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I Vicere

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Per lei, come per tutti i capi delle grandi famiglie, i figliuoli desiderabili ed amabili non potevano essere se non maschi: le femmine non sapevano far altro che mangiare a ufo e portar via parte della roba di casa, se andavano a marito. Questa idea salica, molto ben radicata nel suo cervello, ammetteva veramente qualche eccezione – ella stessa, per esempio – ma verso la prole era la sola che la guidasse. Fra gli stessi maschi, tuttavia, ella non ne aveva considerati due egualmente. In vita, aveva quasi odiato il primogenito e idolatrato Raimondo; ma l’odiato era l’erede del titolo, il futuro capo della casa; e il preferito, nonostante il sacrificio di Lodovico, un semplice cadetto: pertanto ella aveva messo d’accordo il rispetto alla tradizione feudale e la soddisfazione della sua personale volontà deliberando, senza dirne nulla, di dividere le sue ricchezze ai due fratelli, cioè defraudando il primogenito, che avrebbe dovuto aver tutto, e favorendo l’altro che non avrebbe dovuto aver nulla. Degli altri due, Lodovico era stato quasi soppresso per dar posto a Raimondo, mentre Ferdinando aveva potuto vivere fin ad un certo punto libero e a modo suo. Verso le donne, invece, ella aveva nutrito un più profondo e uniforme sentimento di repulsione e quasi di sprezzo, lavorando a impedire che «rubassero» i fratelli. Angiolina, la maggiore, era stata condannata alla vita claustrale fin dalla nascita, per una colpa imperdonabile commessa nel venire al mondo. Dopo un anno di matrimonio, donna Teresa era vicina a partorire: aspettava un maschio, il primogenito, il principino di Mirabella, il futuro principe di Francalanza: ella non solo l’aspettava, ma non ammetteva che non venisse. Nacque invece una femmina: la madre non le perdonò più. Fin da quando la tolse dalle fasce la vestì da monachella: la bambina non parlava ancora che fu portata ogni giorno alla badìa di San Placido: a sei anni fu chiusa lì dentro «per educazione», a sedici la mite e semplice creatura, ignara del mondo, soggiogata dalla volontà materna e dagli stessi impenetrabili muri del monastero, si sentì realmente chiamata a Dio: in tal modo morì Angiolina Uzeda e restò Suor Maria Crocifissa.

