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Il perduto amore

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XIV

Udii la vettura allontanarsi; e poco è mancato che io scrivessi: per sempre. No, non per sempre. Con i suoi tre cavalli essa ha da allora consumato molta altra strada. La vita, anche semplicemente quella d'una corriera, non finisce, non s'interrompe, neppure se uno di noi muore. In questo senso ha molto maggiore importanza la morte o la caduta di un cavallo, una frana che precipiti attraverso la via, la rottura di una ruota o di un asse. Ma Silvina, sì, se ne andò per sempre. Come mia madre. Nemmeno Silvio la rivide mai più.

PARTE QUARTA
Come finì poi la collana

Ancora una volta ho dimenticato la collana. Questo sinistro gioiello apportatore di sventura lo smarrisco sempre per via. Scompare dai miei racconti, mi scivola quasi dalla memoria, con la stessa improvvisa fatalità con cui ho veduto realmente apparire e scomparire e riapparire il suo freddo splendore nelle circostanze più dolorose che ho attraversato fino al momento in cui scrivo.

Se fossi un romanziere di grido non mi sentirei molto mortificato per una distrazione di questo genere, perchè, specialmente in altri tempi, quando si scrivevano romanzi di intreccio e di immaginazione con molti personaggi e avventurose vicende (contrariamente a quanto avviene nei romanzi d'oggi che sono soltanto pieni di belle immagini e di rari fantocci meditativi e sedentari), accadeva spesso agli scrittori anche più provetti di perdere per via, non dico una collana, ma addirittura uno e spesso anche due o più personaggi, che, per ritrovarli, era poi necessario ricondurre il lettore a fare alquanti passi indietro. Ma se non voglio, a nessun costo, tralasciare di dire quale sia stata l'ultima fine della collana di Daria, che fu poi di Silvina, non si creda che io abbia la pretesa di completare un racconto il quale, d'altronde, non interessa altri che me, o che stimi la storia di questa collana indispensabile alla comprensione esatta delle cose narrate fin qui. Al contrario penso che la storia di Silvina, se dovesse essere pubblicata, sembrerebbe a tutti abbastanza chiara, nel suo intreccio molto comune e verosimile oltre che perfettamente vero, anche senza conoscere la fine fatta da quella sciagurata collana. In questo senso noi ignoriamo fatti ben più importanti, come sarebbe quello, per esempio, della fine che potrà fare Silvina allorchè si sarà stancata del principe Stroztki o il principe Stroztki di lei, e la falsa vita di principessa ch'ella conduce, tra festini, gioielli ed amorosi capricci, non le offrirà più alcuno svago. Ma la fine di Silvina, che sarà senza dubbio triste, appartiene all'avvenire, mentre quella della sua collana si può dire che appartenga ormai al passato.

Raccontano che vi siano state gemme altrettanto malefiche quanto quella, e anche più, le quali rovinarono con la loro sinistra influenza regni e repubbliche, spensero nel sangue intere dinastie, scatenando guerre e pestilenze, e, precipitate poi nelle profondità dei mari, furono dopo secoli ripescate, e ricominciarono a seminare sulla loro strada delitti e sciagure. Ma, per conto mio, spero di non vedere quello smeraldo rivarcare mai più le soglie di questo mondo, dal quale ora il caso lo ha allontanato. E fra alcuni secoli, quando ritornerà il suo turno di maleficio, non sarò certo più io quello che il destino condurrà ad urtargli contro. Il nostro solo conforto può essere di pensare che una volta si nasce uomo, e una volta, forse, smeraldo.

***

Quando Silvio, vedendo quale prova d'amore Silvina esigesse da lui, si decise a trafugare la collana di cui Silvina era tanto ambiziosa, non pensava certo che con quell'atto di leggerezza avrebbe distrutto per sempre la propria felicità, già molto pericolante. Più gli era sembrata opprimente la città la sera innanzi uscendo dall'ospedale, più allora gli sembrava ospitale, allegra, piacevole. Si sentiva ancora un po' stordito, ma quello stordimento non era punto doloroso.

