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I Vicere

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«Allora perché non chiami un medico?»

«Un medico? Che possono fare i medici? Al punto in cui sono ridotto?»

E non ci fu verso di persuaderlo. Allora entrò in scena donna Isabella. Invece di contrariare il maniaco, prese a secondarlo: riconobbe l’esistenza e la gravità delle sue malattie, l’inutilità delle prescrizioni mediche; però, se i dottori ci perdevano il latino, non poteva provare almeno qualcuno di quei rimedi empirici che certe volte fanno miracoli’

«Quand’ero ragazza anch’io ebbi un catarro intestinale lungo e ostinato più del vostro. Sapete come andò via? Con l’insalata di lattughe!»

E gliene fece preparare un piatto, come contorno d’una gran fetta d’arrosto sanguinolento. Ferdinando si mise a mangiare come Cristo all’ultima cena: non aveva fiducia nel risultato, era sicuro che quella roba avrebbe affrettato la sua fine.

«Adesso bisogna farci sopra una bella passeggiata!» e offertogli il braccio, come ad un povero convalescente, lo condusse a spasso pel giardino.

Non parve vero al malato, il domani, di svegliarsi vivo e con un certo appetito. L’insalata e l’arrosto, in poco tempo, fecero miracoli; ma restava da guarire il prurito al quale egli dava il nome di erpete.

«Per questo il rimedio è ancora più semplice: fate un bel bagno d’acqua dolce.»

Da mesi e mesi, egli non si lavava altro che la punta del naso e delle dita, due o tre volte la settimana, per paura di prendere una polmonite; così l’erpete andò via. Il latte, le uova, il moto, la nettezza lo ritornarono in vita, e dalla gratitudine verso donna Isabella gli spuntavano i lucciconi:

«Che donna! Che testa! Che intelligenza!»

Aveva ben poche amicizie, ma tutte le volte che si trovava con qualcuno cominciava a parlar di lei con tanta ammirazione, come fosse la donna più saggia e virtuosa, un angelo sceso dal cielo. Presa l’abitudine di muoversi, se ne andava dalla sorella Lucrezia, cercava la gente apposta per parlare di lei.

«Quanto bene vuole a Raimondo! Che cura ha della casa! Quel che ha fatto per me non si può ridire! Se non era lei, a quest’ora sarei morto e sepolto!»

Un giorno arrivò da Lucrezia mentre moglie e marito discutevano vivamente: al suo apparire essi tacquero.

«Di che parlavate?»

«Si parlava della situazione di Raimondo,» rispose sua sorella, decidendosi di metterlo a parte del secreto. «Non può durare a lungo così. Bisogna pensare a legittimarla, sciogliendo i matrimoni.»

Ella annunziava quel partito con la stessa semplicità con cui Raimondo e donna Ferdinanda lo avevano partecipato a lei. Chiedere ed ottenere il doppio annullamento di matrimonio era, per gli Uzeda, una cosa semplicissima: chi poteva negare ai Viceré ciò che essi volevano? La loro volontà non doveva esser legge per tutti? Non possedevano essi tutti i mezzi materiali e morali per vincere gli ostacoli e le resistenze? Avevano clientele dappertutto, tra i borbonici e i liberali, in sacrestia e in tribunale: i nobili erano con loro per solidarietà, gli ignobili per rispetto: ognuno doveva essere superbo e lieto di render loro servizio. Bisognava, per riuscire in questa impresa, esser bene indirizzati; perciò volevano l’opera di Benedetto. Come la prima volta che gliene avevano parlato, Benedetto titubava, arrestato dagli scrupoli, con la coscienza del male che gli facevano commettere, delle difficoltà enormi dell’impresa, del dispiacere che avrebbe fatto allo zio duca, tanto amico di Palmi; ma sua moglie insisteva a dimostrargli che gli scrupoli erano sciocchi, che anzi l’opera sarebbe stata meritoria.

«Se domani nasce un figlio? Sarà condannato a restare bastardo? Raimondo non riprende più sua moglie, certo com’è certa la morte. Allora? Meglio mettersi in regola con la legge e la società! Non dico bene?»

E Ferdinando, rivolto al cognato:

«Ne dubiti forse?… Ma come ragioni?… Dov’hai la testa?»