Chiara, venuta subito dopo e rimasta in casa, aveva provato peggio il rigore materno; né la principessa l’aveva lasciata al secolo per paura del biasimo con cui la gente avrebbe considerato il sacrifizio di due figliole; bensì per esercitare ella stessa sulla ragazza una vigilanza e un’autorità più severa e più forte di quella che la Badessa esercita in una badìa. «Ma da una pazza come mia cognata,» soleva dire don Blasco, «e da una bestia come mio fratello, che cosa doveva venir fuori? Una bestiona arcipazza, naturalmente!» E che s’era visto, infatti? S’era visto che fin a quando la madre l’aveva tenuta in un pugno di ferro, questa figliuola aveva sempre chinato il capo, rispettosa e obbediente; il giorno poi che la principessa, trovato quello stupido del marchese di Villardita il quale s’offriva di sposare la giovane per niente, s’era persuasa di maritarla, ella aveva detto di no, di no, di no: cose veramente dell’altro mondo!… Il marchese, vista la ragazza di tanto in tanto, sotto lo scialle, in chiesa, se n’era innamorato, e la principessa, risolutissima a dargli la figliuola, lo aveva ammesso in casa; ma, scoraggiato dalla fredda accoglienza e dalle ostinate repulse di Chiara, persuaso da parenti ed amici che faceva una pazzia a sposar per forza chi non lo voleva, egli si sarebbe ritirato in buon ordine, se donna Teresa, che quando pigliava partito neppure il diavolo la faceva andar indietro, non gli avesse ingiunto di rimanere al suo posto. Così, quand’egli rivedeva la ragazza, seduta in un angolo, a capo chino, col fazzoletto in mano, aveva voglia di mettersi a piangere anche lui, «quel vitello», diceva don Blasco, «tanto tenero di cuore da innamorarsi del faccione lungo di mia nipote!» Chiara, infatti, non era una bellezza, e la madre, dapprima per dissuaderla dal matrimonio, poi per indurla ad accettare quel partito, le ripeteva tutti i santi giorni: «Che non ti guardi allo specchio? Non vedi quanto sei brutta? Chi vuoi che ti pigli?…», ma Chiara, di rimando: «Nessuno, tanto meglio! Se Vostra Eccellenza non voleva maritarmi? Mi lasci stare in casa!…» Di prima impressione come tutti gli Uzeda, Chiara non aveva voluto sentirne di quel promesso, per l’unica e sola ragione che era un poco pingue; ma, una volta preso quel partito, la cocciutaggine, ereditaria negli Uzeda molto più che l’impressionabilità, era stata la più potente ragione della resistenza opposta alla madre: fino all’ultimo momento, pertinace, ostinata, inflessibile, aveva detto che mai, mai, mai avrebbe sposato quella mezza botte, e inutilmente i fratelli, gli zii, il Padre confessore le avevano spiegato che, se non era magro, il marchese possedeva un cuor d’oro, e che la sposava senza dote pel bene che le voleva, e che in casa di lui sarebbe stata da regina perché era solo e straricco, e che se lasciavasi sfuggire quel partito, la madre poteva tornare alla prima idea di non maritarla, di lasciarla invecchiar zitellona: coi piedi al muro, ella aveva sempre risposto di no, di no e poi di no. La principessa dapprima le aveva tolto la parola, poi l’aveva strapazzata come una serva, poi l’aveva chiusa a chiave in un camerino buio, senza vesti, con poco cibo; poi l’aveva cominciata a picchiare con le mani nocchiute che facevano male, giurando di lasciarla morir etica, se non si piegava. E al marchese il quale, preso dagli scrupoli, veniva a restituirle la sua parola: «Nossignore,» diceva: «ha da sposarti, perché così voglio. Se lei è degli Uzeda, io sono dei Risà! E vedrai che cangerà!…» Ella sapeva com’eran fatti, tutti quegli Uzeda; quando s’incaponivano in un’idea, neanche a spaccargli la testa li potevan rimuovere; erano dei Viceré, la loro volontà doveva far legge! Ma da un giorno all’altro, quando uno meno se l’aspettava, senza perché, cangiavano di botto; dove prima dicevano bianco, affermavano poi nero; mentre prima volevano ammazzare una persona, questa diventava poi il loro migliore amico… Fino all’ultimo momento, Chiara non aveva mutato: dinanzi all’altare, con due campieri a fianco, due facce brigantesche scovate apposta dalla madre per incuterle spavento, era svenuta, e solo il prete di buona volontà aveva udito il «sì»; ma il domani delle nozze, quando la famiglia andò a far visita agli sposi, o non li trovarono abbracciati che si tenevano per mano?… «Cose da far trasecolare!» gridava don Blasco. La gente di servizio, i famigliari, gli amici, scherzarono un pezzo tra loro sul mezzo che il marchese aveva adoperato per addomesticar la moglie: fatto sta che Chiara da quel giorno fu tutt’una cosa col marito, fino al punto che egli non poté tardare un quarto d’ora a rincasare senza che ella gli mandasse dietro tutta la servitù, fino ad essere gelosa dei suoi pensieri. E non ebbe più, in tutte le circostanze piccole e grandi, altra opinione che quella del marito; prima di dare una risposta, se le domandavano qualcosa, lo interrogava cogli occhi quasi temendo di non dire ciò che egli stesso pensava; il suo unico e grande dolore era quello di non avere un figliuolo da lui, dopo tre anni di matrimonio, dopo avere annunziato quattro o cinque volte, per troppa fretta, la propria gravidanza; ma anche così dimostrava il bene che voleva al suo Federico.

