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Le novelle marinaresche di mastro Catrame

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– Non posso assicurare per quale motivo la vostra nave sia stata fermata e scrollata; ma io ritengo che si fosse aggrappato alla vostra chiglia qualche mostro fornito di braccia potenti, un polipo gigante, per esempio, oppure un cefalopodo. Questi polipi hanno dei tentacoli che raggiungono e talvolta sorpassano una lunghezza di dieci metri, sono dotati di una forza straordinaria e possono far oscillare una nave anche grossa. Il caso non sarebbe nuovo.

– Ammettiamolo, – rispose il mastro.

– In quanto al serpente marino vi siete tutti ingannati, cominciando dal tuo amabile capitano. Sono convintissimo che voi abbiate incontrato nient’altro che una pacifica balena, occupata a pranzare fra un banco di alghe. Le dimensioni del capo del preteso serpente, che era invece l’intero corpo del cetaceo, le nubi di vapore, che lanciava dagli sfiatatoi, e il fischio acuto bastano per dimostrare che io non mi inganno.

– La coda del serpente non era altro che un lungo banco di alghe, eccellente pastura delle balene; se così non fosse, la vostra nave non avrebbe tagliato l’appendice del mostro smisurato. Hai veduto tu quella coda contorcersi o sollevare ondate quando la vostra nave la investì?… Dimmelo francamente, papà Catrame.

– No, – rispose il mastro, che si grattava furiosamente la testa, – ma quei due buchi?…

– Quei due buchi!… Ecco il punto oscuro. Un polipo non può averli fatti, un cetaceo nemmeno, un pesce-spada no, quantunque sovente pianti il suo corno nella carena delle navi, ma senza riuscire ad attraversarla e… Ah!… ah!… Questa è bella!…

– Ridete! – esclamò il mastro.

– Vi è da ridere, papà Catrame, e come!… – rispose il capitano. Dimmi: li avevate mangiati i due granchi ladri?…

– I due granchi!… – mormorò il mastro, che parve colpito. – Ma no, perbacco!… Erano chiusi in una cassa e…

– Cosa vuoi dire?

– Che quando asciugammo la sentina, li trovammo nascosti colà. I furboni avevano rotto la cassa; eppure era grossa e solida.

– Sappi allora, papà Catrame, che il vostro legno era stato sabordato dai due fuggiaschi. Avevano sete, e colle loro robuste morse, che fendono le durissime noci di cocco, hanno praticato quei due buchi per bere. Ah!… vecchio mio, che granchio hai preso!… Va’ a dormire e per domani sera prepara qualche cosa di meglio.

Il mastro non fiatava più: guardava il capitano come trasognato, con certi occhi che parevano quelli d’un pazzo.

Quando si alzò, lo udimmo mormorare:

– Decisamente colle mie novelle non farò mai fortuna!…

Quella notte, non so per qual capriccio, il vecchio non discese nella sua cala e dormì sul ponte, fra due velacci e un rotolo di gomene.

Le murene

Anche durante il giorno papà Catrame rimase sempre sul ponte, passeggiando con gravità da prua a poppa, lungo la murata di tribordo, che era il suo riparto favorito, avendo sempre manifestato, non so per quale motivo, una avversione decisa per quella di babordo. Fumò senza interruzione, lasciò andare un paio di sonori scapaccioni ai mozzi, perché si erano permessi di interrogarlo sul titolo della decima novella; ma non scambiò una parola con nessuno. Pareva preoccupatissimo, assorto in profonda meditazione, tanto da non darsi pensiero né della nave, né dell’equipaggio, né della manovra.

Ci voleva poco a capire che era di umore non troppo buono e che quei continui smacchi che gli venivano dal nostro capitano gli bruciavano. Ma forse più di tutto gli pesava la smentita recisa all’esistenza del famoso serpente di mare, così miseramente fatto naufragare dal suo eterno contraddittore. Mi provai ad interrogarlo, ed egli mi salutò senza rispondere. Per rabbonirlo un po’ gli offersi un sigaro; lo prese ringraziandomi con un cenno del capo, se lo cacciò mezzo in bocca, ma proseguì la sua passeggiata sempre accigliato, sempre pensieroso.

All’ora dei pasti non venne a sedere fra noi; si prese la sua razione, la fece sparire in otto bocconi, poi continuò il suo avanti e indietro colla precisione d’un orologio.

Non si fermò che alla sera, allorquando la soneria di bordo fece udire le otto ore. Allora si assise sul barile e attese l’uditorio, tenendo gli occhi fissi sul ponte.

– Papà Catrame ha il cervello in burrasca, – disse il nostro capitano, sedendosi dinanzi all’albero. – Ma, bah! la faremo passare raddoppiando la razione di Cipro. Ehi, camerotto! Due bottiglie pel mio vecchio mastro!… Stasera voglio che beva un paio di bicchieri di più!

Udendo quel comando papà Catrame alzò il capo, facendo una smorfia di allegrezza (vi dico tra parentesi che era pazzo pel Cipro del nostro comandante e non aveva torto, essendo proprio di quello buono); poi aprì gli occhi, che fino allora aveva tenuti socchiusi, ed emise un brontolìo di soddisfazione.

– Udiamo adunque, vecchio mio, la decima novella, – disse il capitano. – Vediamo se stasera c’è qualche cosa da spiegare senza farti andare in bestia.

Mastro Catrame si lisciò la bianca barba, tossì tre volte, poi guardando fisso il capitano gli disse:

– Questa sera non spiegherete nulla.

– E perché, se è lecito saperlo?

– Perché la storia è autentica e non può avere altra spiegazione che la mia.