Benedetto tentava dimostrare che non ragionavano loro invece; che i figli già nati c’erano e che bisognava pensare a questi prima che ai nascituri, ma Lucrezia e Ferdinando gli davano sulla voce, tutt’e due insieme:

«C’è la famiglia della madre che pensa alle figlie! Nostro fratello le rinnegherà per questo?… E gl’interessi saranno regolati come vogliono i Palmi… Se i matrimoni sono sciolti di fatto, perché non scioglierli di diritto? Chi ci guadagna? La gente che ci fa sopra i suoi commenti!»

E questo era il pungolo di Raimondo. Quanto maggiori difficoltà aveva incontrato nella via per la quale s’era messo, tanto più s’era incaponito a persistervi: l’opposizione del fratello, le mormorazioni degli estranei, il biasimo quasi universale lo spingevano a vincer la partita in un modo imprevisto da tutti e da lui stesso. Egli non pensava più che la sua passione era stata quella della libertà, che donna Isabella, come moglie, gli sarebbe pesata più della moglie, e che gli pesava già come amante; impuntato, accecato dall’opposizione, dalla disapprovazione, dal biasimo, voleva trionfare degli avversari, sbaragliarli con un colpo di cui si sarebbe parlato un pezzo… Dicevano che l’impresa era disperata, che il doppio scioglimento non si sarebbe mai ottenuto, che donna Isabella era condannata a restare in una falsa posizione, bandita dalla società, dalla stessa casa del principe? Egli metteva i piedi al muro, deciso a spuntarla a qualunque costo, contro tutto e tutti. E Lucrezia, Ferdinando, donna Ferdinanda, don Blasco lo aiutavano ciascuno per conto e a modo proprio, congiuravano per vincere le ultime resistenze di Benedetto, che all’idea di contentare sua moglie, di cattivarsi la fiducia, la stima e la gratitudine dei parenti sentiva ammorzarsi a poco a poco i rimorsi.

Al principio dell’inverno, quando il principe tornò dalla villeggiatura, non si parlò d’altro che della rottura tra i due fratelli. Giacomo non solamente non salutò Raimondo, incontrandolo per via, ma non tollerò neppure che toccassero in sua presenza il tasto dei pasticci di lui. Per tanto tempo, mentre il fratello minore era stato in Toscana, o era andato e tornato di qua e di là, col capo all’amica, l’eredità era rimasta indivisa, e il principe l’aveva amministrata anche nell’interesse e per procura del coerede; adesso, per troncare ogni rapporto con lui, gli mandava il signor Marco a notificargli che rinunziava la procura e voleva subito dargli i conti e venire alla divisione. Quella trombetta della cugina Graziella annunziava a tutti queste cose, e dovunque si trovasse, tra parenti od amici o semplici conoscenze, approvava il cugino Giacomo, esprimeva il grande dispiacere che «a noi della famiglia» cagionava l’ostinazione di Raimondo. Come mai poteva egli del resto sperare di ottener l’intento? Dicevano che donna Isabella chiedesse lo scioglimento del matrimonio perché non era stato consumato! Ma a chi volevano darla a bere? Perché non c’erano figli? Non sapevano tutti che Fersa, giovanotto, avea corso la cavallina?… O forse speravano di poter sostenere, come dicevano certi altri, che donna Isabella era stata forzata a sposar Fersa, senza volerlo? Questa doveva essere fatica particolare del Giulente! «Guardate un po’ che immoralità! sostenere una causa condannata da tutti, che fa tanto dispiacere alla famiglia! È venuto a ficcarsi tra noi per metter guerre e liti, questo avvocato delle cause perse!…» Ma ella prevedeva un fiasco colossale. Già, cominciamo che il tribunale civile non era buono ad annullare un matrimonio contratto sotto il codice napolitano del 1819; bisognava rivolgersi alla Corte vescovile; ma qui cascava l’asino, perché Monsignor Vescovo, e il Vicario Coco e il canonico Russo e tutti i maggiorenti della Curia erano col principe contro il conte, giustamente, sapendo i torti di Raimondo e della Fersa, non potendo metter mano a sanzionare uno scandalo di quella fatta!…

