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Il perduto amore

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Loreto, lo reee!

Chi l'è che passa?

Lo re che va alla cacciaaaa…

Tacca trombetta!

Trrrr…

si misero a cercare la collana per tutte le stanze attraverso le quali era passata Silvina per giungere a quell'ultima stanza dove il principe Stanislao era stato rinchiuso. Furono sollevati tappeti, spostati mobili, rovesciate sedie; il letto in quella stanza fu tutto sfatto, e le lenzuola sbattute per ogni verso, e il principe, ginocchioni, frugò sotto tutti i mobili. Ma la collana non venne fuori.

Allora Silvina s'attaccò ad una speranza, e cioè che la collana fosse proprio là dove l'aveva posata la sera innanzi. Risalì a salti le scale, e preso il candeliere, che aveva posato sull'ultimo gradino, rifece il corridoio passo passo, e mentre se ne andava così curva, scrutando il pavimento, fu raggiunta da Silvio che rientrava in casa.

– Sai, gli disse Silvina con voce accorata, credo di aver perduta la mia bella collana…

– La collana dello smeraldo? domandò stupito Silvio.

– La collana, la collana! ripetè Silvina irritata. Quale vuoi che sia? Non ne ho centomila…

Il corridoio era finito. Silvina spense la candela, entrò nella stanza, e corse nuovamente al cassettone, e ricominciò a cercare. Vana speranza! Non c'era.

– Ma dove l'hai perduta? domandò Silvio.

– Se lo sapessi, sibilò Silvina, non farei tanta fatica a cercarla…

Di nuovo si mise in ginocchio a frugare sotto i mobili, e Silvio, inginocchiatosi accanto a lei, la seguiva in ogni movimento, in base al principio che quattro occhi vedono meglio di due. Poi il campo delle ricerche si estese, e dal cassettone si passò all'armadio, tutti i vestiti, che fortunatamente erano pochi, furono spiccati dagli attaccapanni e agitati come bandiere. E mentre Silvio diceva: – Vedrai che te l'hanno rubata! – Silvina rovesciò il letto, buttò all'aria lenzuola, coperte, cuscini e materasse, e poichè ormai non c'era più dove cercare, si lasciò cadere di traverso sul mucchio delle coltri disfatte e ruppe in un pianto disperato. Allora Silvio, smettendo anche lui l'inutile ricerca, andò, per consolarla, ad accarezzarle i capelli, e, affondata una mano in una delle ampie tasche del suo pastrano nuovo, ne trasse un cartoccio tutto fiorito e ricamato, e legato da un bel nastro rosa; e prendendo con due dita il mento di Silvina cercò ch'ella sollevasse il capo. E quando, dopo molte riluttanze, ella lo ebbe sollevato, Silvio le offrì quel cartoccio profumato, dicendole:

– Ti regalerò una collana più bella di quella, con uno zaffiro meraviglioso. Che serve ormai disperarsi? Vieni, piccina. Addolcisciti la bocca, dopo tante lacrime amare.

Silvina, lacrimando, prese quel cartoccio e lo aprì. Vide tanti bei canditi verdi, rossi e gialli, brillanti come pietre preziose. Allora sollevò gli occhi su Silvio, e avrebbe voluto frugargli nell'anima. Ma l'anima semplice di Silvio, incapace più di nascondersi, affiorò sul suo viso in un rossore di minuto in minuto più intenso, tanto che Silvina ebbe come in un lampo la rivelazione della verità.

– Tu! tu me l'hai presa! gridò soffocando d'ira. Tu sei stato, tu, tu, tu…

E gettato lungi da sè il cartoccio dei canditi, che rotolarono qua e là come tante pallottole colorate di vetro, si scagliò su di lui e lo tempestò rabbiosamente di pugni.

