova? Povera piccola, su, su, sii ragionevole… Questa vita non è poi mica una gran gioia neppure per te. Fra poco sarai vecchia… E allora?..



Si interruppe.



– Ma cosa vuoi fartene, le gridò improvvisamente ridivenuto rabbioso, scuotendola, (il letto scricchiolò tutto sotto le sue mani), di queste tue quattro ossa schifose? Di questa tua stupida verginità? Peuh! A chi vuoi darla? Chi vuoi che se la prenda? Che cosa credi di avere, tu, qui?



Rovesciò una sedia.



– Lasciami uscire! gridò a voce spiegata. Non ne posso più!



La porta della stanza vicina sbatacchiò, dei passi attraversarono il corridoio in gran fretta, precipitarono giù per le scale e si spensero.



Rimasta sola, la donna si alzò dal letto, corse all'uscio, lo chiuse a chiave. Poi mi parve che si gettasse nuovamente distesa contro i cuscini, e singhiozzando senza più freno implorò: – Mamma, mamma…



Doveva esserci anche un cane, chiuso con lei in quella stanza, perchè alla sua invocazione rispose una specie di brontolio cupo, inarticolato, appunto come il brontolio di un cane. Era sua madre, la madre di Luisa. Era lei, la stessa che ora, se alzo gli occhi dal foglio su cui scrivo, vedo laggiù nell'angolo buio della stanza, affondata nella sua poltrona, dove sta sempre con il capo piegato sul petto come se fosse staccato dal corpo e pendesse appena trattenuto da un filo; e sgrana, fra le mani scheletrite, il rosario che sarà consumato prima della sua vita che non si consuma mai! Ma, allora, questo rantolo sommesso che esce senza posa dalle sue labbra morte, mi parve il brontolìo di un cane. Poi tutto ripiombò nel più profondo silenzio.



Mi ricordo che poco dopo mi riassopii, richiudendo le palpebre sul biancore livido di quell'alba invernale, e che quando mi ridestai era giorno fatto, in piena mattina. Non nevicava più. Anzi c'era nel cielo grigio plumbeo una trasparenza diffusa, pallida e lontana, di luce gialla, solare. Quella luce poteva bene illuminare di speranze nuove un cuore meno distrutto del mio, meno buio. Ma io la contemplai senza provarne alcuna gioia, e neppure mi mossi per avvicinarmi a lei, alla finestra. Così, supino, stavo senza pensiero. Non mi sarei mosso più. Perchè avrei dovuto alzarmi? Non volevo più vedere nessuno, non parlare più. Non avevo più nulla da dire a nessuno. Non aspettavo, non desideravo più nulla. Mi sarei sentito meno solo in un deserto africano, in una landa artica. E sarei anche stato infinitamente felice. Ma un rumore nella stanza attigua, cioè in questa stanza, introdusse nel mio deserto, nella mia landa spopolata, almeno una persona viva alla quale non potei fare a meno di pensare. Chi era costei? Quella stessa che, nella notte, avevo udito singhiozzare e disperarsi, o un'altra? Una voce femminile, che non riconobbi, che mi parve di non aver udito mai, si mise a bisbigliare. Non distinguevo le parole, ma mi pareva che fosse una preghiera. Allora mi levai a sedere sul letto, e appoggiai l'orecchio alla parete. Poi non seppi resistere e bussai tre colpi. La voce tacque.



Io domandai sommessamente:



– Chi siete?



Non rispose.



– Chi era, domandai ancora, a voce ancora più bassa, questa notte, qui, che piangeva?



E soggiunsi:



– Eravate voi?



Ma neppure allora rispose, ed io mi lasciai ricadere sul letto.



Da quel momento, appunto, Luisa incominciò a camminare in punta di piedi: abitudine che non abbandonò più, da allora in poi. Se non avessi udito il fruscio delle sue sottane, lo stropiccìo dei suoi abiti contro i mobili, mi sarebbe sembrato che ella non si movesse più, o che la stanza fosse vuota. Faceva meno rumore d'uno che cammini sopra il più morbido dei tappeti, anzichè sopra un orribile impiantito di mattoni rotti e sconnessi come questi: e pareva scalza, o un'ombra che trasvolasse sospesa da terra. Allora mi ricordai, per una strana coincidenza di idee, delle pantofole che Pietro Suavis portava sempre in ufficio per potersi avvicinare silenziosamente ad ognuno di noi e sorprenderci in ogni momento del nostro lavoro. Egli si alzava dal suo banco, che era nascosto da un paravento a destra dell'uscio, e, attraversata a piccoli passi l'ampia stanza, si veniva a mettere pian piano dietro le spalle ora dell'uno ora dell'altro. E quando, vedendo con la coda dell'occhio la sua ombra lunga e nera apparire da un lato, ci buttavamo giù col naso sui registri, egli con un colpo di tosse rivelava la sua presenza e a piccoli passi silenziosi si allontanava.



Che cosa gli poteva importare, in fin dei conti, se qualcuno interrompeva il proprio lavoro per dare un'occhiata al giornale o per scrivere una lettera di condoglianze alla vedova d'un amico? Ci pagava forse lui, di tasca propria, il magro stipendio d'ogni mese, grazie al quale nessuno di noi poteva, come invece avrebbe desiderato, morire liberamente di fame? L'anima triste di tutte le amministrazioni era racchiusa in quelle sue maledette pantofole.



Improvvisamente mi rovesciai di dosso le coperte e mi buttai con un salto dal letto. Quel giorno era appunto l'8 dicembre. Me ne ero dimenticato, come se quel giorno non dovesse più esistere nel calendario. Ma invece, eccolo: era proprio lui. Io avevo un impegno d'onore per quel giorno, e me ne ero dimenticato. No. Non poteva assolutamente scegliere l'8 dicembre per dire addio al mondo, per rompere ogni mio rapporto con il prossimo. Come spesso una cosa da niente muta il corso d'un'intera esistenza! Più che in fretta tuffai il viso nel catino di acqua ghiaccia, m'asciugai in un lembo del lenzuolo e, infilato il mio vecchio soprabito, mi lanciai di corsa giù per le scale. Urtai alcuni signori vestiti di nero e in tuba che salivano lentamente, uno dietro l'altro. Nemmeno mi scusai. Anche per la strada continuai a correre, perchè tutti gli orologi che incontravo ogni tanto sui cantoni mi dicevano quanto fossi in ritardo. Infatti Esposito mi aspettava camminando