A quell'ora le strade erano semideserte, e non s'incontravano se non ragazzi col naso rosso che correvano a scuola, operai neri e pelosi che andavano alle officine con le pipe accese e i berettoni di pelo calati sugli occhi, servette dalle anche rotonde e dai polpacci sodi che, tenendo le mani avvoltolate nei grembiuli e le sporte vuote appese al braccio, svolazzavano pei marciapiedi alla volta del mercato. Faceva una bizzarra impressione vedere tutte le narici, fossero d'uomo, di donna o di bimbo, fumare come le froge dei cavalli dei fiaccherai che, trascinandosi addormentati a passo morto lungo le strade, sfiatavano ad ogni tratto nuvolette di vapore leggiero e bianco; nè più leggiero nè meno candido di quello che si sprigionava di sotto i coperchi delle pentole dove bollivano e pipavano le castagne. È divertente, camminando a quell'ora per la città, osservare le facciate delle case, con tutte le loro finestre ancora chiuse, e vedere in che modo una qua e una là se ne spalanchi di botto, con che viso stupefatto ogni uomo, appena sveglio, guardi il mondo dal suo davanzale come se fosse nuovo, e quanta paura abbia dell'aria libera della strada, e quanta fretta di rinchiudersi un'altra volta nel suo piccolo guscio. No, il sole d'inverno non è ben visto da nessuno.

Un poco più tardi le strade si animano veramente, quando i carretti degli erbivendoli e dei merciai aprono il loro commercio, e i portinai, ramazzato il loro tratto di marciapiede, si dispongono a tener cattedra di pubblica istruzione, e i commessi di negozio con mazzi di chiavi e paletti e strani ordegni, come bande di svaligiatori, danno l'assalto alle botteghe, ne alzano le saracinesche, ne spalancano gli sportelli, e mettono sulla strada le mercanzie come se fosse roba rubata. Allora la città perde ogni carattere, tutto è confusione, disordine, tumulto, e per spiccare su quella marea rumorosa e agitata di gente che invade le strade, corre, grida, si urta, e più cerca di sopraffarsi più si perde e si confonde nel caos, non basta più la modesta personalità di ciascuno, fatta di un certo modo di camminare o di portare il cappello, di un naso troppo lungo o di un abito bizzarramente tagliato, ma bisognerebbe essere il Re in persona, in una berlina dorata con sedici pariglie candide, staffieri in gala, e trombettieri che non si stancassero mai di soffiare a gote piene nei loro corni d'argento.

Ma Silvio non la pensava così quando, alleggerito del peso della collana, uscì dal gioielliere e s'incamminò verso un mercante di pellicce, dove si proponeva di comprare quel pastrano verde con colletto di lupo e quel berretto di lontra che Silvina gli vide addosso nell'aprire gli occhi. Silvio credeva che tutti riconoscessero in lui un uomo straordinariamente ricco e felice; e avrebbe voluto chiedere a ognuno che passava se la città intera fosse da vendere. Così, ciecamente beato, a passo di bersagliere, la fronte alta, gli occhi ridenti, se ne andò, Silvio, incontro alla propria rovina.

***

Due giorni dopo Silvina era fra le braccia del principe Stanislao e con garbo gli carezzava i riccioli neri della parrucca, senza pensare che da quelle carezze non gliene poteva venire alcun brivido. – E oltre tutto, concludeva Silvina, m'ha lasciata anche senza la mia bella collana!.. – Povera Silvina! esclamò il principe, quella collana vi era dunque tanto cara? – Era il solo ricordo che avessi di mio padre! E poi dove trovare uno smeraldo altrettanto bello e perfetto? Povero papà mio! Se lo sapesse! – Infine, Silvina cara, disse il principe, non vi disperate così. Se non sarà una collana con uno smeraldo altrettanto perfetto e fulgido, sarà un'altra collana non meno preziosa di quella.