D’altra parte i fautori del conte e di donna Isabella davano sicura la riuscita. L’impotenza di Fersa, la violenza patita da sua moglie erano affermate da una quantità di persone; ma specialmente Pasqualino sonava la campana per conto del suo padrone. Sissignori: il cavaliere Giulente, e non avvocato, studiava e dirigeva la causa del cognato, piuttosto che lasciarla in mano di qualche strascinafaccende di quelli da quattro il mazzo; ma del resto egli non aveva molto da faticare, perché il motivo della nullità del matrimonio di donna Isabella era chiaro e lampante. Lasciamo stare che Fersa non era precisamente un vulcano, come uomo; ma lo zio di lei l’avea costretta a prenderselo mettendole il coltello alla gola: altro che la storia della signorina Chiara! Almeno la principessa, sant’anima, avea cercato di prendere sua figlia con le buone, ricorrendo alle minacce soltanto all’ultimo, dopo due anni di persuasioni e di preghiere; ma lo zio di donna Isabella? Bastonate mattina e sera, fin dal primo momento che la ragazza aveva detto: «Meglio morta che sposar Fersa!» Come Pasqualino, tutta la servitù, la minuta clientela della famiglia era, nonostante l’opposizione del principe, favorevole al contino; questi, per accaparrarsi simpatie, non faceva più venire, come un tempo, le sue robe da Firenze o da Napoli, ma dava ogni genere di commissioni in città, e il sarto, il calzolaio, il cravattaio, onorati dai comandi del contino Uzeda, lo portavano al cielo, peroravano in favor suo, tenevano fronte agli scandalizzati. V’era gente che rammentava l’amore di donna Isabella per Fersa? Rispondevano adducendo infinite testimonianze contrarie: da Palermo sarebbero venuti tutti i servi di casa Pinto, pronti a giurar sul Vangelo che l’orfanella era stata picchiata di santa ragione dallo zio tutore, perché costui, senza badare che Fersa, se aveva quattrini, non nasceva bene, voleva darglielo per forza. Dicevano che queste testimonianze erano sospette, ottenute per via di quattrini? Enumeravano gli amici palermitani di casa Pinto, don Michele Broggi, il cavaliere Cutica, il notaio Rosa, tutti superiori al sospetto di corruzione, citati da donna Isabella perché attestassero le sevizie usatele, i rifiuti costanti da lei opposti. Che più? Lo stesso zio sarebbe venuto a confermare la violenza esercitata!… «E poi?» esclamava da suo canto la cugina. «Dopo che avranno sciolto questo matrimonio? Credono di poter riuscire a sciogliere quell’altro? Non sanno che cosa ha detto Palmi?» E narrava che quell’attaccabrighe di Giulente gli aveva scritto per ottenere che anche lui, il barone, consentisse allo scioglimento del matrimonio di sua figlia, testimoniando d’averla forzata a prendersi il conte Uzeda. Per amore della verità, spiegava che Giulente s’era dapprima rifiutato, parendogli una cosa proprio enorme, proponendo, se mai, di affidare questa missione al duca che era intimo del senatore. Ma sì, il duca aveva altro pel capo! Se ne stava a Torino, badando ai suoi affari, non voleva tornare in Sicilia per paura che la sua lontananza durante i turbamenti dell’anno precedente gli avesse fatto torto; e quando gli scrivevano dell’affare di Raimondo rispondeva che per nulla al mondo voleva mescolarvisi. Giulente, dunque, per contentar la moglie, il cognato e gli zii, aveva dovuto rassegnarsi a rivolgersi lui al barone. «Sapete quanto tempo ha impiegato a scrivere la lettera?» aggiungeva la cugina, informata di tutti i più piccoli particolari. «Una settimana! Ha stracciato una risma di carta! Sfido io! Come dire a un cristiano: consentite che il matrimonio di vostra figlia si sciolga, che le vostre nipoti restino senza padre!…» Ma la lettera, piena d’espressioni riguardose, di complimenti, di scuse, era partita: e Giulente aspettava ancora la risposta!… L’avrebbe aspettata un pezzo! Ché per mezzo di certe persone di Messina, la cugina sapeva quel che aveva detto il barone a un amico, stringendo il pugno: «Voglio piuttosto veder morire tutti quanti!…» Perché infatti la «povera Matilde», moribonda dai tanti dispiaceri, indifferente a tutto oramai, comprendendo che non c’era più alcun riparo, avrebbe anche contentato l’ultima pretesa del marito! il barone, invece, faceva certi giuramenti tremendi per dire che mai, mai, lui vivente, suo genero sarebbe riuscito a rompere il matrimonio: sapeva bene che era spezzato di fatto, ma voleva che Raimondo restasse incatenato per tutta la vita, che la Fersa non potesse prendere, dinanzi al mondo, il posto della propria figliuola…