XII

Proprio in quel momento io avevo bussato all'uscio di quella stanza. La voce irata di Silvina domandò: – Chi è? – e ne seguì un rumore di sedie rovesciate, e poi un silenzio assoluto. Senza che avessi udito nessun passo avvicinarsi alla porta, la molla della serratura scattò improvvisa in quel silenzio. Mi trovai di fronte a Silvina. Dal giorno in cui era fuggita, e mi pareva un'eternità, non l'avevo più riveduta. Rivedendola allora, il mio povero cuore ebbe una trafitta dolorosa, come se in quell'attimo io rivivessi tutte le pene che ella aveva fatto soffrire a noi duramente cinque lunghi mesi. Se non fossi stato preparato alla più triste realtà, il suo viso tanto mutato mi avrebbe allora detto brutalmente fino a che punto ella si fosse allontanata da noi in quello spazio di tempo. Ma io non coltivavo più nessuna illusione, e perciò potei guardare Silvina senza avere orrore di quell'immagine che, sotto le sue sembianze, vedevo dinnanzi a me per la prima volta. E mentre Silvina, sorpresa dalla mia inaspettata apparizione, mi guardava senza fiatare, io le parlai calmamente così:

– Silvina, non temere nulla da me. Non mi vedresti qui senza una grave ragione… La mamma muore, Silvina, la nostra cara, la nostra buona, adorata mamma!

– La mamma? mormorò Silvina, abbassando triste il capo.

– Sì, Silvina, soggiunsi, la mamma ti ha perdonato. Devi venire con me…

La porta era aperta a metà, e Silvina l'aprì del tutto, e io vidi quella misera stanza in disordine, Silvio che mi volgeva le spalle abbandonato sopra una sedia, le rose bianche nel secchiello sul tavolo, i canditi sparsi per terra. Ma non entrai.

– Subito? domandò Silvina.

– Subito.

Silvina si ritrasse a capo chino, andò nell'angolo dove stava l'armadio, si gettò sulle spalle la mantellina, si mise in capo una cuffietta di lana, e ritornando verso me, mormorò:

– Andiamo.

Sulla soglia si arrestò un attimo indecisa, poi si voltò a Silvio, che non s'era mosso, e duramente gli disse:

– Non aspettarmi… Non tornerò mai più…

La nostra vecchia carrozza, guidata da Battista, ci aspettava all'angolo della strada. Incominciò quel triste viaggio di tre lunghe ore. Silvina, seduta al mio fianco, tenendo gli occhi fissi dinnanzi a sè, non parlava. Avvolto nel mio mantello, il cappello calcato sulla fronte, me ne stavo anch'io muto, cercando di non guardarla, e il mio pensiero non si allontanava un istante da mia madre, da lei che non viveva più ormai se non per quella ultima consolazione che io le portavo. Subito dopo la fuga di Silvina, mia madre aveva incominciato a deperire, e di giorno in giorno il suo viso si faceva più affilato e più bianco, come se a goccia a goccia le venisse meno il sangue nelle vene e un freddo fuoco consumasse la sua povera carne. Verso la metà di settembre, una mattina, la trovammo svenuta in giardino, dove scendeva sempre appena fatto giorno per pregare dinnanzi a una madonnina di marmo, un'Assunta in cielo, che era stata messa là, in una nicchia d'edera, il giorno in cui era nata Silvina. Trasportata nel suo letto, riaprì gli occhi, ma non erano più i suoi soavi occhi di prima. Una tristezza infinita vi aveva distesa per sempre la sua ombra, e da quel giorno furono due imploranti occhi che invocavano da Dio la fine di una vita ormai divenuta insoffribile. Alla fine di ottobre ella non era già più che un'ombra, un'ombra dal viso diafano, che si muoveva per la nostra casa a passi silenziosi e incerti, come desiderosa di uscirne, d'involarsi, e ancora trattenuta da non so quale peso e costretta ad aggirarsi inquieta per quelle stanze. Una mattina volle come sempre alzarsi per scendere e pregare in giardino, ma le forze le mancarono. Da quel giorno non lasciò più il suo letto. Ella teneva accanto a sè un ritratto di Silvina, una miniatura di lei bambina di dieci anni, quando ancora portava i capelli sciolti per le spalle, che pareva la dolce immagine d'un angelo. Allorchè la lasciavano sola, la mamma fissava gli occhi su quell'immagine e non se ne distaccava se non quando qualcuno, entrando nella stanza, veniva ad interrompere con la sua presenza quella specie d'ipnosi. Dopo due settimane il suo stato era disperato. I medici avevano rinunciato a ogni cura poichè il male che consumava mia madre non apparteneva ad alcuna delle categorie iscritte nella loro scienza. Era un male assurdo. Non era propriamente un male. Come un lume stanco ella si spegneva a poco a poco. Questa similitudine tranquillizzò presto la coscienza dei medici, che rassegnati rimisero i loro poteri nelle mani di Dio. Neppure sul tempo che poteva occorrere a quel fioco lume per spegnersi interamente, essi seppero fare previsioni. Poteva durare soltanto poche ore, poteva durare ancora settimane e mesi. E noi, a cuore stretto, ci preparammo ad aspettare che il destino irreparabile si compiesse secondo la sua misteriosa legge. Ma era venuto un giorno in cui mia madre, con i suoi occhi già fissi in un miraggio lontano, aveva veduto l'Invisibile trasvolare come un vento gelido per quella landa dove lei sola l'aspettava paziente da tanto tempo; aveva sentito il soffio della sua ala avvolgerla come in un freddo abbraccio. Quando ella ci chiamò era sera inoltrata, e ognuno di noi, in cuor suo, aveva già chiuso quel giorno, mettendolo nel numero di quelli che, per grazia di Dio, non si sarebbero mai più rivissuti, e stava preparandosi con accorata malinconia al giorno che doveva cominciare domani. Volle che tutti fossimo intorno al suo letto, e quando ci vide tutti presenti, si rivolse a mio padre, che la guardava attonito, e prendendogli le mani e accarezzandogliele dolcemente:

– Tu sei stato sempre buono con me, disse, non mi negherai ora questa grazia. Vada qualcuno a cercare Silvina… Che io possa darle ancora almeno un bacio…

Mio padre rimase muto, tossì, si coprì gli occhi con la mano, e per qualche minuto non si mosse. Poi, come se avesse preso una penosa risoluzione, chiudendo le palpebre per nascondere le lacrime, si curvò su mia madre, la baciò in fronte, e mormorò:

– Sia fatta la tua volontà.

Pronunciate queste parole, mio padre uscì precipitosamente dalla stanza come per dare degli ordini. Udii il suo singhiozzo soffocato. Mia madre levò i suoi occhi su noi, che le eravamo rimasti vicini, e ci sorrise.

– Voletele sempre bene, disse con un filo di voce. È la vostra piccola sorellina…

Quando, poco dopo, uscii dalla stanza, trovai mio padre seduto, al buio, nell'anticamera, che da solo smaniava con parole rotte e minacciose.

 

– Prima uccidete me, diceva, prima che ella rimetta il piede in questa casa!

Si alzò d'impeto, chiamò Marta, chiamò Battista, che accorsero atterriti a quella voce.

– Nessuno si muova, senza mio ordine, gridò mio padre. Nessuno entri in questa casa, senza il mio permesso. Intendetemi bene: nessuno!

E andò di persona a sprangare l'uscio.

Passai una notte angosciosa. Vidi l'alba grigia di novembre diffondere la sua luce spettrale sulla campagna tutta triste, deserta, immobile; vidi i veli labili delle nebbie sciogliersi dai rami stecchiti degli alberi, svanire come lieve fumo; udii i galli cantare dai chiusi pollai, poi li vidi sbandarsi sull'aia, e udii le prime voci umane, i primi passi nelle case dei contadini; vidi i paperi incamminarsi in fila lungo la roggia ghiacciata, come galleggiando nell'aria sporca di inchiostro, più bianchi della brina che faceva candida l'erba; quindi nel silenzio soltanto rotto da quei lievi rumori, udii lontano lo squillare delle sonagliere, e poi il rotolio delle ruote sulla via maestra, e lo schioccar della frusta, della prima carrozza di posta, che dal paese si muoveva per andare in città. Allora ebbi la sensazione che quel nuovo giorno, che allora incominciava, non c'era più speranza di poterlo rimandare ad un altro giorno; di poterlo sopprimere, di poterlo comunque evitare, sostituendolo con un altro giorno, preso lontano, fra quelli passati o fra quelli futuri, che non fosse dominato da una così imperiosa necessità di fare, e di vedere, e di patire ciò che in quel giorno doveva essere fatalmente fatto, veduto e patito. Ma io solo, fra tutti gli uomini, non potevo certo spostare il corso del tempo. E poichè tutti accettavano quel giorno come ogni altro giorno dell'eternità, e già incominciavano a viverlo, a muoversi, a riscaldarsi del suo debole sole, a consumare la sua poca luce, a riempirlo dei loro dolori e delle loro gioie, a convalidarlo con le loro parole ed azioni, io non potevo in alcun modo sottrarmi alla legge comune, ovvero in un modo solo, uccidendomi. Allora scesi le scale ed entrai nella stalla. Battista, in maniche di camicia, stava strigliando Casacca, la nostra vecchia cavalla bolsa, e mentre la strigliava, in quella loro affettuosa intimità che durava ormai da tanti anni, egli parlava alla bestia, confidandole tutti i malanni della propria vecchiaia e commiserando la sua.