Silvina si consolò. Quel giorno stesso il principe la mise in una bella carrozza tirata da due focosi cavalli e la condusse di galoppo dal primo gioielliere della città. Le vetrine di quel gioielliere eran mille volte più risplendenti della famosa caverna di Alì Babà, perchè vi si vedevano radunate, in molli conchiglie di velluto violetto, gemme d'ogni grandezza e colore, dalle quali si sprigionavano, come da un firmamento di fuochi artificiali, raggi sottili, acuti e tremoli che, attraversando la strada, s'andavano a rifrangere in variopinte luci sulle facciate delle case incontro. Erano gioielli finemente lavorati, zaffiri, rubini e brillanti sposati con opali diafani, perle rosee, cupe ametiste, trasparenti acque marine, e tutti racchiusi in preziose legature. Alcuni di essi uscivano per la prima volta dalle mani dell'orafo, tutti fiammanti e lucidi; altri avevano appartenuto ai Raià delle Indie Inglesi, all'Imperatrice della Cina o al Sultano dei Turchi, e dalla loro profondità traspariva, come in certi begli occhi stanchi, una luce che parea consumata. La folla che passava dinnanzi a quella bottega tuffava per un attimo le pupille avide e meravigliate nel chiarore abbagliante dell'oro e delle pietre preziose, e poi s'allontanava maledicendo il diavolo tentatore che per trascinare gli uomini in perdizione si serve anche di piccoli pezzi di vetro colorato.

Silvina e il principe avevano chiesto di vedere qualche bella collana. Erano seduti dinnanzi ad un tavolo, e il gioielliere, inforcati certi occhiali azzurri dietro i quali era scomparso il suo sguardo, aveva incominciato a trarre da uno scrigno di ferro massiccio collane dopo collane, e veniva ora allineandole sotto i loro occhi, in silenzio. Prima fu una collana di perle e diamanti neri con qualche rara lacrima d'opale; poi una collana di perle candide alternate con ametiste e zaffiri di una profondità notturna; poi ancora una collana tutta di rubini quadrati ed una di onici e di brillanti. Silvina guardava estatica quei vezzi degni di una regina e non sapeva dire quale le piacesse di più; quando, con sua gran meraviglia, vide le mani magre e tremanti del gioielliere porgerle sopra un piccolo scudo nero una collana d'oro semplice al cui centro splendeva un superbo smeraldo. Il suo cuore palpitò. Era quella proprio la sua collana! Il principe Stroztki disse vedendola: – Non mi sbaglio? Questa, Silvina, sembra tutta la vostra collana. – Il gioielliere commentò lentamente: – È la meno preziosa. Ma, per me, la luce di questo smeraldo vale tutte le altre. – Silvina non sapeva staccare gli occhi da quella pietra verde che col suo splendore la teneva incantata. Ma chiuse le palpebre e disse: – No, Stanislao, non è certamente la mia collana. – Ella scelse invece quella tutta composta di rubini, e volle che subito il principe gliela allacciasse al collo. Così Silvina rinnegò per l'ultima volta il suo passato, e la collana di Daria fu nuovamente rinchiusa nello scrigno del gioielliere.

 
***

Poco tempo dopo in città scoppiò una sommossa. In una chiara notte di maggio alcune navi nel porto improvvisamente s'incendiarono e, fumando come vulcani, vomitavano cenere calda e scintille che il vento faceva roteare sui tetti come frecce arroventate. Da per tutto si sparse un puzzo asfissiante di catrame e di pece, e sembrò che la luna, che era bianca e limpida in cielo, sbavasse sulle facciate delle case e sulle strade deserte la luce rossa di un sole equatoriale. A quel pauroso allarme la folla si riversò per le vie e venne gridando sul molo. Ma quando vide dai silos accorrere un'altra folla urlante che recava fiaccole accese e scale altissime, indietreggiò terrorizzata, e di nuovo le strade si vuotarono. Come se un ciclone si fosse improvvisamente abbattuto sulla città, e per le vie e le piazze corressero fiumi vorticosi di libeccio, era tutto uno sbatacchiar d'imposte e di finestre e di porte, che via via si chiudevano con cupi tonfi, soffocando nelle case e negli anditi bui le voci spaventate delle donne e dei fanciulli, le rauche bestemmie degli uomini.