La principessa glielo aveva dato per molte ragioni. Prima di tutto le era nata, dopo i quattro maschi, una terza figlia, quindi ella aveva ragionato o «sragionato», a giudizio di don Blasco, così: delle tre, la prima monaca, la seconda a marito, l’ultima in casa. Ora il marchese, innamorato della ragazza, prometteva non solo di prenderla senza dote, ma di prestarsi anche ad una piccola commedia. Se fermo proposito della madre era che la sostanza della casa non fosse intaccata dalle femmine, il suo orgoglio di principessa di Francalanza non poteva consentire che la gente vantasse la generosità del genero nel prendersi Chiara senza un baiocco, quasi togliendola all’ospizio delle trovatelle. Pertanto, nei capitoli matrimoniali ella aveva costituito alla figlia una rendita di dugent’onze annue: così diceva l’atto registrato dal notaio Rubino e così sapevano tutti; ma poi il marchese le aveva rilasciato un’àpoca, accusando ricevuta dell’intero capitale di quattromila onze, delle quali non aveva visto neppure tre denari!

Ora don Blasco, il quale s’era già messo contro al marchese pel matrimonio con Chiara, e contro Chiara per la repentina conversione dall’odio all’amore verso il marito, aveva fatto un torto estremo ad entrambi della finzione a cui s’eran prestati per obbedire a quella pazza da legare della cognata. Un altro torto più grosso, forse imperdonabile, essi avevano commesso non facendo valere i loro diritti all’eredità paterna. Infatti, secondo il Benedettino, la casa Uzeda non era interamente distrutta quando c’era entrata donna Teresa; e ad ogni modo, siccome le rendite delle proprietà erano state riscosse anche nei tempi peggiori, bisognava che la principessa le conteggiasse, potendo dare a bere solo ai gonzi che esse fossero servite alle spese del mantenimento quotidiano. Avevano aiutato, invece, a pagare i debiti e a salvar le proprietà; erano quindi confuse nel patrimonio ricostruito e andavano ascritte all’attivo del principe Consalvo vii. Costui, da quell’imbecille che era sempre stato, aveva potuto coronare la sua corta e stupida vita con quel pulcinellesco testamento, impostogli e dettatogli dalla moglie, col quale dichiarando distrutto il suo patrimonio per disgrazie di famiglia, «la grazia delle disgrazie!», lasciava ai figli, «cose, cose da far recere i cani!…», l’affetto della madre; i figli, però, se non erano più imbecilli del padre, dovevano chiedere i conti, fino all’ultimo tornese. Il monaco era per questo andato assiduamente dietro ai nipoti, fuorché a Raimondo, al quale non rivolgeva la parola da anni ed anni per la ragione che era stato il beniamino della madre, incitandoli a farsi valere; ma nessuno, vivendo la principessa, aveva osato fiatare; ed egli li aveva a malincorpo scusati, attesa la soggezione a cui erano stati avvezzi da colei; ma quel marchese che le era soltanto genero, che non doveva quindi temerla, che era stato giuntato una prima volta nell’affare dei capitoli, fu per don Blasco l’ultimo dei minchioni non risolvendosi a parlar forte; e perché poi? di grazia, perché? Perché dichiarava d’aver sposato Chiara pel bene che le voleva, non per i quattrini che potevano venirgli!