– Sarìa tempo, vecia Casacca, pora bestiacca, diceva Battista, che ne mettessero tutti due addosso una bella coperta de tera alta e nera com' l'orinal del re de Fransa. Dalla tua tomba nasserebbe poscia un fiore dinominato Casacca, con la spuzza dei tuoi porci petti, brutta porca vecchia stramaledetta bestia, in omnia saecula saeculorum.

Ed egli tirò alla bestia un'amorosa pedata e mi disse: – Buon dì!

Ma quando lo chiamai sulla porta, prima ancora che avessi incominciato a parlare, aveva già capito, Battista, che cosa volevo da lui. Egli, che m'aveva veduto nascere, mi strinse le mani in silenzio con le sue dita nodose come radici, e con quella stretta volle baciarmi e abbracciarmi, e dirmi che era pronto a morire per assecondarmi in quell'impresa. Casacca, da vecchia porca stramaledetta che era, fu accarezzata da lui con i nomi più dolci, mentre in fretta quanto più poteva, le infilava i vecchi finimenti, e la cavezza tutta rattoppata. Cocottina, signorina, Brigidina, angiol del paradiso, santa bestia, tutti i nomignoli più delicati uscirono dalla sua bocca, mentre la sospingeva rinculoni tra le due stanghe della nostra sgangherata carrozza, e attaccava i tiranti al bilancino e le ficcava il morso tra le ganasce sdentate, finchè in un fiat fu pronta. Ed egli salito in cassetta, io rannicchiato sotto il mantice, s'era presa di gran trotto la via maestra alla volta della città.

Quanto m'era sembrata miracolosamente breve la strada nell'andare, tanto ora mi sembrava lunga al ritorno. Allora Casacca zoppicando zoppicando trottava di buona lena, fresca del lungo riposo, la pancia ben rimpinzata d'avena, e bastava l'ombra della frusta a farle drizzare le orecchie e supplire con la buona volontà al difetto d'una gamba. Ma ora quella gamba anchilosata imbrogliava maledettamente le altre tre, ed era un continuo inciampare e scapicollarsi, che non bastavano le redini tese di Battista a tenerla su. Ad ogni minaccia di frusta era un sobbalzo spaventato che trascinava la carrozza fuori di carreggiata a traverso della strada, e nella pancia vuota della bestia l'acqua bevuta alla fontana risciacquava con un rumor cupo di botte. Era passato da più di due ore il mezzodì e anch'io avevo fame. Silvina, digiuna come me, pallida, rincantucciata al mio fianco, gli occhi chiusi e le mani abbandonate in grembo, si lasciava sballottolare. Questa tortura durò quattro interminabili ore. Finalmente dopo l'ultima salita, sotto il monte rosso, ci apparve il campanile tutto annuvolato di olivi, che crescevan fitti sulla collina. Prima di giungere alla nostra casa si passa dinnanzi al cimitero, che è sopra un poggio erboso, recinto da un muro di pietre nude, grigio grigio, tra un ippocastano altissimo e aperto come un pino, e una fila di cipressi neri che si affacciano sulla via maestra. In quel punto fermai Battista. E mentre egli riconduceva la carrozza vuota a casa, noi altri due prendemmo di traverso i campi, e cercando di camminare nascosti dietro le canne delle viti e i tronchi fitti dei gelsi, raggiungemmo la porticina del frutteto che era, come sempre, socchiusa. Da quella stessa porta era fuggita Silvina cinque mesi innanzi. Entro il recinto del frutteto, addossata al muro, c'era allora una capannuccia di paglia, che aveva fatto Battista per appostare i merli. La mostrai a Silvina e le dissi:

– Aspettami qui nascosta.