Dal porto i rivoltosi salivano a ondate di migliaia, correndo compatti dietro i portatori di torce. Attraversato il mercato, si precipitavano in mezzo alle case per vie diverse, gli uni passando per il quartiere dei cotonifici, gli altri in direzione della cattedrale, altri ancora verso il quartiere degli armatori e dei banchieri, e tutti andavano poi a convergere verso il centro della città. Le torce delle prime colonne erano già consumate e spente, quando ancora le ultime ondate con le loro fiaccole accese non avevano attraversato il mercato. Dove queste s'incontrarono con quelle nacquero mischie spaventose. I portatori di fiaccole, trovandosi improvvisamente di fronte a colonne che tumultuavano al buio, credettero d'essere caduti in un agguato. In breve una battaglia furibonda s'impegnò fra le due parti, finchè anche le ultime torce consumate si spensero e la moltitudine continuò a combattere furiosamente al buio. Ciascuno credeva di avere di fronte un esercito di soldati. Da ogni parte si drizzavano barricate. E dietro le barricate, incuranti di quella inutile strage, i ladri che senza nè fiaccole nè lanterne nè clamori, alla spicciolata, erano accorsi dai quartieri più eccentrici al primo odore di tempesta, svaligiavano tranquillamente le botteghe, caricavano i carretti che s'eran trascinati dietro correndo, e curvi sotto montagne di fagotti se ne andavano pacifici per i fatti loro.

Alla prima luce dell'alba gli amici si riconobbero da una barricata all'altra. Dapprima non credettero ai loro propri occhi, poi si guardarono in faccia meravigliati, e allibirono. Il primo impulso fu, nei capitani, di rifarsi una reputazione continuando a combattere fra di loro. Ma i gregari s'affrettarono a sventolare bandiere e fazzoletti rossi, e qualcuno certo maledisse il sole il quale impediva che quelle fiaccole di cenci si spegnessero come s'erano spente nella notte le torce di resina. Su quella pace presto fatta da nemici che eran partiti all'assalto sotto la stessa bandiera, spuntarono lampeggiando alla luce dell'aurora le lance fitte della cavalleria.

***

In una certa grotta scavata nella scogliera, al di là del faro, Perdifiato, seduto in faccia al mare, aspettava pazientemente che spuntasse la alba. Il mare era livido e agitato, e vomitava contro lo scoglio ondate tutte bavose che si rompevano mugghiando sui suoi fianchi scoscesi. Poi con fischi e singhiozzi assordanti se le risucchiava in tanti mulinelli vorticosi, e, rigonfiandosi tutto, le risputava infuriato contro l'alta scogliera. Non si distingueva ancora la luce di levante, dove il sole insinuava tra cielo e mare la punta d'un raggio pallido pallido, dalla luce di ponente, dove la mezza luna, ancora tutta fuori dell'orizzonte quantunque già coricata, guardava di traverso le ombre a poco a poco sfumare sulla terra. E già i gabbiani, usciti dai loro nidi, assalivano il vento a testa bassa remando affannati con le ali tutte distese. Perdifiato, cercando di allontanare dagli occhi i ciuffi di capelli spioventi che gli impedivano di vedere, malediceva in cuor suo il boia destino che invece di dargli due ali possenti come quelle dei gabbiani, gli aveva anche tolta una gamba, per cui egli doveva tutto fare con una gamba sola, cercando di aiutarsi alla meglio con una stampella di legno. Almeno la gobba, che il destino, previdente di ciò che gli sarebbe mancato poi, gli aveva appioppata sul groppone fin dalla nascita, e di cui egli non sapeva che farsi, avesse potuto cambiarla con un'altra gamba! Ma no! La gamba se ne era andata sotto un carro, e la gobba gli era invece rimasta. E lo chiamavano Perdifiato appunto perchè, camminando con quella stampella e quel fagotto sempre appeso alle spalle, pareva a tutti che per la gran fatica dovesse mancargli da un momento all'altro il fiato.