… La collera del monaco fu tale da procurargli uno stravaso di bile; ma, col tempo, egli s’era acchetato, aspettando la morte della cognata per riscendere in campo. Crepata costei, finalmente, e aperto quel bestiale testamento, il furioso Cassinese dimenticava adesso le bestialità di Federico e di Chiara per dar loro un nuovo assalto, per deciderli a muoversi. La morta, invece di dichiarare «onestamente» quant’era la parte del marito e dividerla «equamente» a tutti i figli, disponeva invece dell’intero patrimonio come di cosa propria! Non contenta di ciò, defraudava i legittimari fingendo di assegnar loro una quota superiore alla legale, dando loro in realtà «quattro grani»! Chiara, specialmente, era spogliata «come in un bosco», giacché il testamento non diceva parola del legato del canonico Risà. Questo era un altro pasticcio combinato tempo addietro da donna Teresa. Tra gli altri argomenti per vincere la resistenza di Chiara e indurla al matrimonio col marchese, ella aveva ricorso a quello dei quattrini e, per non sciogliere i cordoni della propria borsa, tirato in ballo un suo zio, il canonico Risà di Caltagirone, il quale prometteva un legato di cinquemila onze a favore della pronipote se la ragazza avesse sposato il marchese di Villardita. Nell’atto era intervenuta donna Teresa per garantire l’assegno, a condizione che la somma si trovasse realmente nel patrimonio del canonico, il quale prometteva di lasciare ogni cosa a lei. Invece, due anni avanti il canonico era morto, dividendo la roba tra una sua perpetua e la principessa, e costei s’era allora rifiutata di riconoscere il patto stabilito: né il marchese, per rispetto, per disinteresse, aveva pensato di chiederne l’esecuzione. Don Blasco, adesso, poiché neppure nel testamento la cognata s’era rammentata di quel suo obbligo, poiché ella aveva combinato «con arte infernale» anche l’altra gherminella delle quattromila onze che Chiara non aveva ricevute e che doveva intanto conferire come se le avesse prese, andava tutti i giorni dal marchese per istigarlo contro la morta e gli eredi, incitandolo a reclamare: 1. la divisione legale; 2. l’assegno matrimoniale con tutti gli interessi arretrati; 3. la parte che veniva a Chiara dal padre; 4. il legato del canonico; dimostrandogli in quattro e quattr’otto che non le diecimila onze assegnate nel testamento, ma tre volte tante gliene venivano per lo meno. Il marchese, pure ascoltandolo, chinando il capo a tutto quel che diceva il monaco, perché con quel Benedettino benedetto la discussione era impossibile, esprimeva alla moglie il desiderio di non dar l’esempio di una lite in famiglia, d’aspettare quel che avrebbero fatto gli altri; e Chiara consentiva in queste come in tutte le altre opinioni del marito; in cuor suo dava però ragione allo zio, voleva che le attribuissero ciò che le toccava, perché, gareggiando d’affetto con Federico, le doleva che egli dovesse sostener da solo il peso della casa; ma il marchese, da canto suo, protestava: «Io t’ho presa per te e non per i tuoi denari! Anche se tu non avessi nulla, non m’importerebbe… Del resto, non vuol dire che rinunzieremo ai nostri diritti. Lasciamo prima fare a Lucrezia e a Ferdinando; io non voglio essere il primo a intentare una causa alla tua famiglia…»