XIII

Mia madre era assopita. Accanto a lei, ai due lati del letto, come i due angioli oranti ai lati della culla del bambino Gesù in certe oleografie che si vedono in queste case di contadini, Adalgisa e Maria vegliavano raccolte il riposo dell'inferma. Esse mi guardarono, interrogandomi con gli occhi, non osando parlare. Soltanto dopo un poco Adalgisa mi disse sommessamente: – Tutto il giorno ha chiesto di te prima di assopirsi!

Incontrai mio padre nel corridoio. Egli mi si fermò un istante dinnanzi, e temetti che volesse interrogarmi. Ma abbassò il capo, e, accigliato, in silenzio passò oltre. Mi avvicinai a una finestra che s'apriva sull'aia, e vidi un po' di luce nella stalla, dove certamente Battista stava rigovernando il letto di Casacca dopo averle versata l'avena nella mangiatoia. Incominciava a imbrunire. I rami spogli del frutteto erano così fitti e intricati che non potevo vedere la capannuccia di paglia, laggiù in fondo, dove Silvina aspettava. Pensai che ella dovesse sentirsi morire di fame e di freddo, e le mandai Marta con una tazza di latte caldo, del pane e una coperta di lana.

Più tardi mia madre si svegliò, e noi ci trovammo di nuovo raccolti intorno al suo letto, come sempre a quell'ora prima di separarci per andare a dormire. Di solito ella voleva che Maria leggesse forte le preghiere della sera, e che tutti noi l'ascoltassimo in silenzio, e si recitasse un pater e un ave insieme con lei, che ella incominciava con la sua voce velata: Ave Maria gratia plena… Poi invitava mio padre ad andarsi a coricare, poichè sapeva che si sarebbe alzato all'una di notte, per assisterla fino all'alba, come faceva ormai da tre settimane. Anche quella sera ella recitò il pater e l'ave, e poi disse a mio padre di andare a riposare. Ma i suoi occhi lo guardarono fissamente, con uno sguardo interrogativo, come se attendesse da lui qualche cosa. Mio padre la baciò in fronte e se ne andò.

Io uscii poco dopo nel corridoio e in punta di piedi cercai di spiare alla porta della sua stanza. Era buia e non s'udiva nessun rumore. Egli doveva essersi già coricato. Allora scesi in fretta le scale e, passando per la dispensa, attraversai il frutteto e trovai laggiù Silvina rannicchiata in fondo alla capannuccia di paglia, e sentii che era tutta ghiaccia, e batteva i denti dal freddo. Era buio buio. Inciampavamo nelle radici degli alberi, affondavamo il piede nei solchi freschi. Silvina si lasciava trascinare: dovetti più volte sostenerla perchè non cadesse. Finalmente entrammo in casa, e, rallentando il passo e camminando in punta di piedi, raggiungemmo la mia camera dove ci chiudemmo a chiave.

Acceso il lume, Silvina si abbandonò sfinita sul letto, disfatta, e tremava. Occorse un po' di tempo prima che incominciasse a riaversi e i suoi occhi semispenti si ravvivassero. Allora, quando vidi che non tremava più e che avrebbe potuto sostenersi, le dissi:

– Preparati, Silvina. Tra poco ti condurrò da lei…

Uscii per andare ad assicurarmi che nulla di nuovo fosse accaduto in quel frattempo, e per dare cautamente a mia madre, forse già rassegnata in cuor suo a non vedere appagato il suo ultimo desiderio, l'annuncio dell'imminente visita di Silvina. Marta era allora accanto a lei, e pareva che mia madre la supplicasse, e che la vecchia, curva sul letto, cercasse amorosamente di confortarla. Quando io entrai, mia madre tentò di sollevare il capo dal guanciale, e, guardandomi con tenerezza, sospirò:

– Paris, Paris, conducila subito… Per pietà, non fatemi soffrire così…

– Sì, le dissi accarezzandola, ora verrà… Ora subito te la conduco…

Rientrato in fretta nella mia camera, con uno stupore angoscioso trovai Silvina che, seduta dinnanzi allo specchio, stava attorcigliandosi la treccia intorno al capo e arricciandosi i capelli sopra le tempie. Si era tolto il cappellino, e, accanto a una borsetta aperta, aveva posato due o tre scatoline, e un tubetto rosso. Nello specchio vidi inorridito le sue labbra rosse, appena tinte, i suoi occhi con le ciglia brune e lucide, le palpebre ombrate di viola.