Se avesse avuto tutte e due le gambe come una volta, anche la gobba gli sarebbe sembrata più leggiera. Ma certo egli non le avrebbe impiegate, come quegli stupidi gabbiani impiegavano le loro ali, a lottare contro il vento senza nessuna speranza di poterlo attraversare. Se mai si sarebbe messo a gareggiare con lui, per fare a chi correva più veloce, e tanto meglio se il vento, prendendolo in poppa, lo avesse anche aiutato. Allora non gli sarebbero occorse due ore per arrivare da quella grotta maledetta al centro della città, e poi altre due ore per mettersi in salvo prima dell'alba. Ma così conciato, che avrebbe potuto fare di più? Appena aveva visto fiammeggiare l'incendio nel porto s'era messo a correre, e, rischiando ad ogni passo di schiantarsi anche quell'unica gamba che gli rimaneva, aveva fatto salti da cavalletta su per la scogliera e poi lungo il molo tutto ingombro di travi, di corde, di àncore, di botti. L'anima agitata gli avrebbe messo le ali ai piedi, se ne avesse avuti due. Ma a una gruccia, a un povero pezzo di legno, come poteva mettere un'ala? Sicchè tutto sfiatato, era giunto appena in tempo a intrufolarsi in una certa bottega che aveva la porta sfondata, giusto per spigolare quello che gli altri più fortunati, cioè più veloci di lui, vi avessero per caso dimenticato. Con un moccoletto s'era messo a frugare, e per quanto quella fosse la bottega di un gioielliere, non aveva trovato se non un paio di vecchie scarpe, in un angolo, in un altro una valigia usata, sopra un tavolo una lente d'ingrandimento e un poco più in là una bilancia di precisione. Nel fondo di uno scrigno di ferro, che doveva aver dato molto da fare per aprirlo c'era un mucchio di cartoccini di carta velina che certo erano stati pieni una volta ma ora parevano tutti vuoti, mezzi strappati e sfatti. Perdifiato, affondando scrupoloso la mano nel mucchio, credette di sentirne uno ancor pieno. Allora, per non perdere tempo, aperta la valigia, vi rovesciò dentro tutta quella carta, e, confidando nella fortuna, così carico di quel magro bottino prese la via dell'uscita.

Ma il ritorno non era andato così liscio come si poteva sperare. Sotto un arco buio aveva fatto un incontro che per poco non gli era costato la pelle; perchè, mentre se ne andava tutto saltellante per la via più breve, due ombre si eran staccate da un angolo e gli avevano sbarrato il cammino.

– Olà! diceva una voce rauca, d'uomo, tu prendilo per il collo e tiello fermo…

E un'altra voce, che pareva di ragazzo, diceva:

– Sbattilo al muro e io lo frugo.

Perdifiato si sentì veramente mancare tutto il fiato che dopo tanto correre ancora gli rimaneva, e balbettò:

– State boni ragazzi! Per chi mi prendete?

Ma due mani possenti lo afferrarono per le spalle, e altre due mani gli abbrancarono il ginocchio, e Perdifiato, barcollando, sentì che quello che lo stringeva alla gamba cercava nell'ombra l'altro ginocchio, per agguantarlo, e non lo trovava. Intanto quello che lo teneva abbracciato per le spalle diceva:

– Maggiolino, cavagli questo fagotto che ha sulla schiena!

Allora sentì la stretta del ginocchio mollare, e due mani gli si infilarono sotto il corpetto e incominciarono a palpargli la gobba.

– Non viene niente! gridò indispettito il ragazzo, che era quello che lo frugava.

Allora l'altro prese Perdifiato per i capelli e lo scrollò con tanta forza, che, perdendo l'equilibrio, egli cadde lungo disteso per terra.

– Lasciatemi andare! gemette. Sono un poveraccio anch'io!

In quel mentre s'udì uno scalpiccio di gente che si avvicinava correndo, e allora quello che gli stava sopra gli assestò un pugno nelle costole, e se ne fuggì a precipizio seguito dal ragazzo che dileguò subito con lui nel buio.

Perdifiato rimase qualche minuto immobile, senza respiro, per l'acuto dolore che sentiva alle costole. Poi, quando non udì più alcun rumore, cercò di sollevarsi, e palpandosi il fianco sentì che versava sangue.

– Maledetti! gemette. M'hanno bucato!