 

Anche Pasqualino sapeva tutto questo; ma al cocchiere di donna Graziella, che, tenendo per la padrona, gli prediceva il fiasco del conte: «Un po’ per volta!» rispondeva. «Lasciate che si finisca la prima causa!… Quando la padrona sarà libera, penseremo a liberare anche il padrone!… Adesso non hanno a decidere i canonici, ma i giudici civili. Con la legge di Vittorio Emanuele, il matrimonio dinanzi alla Chiesa vale un fondello, e solo ha peso quello dinanzi al sindaco: abbasso Francesco ii! Viva la libertà!…» Ma donna Ferdinanda, Lucrezia, tutti i sostenitori di Raimondo non si contentavano di una sentenza civile; volevano legittimare la situazione di Raimondo e di donna Isabella dinanzi agli uomini e a Dio. Pertanto Ferdinando, il quale era intimo del canonico Ravesa, pezzo grosso della Curia e proprietario d’una vigna attigua alle Ghiande, gli parlava tutti i giorni a favore del fratello, e don Blasco andava tutti i giorni dal Vicario Coco, intronandolo con le clamorose dimostrazioni della convenienza, della giustizia, della necessità di quell’annullamento di matrimoni: della stramberia, della prepotenza, della birbonaggine del principe che lo contrastava. Il pezzo più grosso da guadagnare era però Monsignor Vescovo; il quale adesso non faceva nulla senza l’approvazione del Priore don Lodovico. Questi, persuaso che l’abolizione delle comunità religiose era quistione di tempo, disinteressatosi di San Nicola, s’era rivolto al Vescovato dove la sua nascita, la sua reputazione d’intelligenza, di dottrina e di santità gli avevano spalancato le porte. In poco tempo, com’era già stato il braccio destro dell’Abate, era diventato il braccio destro del capo della diocesi: la prudenza dei suoi consigli, l’eccellenza della sua posizione, a cavaliere di tutti i partiti, lo avevano reso indispensabile in molte circostanze delicate, quando bisognava conciliarsi le nuove autorità politiche senza tradire le «legittime», salvar capra e cavoli, servir Cristo e Mammone. Ora, se egli avesse detto una parola a favore di Raimondo, il matrimonio di donna Isabella sarebbe stato annullato; ma a donna Ferdinanda, che gli si metteva alle costole per guadagnarlo alla causa della sua protetta, il Priore rispondeva ambiguamente, adducendo le difficoltà da superare, l’imbarazzo in cui lo mettevano.

«Sciogliere un matrimonio è una cosa grave… Vostra Eccellenza sa bene quanto la Chiesa sia giustamente contraria a pronunziare sentenze di questo genere, come vada coi calzari di piombo. Essa non può contentarsi di certe prove e di certe ragioni… Queste potevano forse bastare ai giudici secolari, la cui responsabilità non è impegnata dinanzi alla Maestà Divina. Mi duole moltissimo, in coscienza, di vedere Raimondo messo per una via falsa… Dopo questa causa ne verrà una seconda, lo scandalo è immenso… Io ho i miei doveri da compiere… La mia coscienza…»

«Coscienza?… Coscienza?…» Donna Ferdinanda, che stava a sentirlo a bocca chiusa e a denti stretti, una volta cantò: «Lasciala da parte la coscienza! Di’ piuttosto che non gli hai ancora perdonato d’aver preso il tuo posto e gliela vuoi far pagare, ora che l’hai nelle forbici!…»