 

Quel disinteresse, quel rispetto da lui dimostrato verso casa Uzeda, accrescevano la devozione e l’ammirazione di Chiara, la facevano uniformare ai suoi desideri con tanto maggior zelo, quanto che, giusto in quei giorni, votatasi per consiglio della Badessa di San Placido al miracoloso San Francesco di Paola, ella aveva di nuovo la speranza d’essere incinta. Così, per difendere il marito da quella mosca cavallina di don Blasco, teneva fronte lei stessa allo zio, gli diceva:

«Sì, va bene; Vostra Eccellenza ha ragione, parla per amor nostro; ma il rispetto alla volontà di nostra madre…»

«Tua madre era una bestia,» gridava il monaco, «più di te!… Qual è stata la volontà di tua madre? Quella di rovinarvi tutti per amore di Raimondo e per odio di Giacomo! Pazza tu e lei! Manata di pazzi tutti quanti!…» E montando più in bestia per le moine che marito e moglie si facevano tutto il giorno, specialmente all’ora del desinare, quando si servivano reciprocamente come in piena luna di miele e s’imbeccavano al pari di due colombi, il monaco scoppiava: «Io non so veramente chi è più bestia, fra voi due!..»

Tanto che una volta Chiara, presolo a parte, protestò:

«Vostra Eccellenza mi dica quel che le piace, ma non tocchi Federico. Non tollero che se ne parli male»

«Che tolleri e talleri mi vai contando?» proruppe il monaco di rimando. «O credi che la gente abbia dimenticato che prima non lo volevi neanche per cacio bacato e minacciavi piuttosto di lasciarti morire che sposar quel cocomero?…»

Così la nipote voltò le spalle allo zio; questi mandò a farsi friggere la nipote e non mise più piede in casa di lei, dandosi ad altissima voce del triplice minchione per lo stupido interesse portato verso quel paio di animali. Ma erano giuramenti da marinaio; egli non poteva rassegnarsi a star zitto, gli coceva troppo che la volontà della morta si compisse: e allora, aspettando un’occasione per tornare alla carica contro quelle bestie, cominciò a prendersela con Ferdinando.

A qualunque ora andasse a cercarlo, lassù, alla Pietra dell’Ovo, lo trovava, sempre solo, con la pialla o con la sega o con la zappa in mano, intento a lavorar da stipettaio o da giardiniere, in maniche di camicia, come un operaio o un contadino. Da bambino era stato così, Ferdinando: taciturno, timido, mezzo selvaggio per la mala grazia con cui lo aveva trattato sua madre, costretto a svagarsi da solo, come meglio poteva, poiché non gli toccava il regalo del più povero balocco. Era cresciuto quasi da sé, ingegnandosi a procacciarsi quel che gli bisognava, a cavarsi d’impiccio. Quando gli altri andavano a spasso, egli restava in casa, a sfasciar scatole di legno o di cartone per farne teatrini o altarini o casucce che regalava poi a chi glieli chiedeva, a Lucrezia specialmente, per la quale, come per una compagna di destino, sentiva molta affezione; e se talvolta lo cercavano perché c’eran visite, perché qualche parente voleva vederlo, egli scappava, si rintanava in certi pertugi dove nessuno riusciva a trovarlo, o si rifugiava nella bottega dell’orologiaio, suo grande amico, dal quale facevasi insegnar l’arte. Un giorno, per San Ferdinando, don Cono Canalà gli regalò il Robinson Crusoe; egli lo divorò da cima a fondo e restò sbalordito dalla lettura come da una rivelazione. Da quel momento la sua selvatichezza s’accrebbe; il suo unico e costante desiderio fu quello di naufragare in un’isola deserta e di provveder da sé al proprio sostentamento. Cominciò allora a fare esperimenti di coltura nel giardino e nella terrazza del palazzo, e gli venne il gusto della campagna, che la principessa assecondò. Gli aveva messo il soprannome di Babbeo per quelle sue sciocche manìe; ma comprendendo che favorivano i propri piani gli abbandonò, alla Pietra dell’Ovo, prima la brulla chiusa delle ginestre e dei fichi d’India, poi col tempo, maturando il suo piano della generale spogliazione a favore del primogenito e di Raimondo, tutto il podere, stipulando però un contratto in piena regola, col quale il figliuolo obbligavasi di pagarle cinquecent’onze l’anno sui frutti del fondo, restando a lui tutto il di più. Il contratto per donna Teresa fu un affare: innanzi tutto ella risparmiò le trentasei onze annue del fattore, giacché Ferdinando andò subito subito a stabilirsi lì per coltivare da sé l’isola che aveva acquistata; e poi assicurossi una rendita che il podere non dava. Il Babbeo faceva assegnamento sulle bonifiche per pagare le cinquecent’onze alla madre e restar padrone dell’avanzo; infatti, appena entrato in possesso, cominciò a dissodare, a scavar pozzi, a strappar mandorli per piantar limoni, a sbarbicar la vigna per ripiantarci i mandorli, a sbizzarrirsi in una parola come aveva sognato. Il suo piacere, veramente, sarebbe stato più grande se avesse potuto far tutto da solo; ma costretto a chiamar zappatori e giardinieri, egli stesso lavorava con loro, a strappar erbacce, a portar via corbelli di sassi, a rimondar alberi, facendo anche da falegname, da muratore e da decoratore, perché una delle sue prime occupazioni era stata quella d’ingrandire ed abbellire la vecchia casa del fattore. Egli era felice facendo la vita dell’eroe che gli aveva acceso la fantasia, come se veramente fosse in un’isola deserta, a mille miglia dal mondo. Dormiva sopra una specie di cuccetta da marinaio, costruiva da sé tavole e seggiole, e la casa pareva un arsenale dalla tanta roba che v’era sparsa; seghe, pialle, trapani, pulegge, zappe, picconi; e poi un assortimento di assi e di travi, e sacchi di farina per fare il pane, provviste di polvere, una scansìa di libri, tutta la roba che un naufrago può salvare dalla nave prima che questa si sfasci.