E premendosi con una mano la ferita, e con l'altra aggrappandosi al muro, si alzò in piedi, ritrovò la gruccia, la valigia e le scarpe che, sfuggendogli di mano quando era caduto, erano rotolate poco lontano, e ansando disperatamente raggiunse la grotta dove Prisca ed Accolito dormivano ancora ignari di tutto.

***

Ora gli premeva di sapere due cose, e perciò aspettava la luce del giorno: prima di tutto se in quei cartocci che stavano nella valigia ci fosse qualche cosa di buono; poi se la ferita che lo faceva soffrire, e non voleva stagnarsi, fosse grande o piccina, soltanto un graffio oppure un buco profondo. Finalmente un po' di chiarore si fece nell'aria, e Perdifiato, rovesciata la valigia in una specie di buca fatta nello scoglio, incominciò a passare uno dopo l'altro gli involti di carta velina, e non c'era piega ch'egli lasciasse inesplorata. Con sua infinita gioia in uno trovò una pietruzza che al tasto e al colore, alla rotondità, riconobbe per una perla. Era una bella perla bianca, grossa come un cece. Poi trovò, in un altro cartoccino rimasto intatto, quattro o cinque pietre giallognole, trasparenti, lavorate come il brillante, ed erano quattro o cinque topazi. Infine trovò, proprio quando aveva perduta ogni altra speranza e non rimanevano nella buca se non pochi straccetti di carta, una collanina d'oro da cui pendeva uno smeraldo ovale. Perdifiato stava guardando quello smeraldo contro luce per vedere quanto fosse limpido e trasparente, quando un dolore acuto gli attraversò improvvisamente il fianco ferito e gli strappò un lamento. Si rovesciò allora il corpetto, e si vide tutto sporco di sangue. Sotto le costole gli si apriva un taglio di coltello largo due dita che doveva essere profondo assai. Perdifiato si arruffò disperato i capelli sulla fronte e capì che di quel colpo poteva morire. Infatti si sentiva a poco a poco mancare le forze, e già gli occhi gli si annebbiavano. Chiamò con tutta la sua voce: – Prisca! Accolito! – e cominciò a tirar sassi nella grotta per svegliarli.

Prisca dormiva profondamente nel suo letto fatto di stracci e di foglie secche, e sognava di esser presa in mezzo da quattro o cinque giovani che portavano tutti un garofano in bocca e la volevano ad ogni costo spogliare. Ella teneva un braccio disteso e la sua bella testa, bruna e crespa, posata su quel braccio. Si agitava tutta nel sogno e dalle sue belle labbra sorridenti uscivano di quando in quando piccoli gridi lamentosi, come se realmente ella si trovasse alle prese con una muta di innamorati. Uno dei sassi che Perdifiato tirava nella grotta la colpì alla spalla e la destò spaventata. Ed ella, rizzandosi con un salto a sedere sul letto, subito con la mano si nascose i piccoli seni tondi e rosei nella camicia, e si guardò intorno con occhi torvi, come se contasse di non vedere che nemici. Ma non vide nessuno, se non Accolito che, coricato al suo fianco, ronfava con le labbruzze aperte e gli occhi rovesciati, che mostravano fra le palpebre brune un filo di bianco, e parevano due castagne tagliate. Ma subito dopo udì la voce di Perdifiato che la chiamava, e curvandosi sopra un fianco, vide anche lui, nell'arco chiaro della grotta, che si stringeva la faccia con le mani e si torceva come se avesse le doglie. Ella saltò su in piedi, e infilatosi alla svelta un gonnellino, scalza andò a vedere che cosa avesse il suo caro marito per lamentarsi e dimenarsi così.

 

– Crepa! esclamò poi strofinandosi gli occhi cisposi. Chi ti ha pregato di andare? Manco se avessi tre gambe invece di una, e un paio di ali invece di quella gobba dannata!

– Andiamo, disse Perdifiato che non ne poteva più dal dolore, mettimi a letto e fammi un impiastro…

Prisca lo prese per le spalle e lo trascinò sul letto dal quale s'era alzata allora. Poi ritornò fuori, e raccolta la perla e la collana con lo smeraldo e i topazi che erano posati sulla pietra, li mostrò a Perdifiato e gli chiese:

– Questi cosa sono?