– Silvina, Silvina, gridai precipitandomi su di lei e pensando che ora l'avrei uccisa, che hai fatto? Non ti vergogni?

E la scossi violentemente, e avrei voluto schiaffeggiarla, metterla sotto i miei piedi e stroncarla; ma per volontà di Dio il pensiero di mia madre non mi abbandonò, e presa una spugna inzuppata d'acqua gliela strofinai con furia sul viso, e afferrati i suoi capelli glieli scompigliai.

– Rifatti la pettinatura d'una volta! Non mostrare le tue vergogne! Nasconditi quella faccia spudorata! le gridai pieno d'odio, incapace di dominarmi.

Ed ella impaurita dall'espressione del mio viso che doveva essere atroce, impaurita da quei gesti con i quali la minacciavo, io sempre così mite, così debole, in fretta in fretta si asciugò il volto, e nervosa sfece del tutto le sue trecce, e se le ricompose come un tempo, divisi i capelli sulla fronte, raccolti poi sulla nuca; e quando ebbe finito si alzò per seguirmi.

Mia madre stava con gli occhi fissi sull'uscio. Quando entrai con Silvina, ella aprì le braccia e senza parlare, con gli occhi pieni di lacrime, la chiamò a sè. E quando l'ebbe abbracciata, con tutte le sue forze se la strinse sul petto e non si distaccò più da lei. Marta piangeva in un angolo. Io triste, in disparte, contemplavo quella pietosa scena, con l'orecchio teso sempre all'uscio, timoroso che mio padre, destato da qualche rumore insolito, potesse allora sorprenderci.

Mia madre e Silvina stettero a lungo così strette l'una all'altra, senza un movimento, senza una parola. Poi mia madre sciolse il suo abbraccio, e guardando Silvina che si era sollevata, cercò ansiosamente sul suo viso non so quale segno che ella sola conosceva, e mormorò:

– Sei sempre la stessa… la mia piccola Silvina…

Silvina abbassò gli occhi: non osò più guardare in viso sua madre. Vidi la vergogna che quelle innocenti parole produssero in lei e forse capì, allora, perchè io l'avessi trattata tanto brutalmente poco prima; l'avessi picchiata e insultata. Mia madre volle che si sedesse sul letto accanto a lei, ed io leggevo nei suoi occhi una sofferenza penosa, perchè avrebbe voluto parlarle e non poteva più. Le ultime parole che ella disse furono appunto quelle: – Sei sempre la stessa, la mia piccola Silvina… I suoi occhi vedevano ancora lucidamente, la sua intelligenza era ancora viva, ma non poteva più parlare. Tentava di quando in quando qualche gesto vago, stringeva le mani di Silvina, e poi con l'indice teso le faceva cenno di no. Voleva dire: – Non andartene più… non ritornare via… non mi abbandonare… non abbandonare tuo padre… E Silvina, osando appena sfiorarla con lo sguardo quando uno di questi gesti la costringeva ad alzare gli occhi, rispondeva di no col capo, ma non osava parlare.

Io pensavo quanto quella scena penosa si sarebbe prolungata ancora, allorchè mi parve di udire nel corridoio uno stropiccio di passi cauti, e persino il respiro affannoso di un uomo. Mi avvicinai lentamente all'uscio, lo socchiusi, e guardai da un lato e dall'altro. Ma il corridoio era perfettamente buio e non vidi nessuno. Quando mi volsi, mia madre mi chiamò, e presami con fatica una mano la unì alle mani di Silvina. Voleva dire: – Te l'affido… non lasciarla partire… proteggila tu. Allora, soltanto allora, mi ricordai che Silvina prima di lasciare Silvio gli aveva detto: – Non mi aspettare. Non tornerò mai più! – e pensai che forse Silvina, sebbene non avesse osato chiedermelo, desiderasse veramente di rimanere con noi, di non ritornare mai più a quella vita irregolare che doveva averle procurato più delusioni che gioie, più umiliazioni che piaceri, forse pentita, quantunque il suo maledetto carattere le impedisse di confessarlo, d'essersi abbandonata a quel capriccio, di aver cagionato a sè stessa e a noi tanto male. Forse la paura di mio padre, il timore di esser trattata duramente da noi, di esser punita con troppa severità, la rendeva ancora esitante. Forse orgogliosa com'era, aspettava che qualcuno le parlasse e la pregasse di rimanere. Davvero avrebbe dovuto lei pregare, inginocchiarsi dinnanzi a mio padre, invocare il suo perdono. Avrebbe dovuto mortificarsi ed espiare, almeno con un atto di umiltà, tutto il male che aveva fatto. Ma mia madre era morente, e mi sembrò che negarle l'ultima gioia, allontanare anche soltanto da lei di un attimo la possibilità di veder compiuto il suo ardente desiderio, sarebbe stata una colpa di cui avrei sentito eternamente il rimorso.