Fin dal primo anno, però, egli non aveva potuto pagare interamente la rendita promessa alla madre; restò a dargliene una buona metà che la principessa notò regolarmente a suo debito. Poi, a furia di mutar colture, di porre in atto le novità di cui udiva parlare o che leggeva nei trattati d’agricoltura o che speculava da sé, il frutto del podere gli si venne sempre più assottigliando tra mano. Colpa dei mercenari, diceva, che non eseguivano bene i suoi ordini, o dello scombussolamento delle stagioni; ma la madre lo canzonava, a posta, per incaponirlo in quella sua manìa, e vi riesciva a meraviglia. E il frutto delle Ghiande scemava sempre più, non arrivava neppure alle cent’onze, nonostante che ad esclusione degli strumenti e di qualche libro egli non spendesse nulla per sé e mangiasse frugalmente i prodotti dell’orto e della caccia e le rare volte che compariva al palazzo scandalizzasse perfino i servi, tanto era stracciato e unto e goffo nei panni vecchi di anni ed anni. Ma la principessa, deridendolo, lo lasciava fare, e segnava una dopo l’altra nel libro dell’avere tutte le somme che ogni anno egli le dava in meno. Esse formavano già un discreto capitale che il Babbeo non sapeva dove prendere; il suo continuo timore era perciò che la madre, stanca di non vedersi pagata, gli togliesse di mano il podere; e infatti la principessa più d’una volta lo aveva minacciato di questo. Il colpo maestro di costei, nel testamento, fu dunque l’assegnazione delle Ghiande a Ferdinando. Per lui quella proprietà valeva più d’un feudo; a scambiarla per tutta l’eredità dei fratelli maggiori temeva di rimetterci. Come se non bastasse, c’era anche il condono degli arretrati che sommavano ormai a mille e cinquecento onze; talché, al colmo della soddisfazione, egli si credette trattato benissimo, oltre ogni speranza, e a don Blasco, il quale gli si metteva alle costole per indurlo a ribellarsi:

«Come?» diceva, candidamente, lasciando di piallare o di rimondare. «Non è abbastanza quello che ho avuto?»

«Ma ti tocca il triplo, per lo meno! Sei stato truffato con tutti gli altri! Ti tocca, in rate eguali con tutti gli altri, la parte di tuo padre, che è il momento di rivendicare! E non sai che Giacomo non ti mandò neppure a chiamare, il giorno della morte di tua madre?»

«Non è possibile!» rispondeva Ferdinando, scandalizzato. «E perché, poi?»

«Per far sparire carte e valori! Scappò lassù, si mise a rovistolare tutta la villa: le cose si risanno! E poi ha fatto la commedia dei suggelli. Te ne accorgerai all’atto dell’inventario, anima vergine!»