Perdifiato glieli tolse di mano con violenza e senza rispondere li annodò stretti stretti in un angolo della coperta. Prisca si avvicinò a un fornello piantato in un angolo fra quattro sassi, su cui stava una pentola di coccio, e nella pentola c'era un po' di pancotto che galleggiava in un brodo nero. Prisca prese un cencio e se lo distese sulle ginocchia. Poi prese un po' di quel pane spappolato e ne fece una specie di focaccia larga come una mano. Lo involtò bene bene nel cencio e, sollevato il corpetto di Perdifiato, gli appiccicò l'impiastro sulla ferita.

– Non aver paura! disse con sarcasmo. L'anima tua da questo buco non ci passa!

***

Quel giorno trascorse così. Perdifiato si lamentava tutto rattrappito sul letto. Dopo qualche ora si strappò dal fianco il corpetto, l'impiastro di pancotto, la cintola dei calzoni, e tutto scaraventò lontano da sè con ira. Si sentiva bruciare dentro, le viscere, come se avesse inghiottito e digerito una pietra infernale. I suoi occhi bovini, tondi e neri, pareva che per il gran dolore gli dovessero schizzar dalla testa, e che egli picchiasse la testa nel muro appunto per farli rientrare nelle orbite.

Era giorno di domenica. Prisca prese Accolito e lo portò ad una pozzanghera d'acqua salata che il mare aveva lasciato nel cavo d'uno scoglio, e senza pietà gli lavò il viso, le orecchie e le mani, che dopo quella lustrata brillarono al sole più nere che mai, perchè erano nere di natura. Anche Prisca era nera. La sua pelle aveva il colore del bronzo: era bruna e dorata, e lucida più del metallo. Asciugò Accolito nella sua sottana e poi gli infilò certe brachette di velluto nero e un camiciottino bianco ricamato. Sulla fronte gli spazzolò bene il ciuffo. Quindi, preso lo specchio, ch'era un pezzo di specchio tutto scheggiato, lo appoggiò ad un sasso, e, accoccolata, incominciò con il pettine, che aveva sì o no quattro denti, a districarsi i capelli, fitti e increspati come la lana. Ma non riuscì che a strappar qualche nodo e a sciogliere qualche ricciolo, e il resto le rimase tutto raggomitolato intorno al capo, che sembrava appunto un gran gomitolo di lana. Un nastro giallo se lo passò sotto la nuca e se lo annodò in due bei cornetti dritti nel mezzo della fronte. Poi, senza vergognarsi del mare che la guardava con i suoi mille occhi sfavillanti di sole, si spogliò nuda nuda, e in breve si rivestì degli abiti di festa, ch'erano certe calze di seta azzurra, un corsettino di lana rossa e una gonnella nera di panno. Alla cintola si annodò un altro nastro verde e i piedi li calzò con due belle scarpette. Così, tutta vestita bene, si accostò al letto dove Perdifiato non la finiva più di gemere e di agitarsi. Egli stava rivoltato con la faccia contro la parete e teneva le braccia intorno al capo. La coperta era tutta ammonticchiata in fondo al letto. Prisca si curvò e cercò quel nodo che Perdifiato aveva fatto in un angolo della coperta per racchiudervi la collana e le altre pietre preziose, lo sciolse, e, presa la catenina d'oro con lo smeraldo, svelta si allontanò senza essere nè veduta nè udita.

Nonostante i disordini della notte tutti erano per le strade in quel giorno di festa, e Prisca, tirando per la mano Accolito, non faceva minor figura delle altre donne giovani e belle che, a braccetto dei loro innamorati, tutte accese in viso per il sole che incominciava a scottare, con vestiti e nastri sgargianti, collane e braccialetti d'oro, se ne andavano dondolando da un marciapiede all'altro. Prisca era giovane, fresca, diritta, e Accolito non si sarebbe detto suo figlio. Ma a lei, tutte le altre domeniche, toccava di trascinarsi al fianco di Perdifiato, che non si staccava un minuto; e camminare tra la folla con quella gruccia e quella gobba era un tormento. Egli poi non stava zitto mai, e bastava che uno guardasse la sua donna, ch'egli si metteva a chiamarla per nome, perchè tutti sapessero subito che quel fiore gli apparteneva. Perciò quel giorno Prisca andava trionfante e libera, e tutti potevano guardarla quanto volevano, e averne da lei in compenso certi bei sorrisi bianchissimi. Ma il meglio sarebbe accaduto in Borgo S. Angelo, ch'era il quartiere dei ladri, dove Perdifiato l'aveva presa ragazza.