Il Priore impallidì repentinamente, guardando un istante in viso la zia che lo guardava fisso anche lei, come se gli volesse leggere nell’anima. Poi chinò il capo e portò le braccia in croce sul petto:

«Vostra Eccellenza m’affligge crudelmente… Sa bene che le passioni del mondo sono straniere al mio cuore… che io amo mio fratello come rispetto Vostra Eccellenza!… Dica questo a Raimondo; mi fornisca l’occasione di darne la prova…»

Donna Ferdinanda andò pertanto da Raimondo per dirgli di recarsi personalmente dal fratello e di raccomandarglisi. Un momento, il giovane si ribellò. Era stanco di pregare e di umiliarsi, di far la corte a Ferdinando e a Giulente per guadagnarli alla sua causa, di imbeccare Pasqualino e gli altri portavoce. S’era già umiliato una volta dinanzi a Giacomo e non gli era valso nulla; s’era umiliato anche dinanzi a Lodovico, quando era andato a Nicolosi, e il fratello non s’era lasciato vedere. Adesso bisognava gettarsi ai piedi di cotesto Gesuita, chiedergli perdono del posto sottrattogli, implorarne col perdono la protezione e l’appoggio. Era troppo, non ne poteva più. Le mortificazioni dell’amor proprio gli cocevano più di tutte, gli facevano stringer le pugna e mordersi le dita e quasi spuntar le lacrime agli occhi… Ma giusto, finita la villeggiatura, tornati tutti in città, la parentela e la nobiltà si schieravan col principe contro di lui. La cugina Graziella andava dicendo dovunque che neppure la causa civile sarebbe andata avanti, che i giudici avrebbero essi fatto un processo per falsa testimonianza a chi avesse tentato di provare la mancanza del consenso; figuriamoci poi la causa ecclesiastica!

E una domenica donna Isabella, che era scesa in città per far certe compere, tornò alle Ghiande con gli occhi rossi.

«Che hai?» le domandò Raimondo, quasi bruscamente, quasi pronto a sfogare contro di lei, causa prima di tutto quello che gli accadeva.

«Nulla… Nulla…» e piangeva dirottamente.

Egli dovette alzar la voce per sapere il motivo di quel pianto. La sua amica aveva incontrato per via i Grazzeri e la cugina Graziella; la cugina s’era voltata dall’altra parte, Lucia e Agatina Grazzeri non avevano risposto al suo saluto, fingendo di non vederla… Il giorno dopo egli salì a San Nicola, cercando del Priore.

Lodovico lo ricevette a braccia aperte, lo ascoltò con attenzione benevola. Raimondo gli disse, un po’ pallido: «Ti prego d’aiutarmi…» Invocava il suo appoggio per uscire dalla falsa situazione in cui si trovava. Era urgente legittimarla per una potente e nuova ragione che nessuno ancora sapeva, che confidava a lui prima che ad ogni altro: donna Isabella era incinta… Con gli occhi quasi chiusi, il capo un poco piegato, le mani raccolte in grembo, il Priore pareva un confessore indulgente ed amico: non una contrazione del viso, non una dilatazione del petto svelava l’intima soddisfazione di vedersi finalmente dinanzi, sommesso e quasi supplice, il ladro che lo aveva spogliato, pel quale era stato bandito dalla famiglia e dal mondo.

«Tu puoi aiutarmi, mettere una buona parola…» continuava Raimondo, «far considerare che in fondo non si domanda se non giustizia… perché la volontà di Isabella fu violentata; trenta testimoni proveranno la verità…»

«Lo so! Lo so!…» rispose finalmente il Priore. «Io non t’avrei neppure ascoltato se non conoscessi che la religione sta dalla vostra parte!»

«Allora, posso fare assegnamento su te?»

«Certo, certo!… Ma c’è un’altra quistione… Nel caso presente, non si tratta tanto di giustizia astratta, quanto di prudenza mondana. Sicuramente, noi dobbiamo render conto solo a Dio delle nostre azioni, ma perché la nostra coscienza s’acquieti del tutto, non dobbiamo e non possiamo perder di mira l’effetto che i nostri giudizi sono capaci di produrre!… Ora, come vuoi che cotesto provvedimento sia stimato giusto, se nella nostra stessa famiglia, se il capo della nostra casa, non riconosce le tue ragioni e ti condanna con tanta severità?…»

«E se Giacomo si piega?» insisté Raimondo.