Il monaco smaniava dall’impazienza per quest’inventario; ma il principe invece pareva non avere fretta di conoscere quel che c’era in casa, non parlava d’affari a nessuno dei fratelli e delle sorelle, neppure al coerede Raimondo, il quale da parte sua pensava a tutto, fuorché a chiedergliene conto. Nonostante il lutto, stava sempre fuori casa, al Casino dei Nobili, a ragionar di Firenze coi vecchi amici, a far la sua partita o a giudicare gli equipaggi che sfilavano nell’ora del passeggio. E don Blasco intronava le orecchie di Ferdinando di invettive contro il fratello. Era «uno scandalo, una mancanza di rispetto alla morta calda ancora», la condotta di quello scapestrato che badava unicamente a spassarsi, che non era venuto a «chiuder gli occhi alla madre», neppure per amor dei quattrini che ella gli voleva dare brevi manu, «rubandoli agli altri!…» Ora il giorno che, cominciato finalmente l’inventario, risultò che in cassa c’erano soltanto cinque onze e due tarì di contanti, e un titolo di rendita di cento ducati, il monaco corse alle Ghiande come impazzito.

 

«Hai visto? Hai visto? Hai visto?… Che ti dicevo? Cinque onze! Tua madre non ne teneva mai meno di mille! E la rendita, la rendita! Fino a cinquemila ducati li sapevo io!… Capisci adesso! Hai visto come v’ha rubati il suo caro fratello? Quel ladro del signor Marco gli ha tenuto il sacco! Rubati! Rubati! Se non gridate, se non vi fate sentire, siete degni che vi sputino in viso.»

Non la finiva più, dimostrando al nipote, intontito dalle grida, la nuova magagna. Perché mai, dunque, Giacomo lasciava al suo posto il signor Marco, mentre aveva già cacciato via tutti i servi protetti dalla madre, il cocchiere maggiore, il cuoco, tutti coloro ai quali ella aveva lasciato qualcosa? Quel «porco» del signor Marco, l’«anima dannata» della defunta, avrebbe dovuto esser preso «a calci nel preterito» appena la sua protettrice aveva chiuso gli occhi; invece perché mai, dopo due mesi, era ancora in servizio? Appunto perché, appena morta la padrona antica, s’era buttato «vigliaccamente» ai piedi del padrone nuovo, gli aveva consegnato ogni cosa, gli aveva lasciato «rubare» i valori che andavano «a tutti» o per lo meno «al coerede!…»

E quella bestia di Ferdinando che faceva l’ingenuo, che non voleva credere a tante porcherie e si dichiarava grato alla madre pel condono delle mille e cinquecent’onze! Quasi che quello strozzato contratto tra madre e figlio non fosse stato immorale, quasi che la principessa non avesse a bella posta stabilito un canone superiore al frutto del podere per meglio impaniar quell’allocco!… Tuttavia, a furia di predicargli che gli toccava di più, che avrebbe potuto essere ricco più del doppio, più del triplo, il monaco sarebbe forse riuscito a scuotere il nipote se, come parlando male del marito a Chiara, non avesse commesso anche con Ferdinando una grave imprudenza. Rifiutando il testamento, chiedendo la divisione legale, Ferdinando temeva che le Ghiande andassero in mano ad altri, o che, per lo meno, egli dovesse spartirle coi fratelli; don Blasco, che gli dimostrava la possibilità di tenerle tutte per sé, un giorno gli cantò:

«E finalmente se perderai questo fondo, ne acquisterai in cambio un altro che varrà centomila volte più!…»

«Eccellenza no,» rispose Ferdinando; «come questo non ce n’è altri in casa nostra…»

«Le Ghiande?» scoppiò allora il monaco. «Una terra che si chiamava le Ghiande? Buona veramente a buttarci una mandra di maiali? E che ci vengono, fuorché le ghiande? Ora specialmente che hai finito di rovinarla con le tue speculazioni pazzesche?»

Ferdinando, a sentirsi così buttar giù la terra e l’opera propria, ammutolì e arrossì come un pomodoro; poi, ricuperata la voce, dichiarò:

«Eccellenza, sa come dice il proverbio? Ne sa più un pazzo in casa propria che un savio nell’altrui!»

Allora il monaco, eruttata una buona quantità di male parole contro quel malcreato, non rifece più la via del suo «porcile» e si ridusse a porre l’assedio intorno a Lucrezia. L’aveva serbata per l’ultima, poiché, se nutriva un’antipatia istintiva contro tutti i nipoti, era specialmente furioso contro questa qui.