 

Allora chiamai Marta, e mentre lei, povera donna, cercava di nascondere le lacrime che dagli occhi colavano sulla sua faccia terrosa:

– Marta, le dissi, va a preparare il letto di Silvina, riordina presto la sua camera. Silvina rimane con noi.

Poi domandai a mia madre:

– Così, mamma?

Ed ella mi accennò di sì, e portò la mia mano alle labbra che erano appena appena tepide, la baciò, e con un profondo sospiro chiuse gli occhi per meglio contemplare quella felicità radiosa in cui si sentiva rapire.

All'orologio della chiesa suonarono i tre quarti. Tra un quarto d'ora nostro padre si sarebbe alzato, sarebbe venuto a prendere il suo posto accanto al letto, dove Marta aveva già silenziosamente preparato la sua poltrona con i due cuscini, e messo lo scaldino. Allora presi Silvina per la mano, e, senza che mia madre, assopita, se ne accorgesse, la condussi via. Passando dinnanzi alla camera di mio padre, in punta di piedi per non destarlo prima del tempo, vidi le fessure illuminate e lo sentii singhiozzare.

Mio padre non s'era coricato quella notte. Egli sapeva che Silvina era venuta. Egli era stato a spiare dietro l'uscio quando avevo introdotto Silvina nella camera della mamma, e quello stropiccìo, quel respiro affannoso che m'era parso di udire, era lui che si muoveva guardingo, lui che cercava di soffocare il suo pianto. Ah! perchè non entrò con noi, perchè non volle vedere Silvina, perchè l'orgoglio vinse, anche in quella notte, il suo dolore, ed egli preferì reprimere la sua pietà anzichè obbedire al suo cuore, si lasciò vincere dalla paura di mostrarsi debole, anzichè seguire l'impulso generoso che lo spingeva a perdonare? Forse Silvina sarebbe stata salva, e il male di quei mesi avrebbe potuto essere in qualche modo riparato, e la sventura si sarebbe allontanata per sempre dalla nostra casa. Ma mio padre non uscì dalla sua stanza se non quando udì che tutto era ritornato in silenzio, che noi ce n'eravamo andati, ed ogni pericolo d'incontrarsi con Silvina era, almeno per quella notte, scongiurato.

Silvina non volle neppure entrare nella camera che Marta aveva preparato per lei. Volle rimanere, vestita com'era, in camera mia, e a stento potei indurla ad adagiarsi sul mio letto e ad appoggiare il capo sul mio cuscino. Seduto accanto a lei, con il cuore pieno d'angoscia, le domandavo di quando in quando:

– Rimarrai, Silvina?

Ed ella rispondeva di no col capo, e non mi guardava, non diceva una sola parola. Gli occhi non le si chiusero mai, neppure per un istante, finchè la luce di un altro giorno diradò lentamente le tenebre, fece impallidire la luce della nostra lampada, e allora Silvina si alzò, si strinse sulle spalle la mantellina, raccolse le sue piccole scatole di pomata, di belletto, di cipria, abbandonate accanto allo specchio, e nascose i capelli nella sua cuffiettina di lana. Come la mattina innanzi, quando ero partito per andarla a cercare in città, il silenzio notturno fu rotto dalle prime voci umane che risuonavano stranamente nell'aia, i cani della scuderia abbaiarono, le campane della chiesa si sciolsero in uno scampanìo lungo e triste.

– Silvina! supplicai ancora, con un singhiozzo.

Silvina varcò la soglia senza neppure voltarsi, e scomparve. Poco dopo udii la vettura di posta tutta squillante di sonagli avvicinarsi per la via maestra, l'udii passare al trotto e allontanarsi…