***

Perdifiato intanto si disperava, solo, nella grotta che già incominciava a riempirsi di ombra. Egli vedeva l'inferno aperto ai piedi del suo letto e tutti i diavoli rossi, con le corna e le forche, che ballavano nelle fiamme. Chiamava Prisca, chiamava Accolito, ma non gli rispondeva se non la propria voce fatta cavernosa. Aveva sete, e beveva ogni tanto un sorso d'acqua da un vaso di coccio che aveva accanto al letto. Ma quell'acqua, che era fredda finchè la teneva in bocca, appena passato il gargarozzo diventava bollente e pareva piombo liquefatto che gli colasse nelle viscere. Si sentiva morire. Si abbrancava con le mani alle pareti scabrose, ma certo sarebbe finito nell'inferno che lo aspettava laggiù spalancato. Sua moglie e suo figlio l'avevano abbandonato. Forse Prisca, tanto coraggiosa, avrebbe potuto scacciare quei diavoli rossi, chiudere quella buca arroventata con delle palate di sabbia! Disperato, egli invocò la Madonna del Parto, che aveva già salvato Prisca quando aveva dato alla luce Accolito; e benchè non sperasse più nulla, con sua gran meraviglia la vide d'un tratto apparire in una nuvoletta candida. Allora le offrì col cuore tutte le sue ricchezze. La Madonna gli disse: – Perdifiato, mi darai la collana d'oro con quello smeraldo ovale. La nuvoletta svanì, e Perdifiato afferrò la coperta e sfece il nodo. Ma non trovò la collana.

E tutti, vedendo passare Prisca con Accolito, le andavano incontro allegri, e, guardandola con ammirato stupore, le dicevano: – Oh! fiorita come una rosa di maggio, la nostra bella Prisca! E il gobbo se l'è bevuto il mare? Come siamo sgargianti! E questa bella collana, con questo bello smeraldo, chi ve l'ha regalata? Dalla gobba dello sposo è uscita? E ridevano, e Prisca rideva più di loro. E gli uni le dicevano, additando Accolito: – Il fagotto più grosso, manco male, l'hai lasciato a casa. Ma anche questo fagottello qui, perchè non lo butti in mare? Accolito si metteva a piangere, e allora Prisca gli dava due sculacciate e gli gridava: – Stupido come tuo padre! Non vedi che te lo fanno apposta? Ed altri diceva strizzando l'occhio: – Eh! Eh! la nostra bella Prisca, che collana ha messo su! Le donne, specie le ragazze da marito, che vedevano come tutti i giovani le corressero dietro a farle mille grazie, bisbigliavano arricciando il naso: – Ohibò! Dove l'avrà tolta quella collana? L'avrà mica rubata?

Perdifiato vedeva la buca dell'inferno ai piedi del suo letto allargarsi sempre più, e gli pareva che le fiamme che ne uscivano fossero lunghe fino al soffitto. Tutto per quella collana che la Madonna gli aveva chiesto, e ch'egli non le poteva dare! Eppure l'aveva annodata nell'angolo della coperta con le altre pietre preziose. Ma ora non c'era più. Disperato si gettò colla faccia contro il letto e rimase così irrigidito nello spasimo che gli lacerava il fianco, finchè non gli parve di vedere, nell'ombra che ormai riempiva la grotta, splendere una fioca luce. Allora alzò il capo e vide Prisca che, tenendo in mano un moccolo di candela, stava curva a guardarlo. Ma subito vide anche pendere dal suo collo lo smeraldo che oscillava come una stella verde, e con un grido furioso glielo strappò, e, stringendolo nel pugno chiuso, si rovesciò svenuto sul letto.