Come Chiara e Ferdinando, Lucrezia non ricordava una carezza della madre; ma dove Chiara aveva avuto da principio agli occhi del monaco il merito relativo della resistenza opposta alla principessa nell’affare del matrimonio, e Ferdinando quello d’essere andato via di casa, la nipote più piccola non aveva altro che torti, uno più capitale dell’altro. Sotto la sferza di donna Teresa, trattata con particolare durezza per esser nata quando costei non aspettava più altri figli, considerata come un’intrusa venuta a rubare parte della roba già destinata ai due maschi, Lucrezia era cresciuta come «una marmotta», diceva il Benedettino: tarda, taciturna, selvatica come Ferdinando, e sempre così distratta che le sue risposte erano oggetto di risa per tutti fuorché per lo zio Blasco che se la mangiava viva.

Asservendo e maltrattando la figlia, la principessa non dimenticava tuttavia lo scopo principale da raggiungere: cioè di lasciarla zitellona in casa. Perciò ella dimostrava assiduamente, quotidianamente a Lucrezia che il matrimonio non era fatto per lei; prima di tutto per la cattiva salute – e invece la ragazza stava benissimo; poi perché così voleva il bene della casa – e le additava l’esempio di donna Ferdinanda; poi perché, senza quattrini, non avrebbe potuto mai trovare un partito conveniente – e l’eccezione del marchese Federico confermava la regola; e finalmente perché, quasi tutto questo non bastasse, era anche brutta – e qui diceva la verità. Quando la vedeva allo specchio, o le rare volte che la ragazza assisteva alle visite che venivano per la madre, costei esclamava: «Ma come sei brutta, figlia mia!… Che disgrazia avere una figlia così brutta, è vero?» L’argomento più persuasivo era nondimeno quello della povertà: la roba apparteneva «ai maschi»; quando i fattori le portavano sacchi di quattrini, ella diceva a Lucrezia: «Vedi questi? Sono tutti dei maschi…» e se la ragazza alzava gli occhi alle mappe dei feudi appese nelle anticamere, la madre ripeteva: «Che guardi? Sono le proprietà dei maschi!» Quando il discorso, presente la figlia, cadeva sui matrimoni, donna Teresa ammoniva: «Di che parlate dinanzi alle ragazze?» e a quattr’occhi le diceva che pensare al matrimonio era peccato mortale, da confessarsene: e il confessore, Padre Camillo, confermava in queste idee Lucrezia; poi la principessa ricominciava, fino alla sazietà: «Tu del resto non hai niente, devi restare in casa per forza: chi ti vorrà sposare senza denari?» Quanto a Chiara, era stata un’altra cosa: si era trovato uno che la prendeva con la sola camicia, perché la sapeva savia, timorata di Dio, obbediente alla madre. E addolcendo la pillola, la principessa si lasciava scappare di tanto in tanto: «Se anche tu sarai come tua sorella, poi ti compenserò altrimenti.»

Così era cresciuta Lucrezia: costantemente mortificata e umiliata, segregata dal mondo più che nella badìa, invisa ai fratelli maggiori ed agli stessi zii, tiranneggiata un poco anche da Chiara che per avere cinque anni più di lei faceva la grande; unicamente voluta bene e protetta da Ferdinando, col carattere del quale s’accordava molto il suo. Il Babbeo aveva già da badare a se stesso, non godendo troppe grazie in famiglia; ma dimostrava come poteva a Lucrezia il bene che le voleva. Maggiore appena d’un anno, egli giocò con lei, le diede i balocchi da lui stesso costruiti; più tardi, quando egli ebbe qualche nozione di lettere, quando apprese da sé a disegnare, a far minuti lavorucci, comunicò la sua scienza alla sorella per la quale non si faceva la spesa d’un maestro. Del resto la compagnia e la protezione di Ferdinando non fu la sola di cui godé Lucrezia: ella ebbe anche quella di donna Vanna, una delle cameriere; e la principessa, sempre all’erta, non vide il pericolo che correva da questa parte.