«Sarà un gran passo innanzi! Vedrai che l’opinione pubblica lo seguirà, che tutti quelli finora dichiaratisi tuoi avversari ti sosterranno concordi. Allora sarà molto più facile ottenere l’intento. Lo stesso Giacomo potrà giovarti presso i giudicanti molto meglio di me. Sai bene quali relazioni egli ha tra quanti circondano Monsignore… una sua parola varrà molto più della mia…»

E questa era la dimostrazione a cui voleva arrivare attraverso tante parole. L’affare di Raimondo, tutto quel pateracchio di matrimoni da sciogliere e da ristringere non gli piaceva: il biasimo sordo del gran pubblico gli era noto e lo metteva in guardia contro l’errore di sostenere una cattiva causa, il trionfo della quale, del resto, non gli avrebbe menomamente giovato…

Raimondo, tornando alle Ghiande, mandò a chiamare il signor Marco. Chiusi in camera tutt’e due, restarono pochi minuti a confabulare. L’amministratore tornò il domani e poi il giorno dopo, restando sempre più a lungo. Un pomeriggio Ferdinando era buttato sul letto a dormire, quando l’abbaiare dei cani lo destò di repente; il fattore già picchiava all’uscio.

«Eccellenza! Eccellenza!… C’è qui suo fratello… Il signor principe…»

Egli balzò in piedi, stropicciandosi gli occhi. Giacomo da lui? Adesso che c’era Raimondo? E se si fossero incontrati?…

«Vengo subito.. trattienilo tu… ma non dir nulla..»

«Come, Eccellenza?… Se i suoi fratelli stanno parlando insieme?… C’è anche la principessa…»

Sceso giù a precipizio per evitare qualche guaio, Ferdinando entrò nel salotto e trovò i fratelli e le cognate che chiacchieravano allegramente.

«Passavamo di qui,» gli disse il principe, «e abbiamo pensato di farvi una visita…»

Il domani, nella Sala Gialla, la cugina Graziella, venuta prima di colazione e trovata la principessa in compagnia di don Mariano, se la prendeva con più calore del solito contro Raimondo e l’amica sua; narrava i loro nuovi armeggi, le istanze fatte allo zio duca perché prestasse la sua autorità di deputato per ottenere lo scioglimento dei matrimoni, perché persuadesse il suo buon amico Palmi ad acconsentirvi. La principessa, sui carboni ardenti, si faceva di mille colori, alzava, abbassava e girava gli occhi, pareva invocare l’intervento di don Mariano, tossicchiando un poco voleva avvertire la cugina di non insistere; ma questa continuava con nuova lena:

«Almeno, avessero un po’ di pazienza! Si libereranno egualmente, perché la povera Matilde sta per morire… Pare che vogliano affrettare la sua fine!… Tutte queste notizie figuratevi che effetto le fanno!… Ma suo padre giura più terribilmente di prima che non acconsentirà mai a fare il comodo loro… Sua figlia lo scongiura di desistere perché anche a lui, quando arrivano di queste notizie, è come se gli pigliasse un colpo apoplettico… Veramente, è un po’ troppo!… Qui sotto c’è lo zampino della zia Ferdinanda!… Non credete giunto il punto di avvertirli che siano più prudenti?…»

La principessa non ebbe il tempo di rispondere, di nascondere il nuovo imbarazzo in cui quella domanda la gettava, quando Baldassarre, entrato senza far rumore, annunziò con la consueta sua bella serenità:

«Il signor conte e la signora contessa.»

La cugina restò di sale. Raimondo? La contessa? Quale contessa?… E donna Isabella apparve, andò incontro alla principessa che le veniva incontro, l’abbracciò e la baciò sulle due guance.

 

«Come stai, Margherita? Ero impaziente di restituirti la tua cara visita di ieri…»

Si davano del tu! La Fersa trovava modo di dire che Margherita era già stata da lei! E il principe sopravveniva, stringeva la mano a Raimondo, dicendo:

«Cognata e cugina, resterete a colazione con noi?…»