– Di che si tratta adunque?

– Di un altro vascello che fu improvvisamente fermato, mentre navigava a gonfie vele sul libero mare.

– Da uno scoglio?

– No: da un pesce che da molti secoli gode fama di arrestare i più grandi legni.

– Oh, diavolo!… – esclamò il capitano ironicamente. – Cosa può essere mai? Udiamo questo interessante e meraviglioso fatto. Ti assicuro che ecciti la mia curiosità, papà Catrame.

Il vecchio mastro, a cui non era sfuggito l’accento ironico del nostro amabile capitano, scrollò le spalle con una cert’aria da impiparsene e diede la stura alla sua decima novella.

– Sono trascorsi da quell’epoca cinquant’anni, – diss’egli, – eppure il fatto toccatomi l’ho presente come se fosse accaduto ieri, e se volete sapere perché lo ricordo tanto bene, vi dirò che da quel giorno porto una traccia profonda sul mio braccio destro, una cicatrice, che ancora, specialmente quando il tempo si cambia, mi fa provare degli acuti dolori.

– Voi tutti saprete forse cos’è una giunca, e se lo ignorate vi dirò che è un bastimento cinese dalle forme quadre e pesanti, d’una costruzione tutt’altro che sicura, che porta vele formate da giunchi intrecciati e due alberi irti di banderuole d’ogni dimensione o di teste di drago orribili.

– Per una circostanza che è inutile vi riferisca, ero rimasto a Canton, che è una delle più ricche città dell’Impero Celeste, senza imbarco.

– La terraferma mi era diventata odiosa allora come oggi, e non sentendomi sotto i piedi il ponte rollante d’un vascello, soffrivo come se mi trovassi sui carboni ardenti; quindi era necessario prendere un imbarco, se non volevo ammalarmi e morire di noia. Aggiungo poi che la questione pecuniaria s’imponeva seriamente, poiché io ho avuto sempre l’abitudine di non mettere da parte uno spicciolo. E infatti, che dovevo farne io dei risparmi? Poiché si ha da morire nella gran tazza, è meglio andarsene colle tasche vuote, visto e considerato che laggiù, in fondo agli abissi, mancano le taverne, e che i pesci non vendono bottiglie. Vi pare?

– Benissimo, perbacco! – esclamarono i marinai.

– Or dunque, eccomi a bordo di quella pesante carcassa, in compagnia d’una dozzina di marinai color dello zafferano e dalle zucche pelate, e sotto gli ordini d’un imponente capitano nanchinese, grasso come un rinoceronte, con una coda lunga un metro e sessantasei centimetri, e un paio di baffi senz’anima che gli scendevano fino alla cintola. Senza che ve lo dicessi, voi sapete che i baffi di tutti i cinesi non hanno fibra dura e che, invece di tenersi ritti, si curvano umilmente verso terra. È questione di razza.

– Ve lo figurate voi il vecchio Catrame, cioè no, poiché allora io ero giovane e la mia barba era ancora nera e la mia zucca capelluta, ve lo figurate, dico, in compagnia di quel codato equipaggio, che quando parlava strideva come una lima che morde il ferro e gorgogliava come la gola d’un capodoglio? Poi mangiava tutto il giorno riso, servendosi di certe bacchettine d’avorio, e tutte le sere s’ubriacava sconciamente d’oppio. Eh, se non ci fossi stato io a raddrizzare di quando in quando la ribolla del timone o a dirigere la rotta, non so dove quella povera giunca sarebbe andata a finire.

– Ma io divago un po’ troppo, come diceva ieri o l’altra sera il capitano, – riprese papà Catrame, gettando uno sguardo malizioso sul nostro comandante, – e perciò torno all’argomento, tanto più che comincio a sbadigliare a mo’ di un orso che non dorme da tre settimane.

– Adunque avevamo lasciato Canton diretti alle coste orientali dell’Australia, onde cercare quei molluschi che somigliano a un cilindro, coriacei, buoni da nulla, ma che i cinesi apprezzano più dei topi salati, del giovane cane in stufato e della salsa di giang-seng. Si chiamano… Corpo di Giove!… hanno un nome così barbaro da far disperare un galantuomo… Ah!… sì…

– Oloturie o trepang, – disse il capitano.

–Benissimo…, proprio così;… olea…, olo… Orsù, la mia lingua s’ingrossa coi nomi barbari e non vuole pronunciarli; ma non importa l’ha detto il capitano per me.

– Bene o male, eravamo giunti sulle coste australiane, e dopo due mesi avevamo fatto un carico completo di quei molluschi. Sciogliemmo le vele verso il Nord, impazienti i miei camerati celestiali di rivedere le cupole a scaglie di ramarro della loro Canton ed io di piantare quella poco allegra compagnia e la carcassa che l’imbarcava.

– Eravamo giunti nei pressi dello stretto di Torres e stavamo per imboccare quel pericoloso passo, quando vidi il capitano curvarsi parecchie volte sul coronamento di poppa e fare dei segni bizzarri.

 

– Sorpreso e curioso, lo interrogai; ma era cosa tutt’altro che facile l’intendersi; sicché non riuscii a comprendere nulla. Per istinto però sentivo che qualche cosa di serio era avvenuto o stava per avvenire.

– Infatti verso sera la nostra giunca, che pur era una discreta veliera, a poco a poco cominciò a rallentare la corsa, come il vascello di cui vi parlavo nel mio precedente racconto.

– Andai a trovare il capitano, che era seduto a poppa, per sapere il motivo di quel rallentamento, ed egli si accontentò di fare un gesto che poteva tradursi con un: Aspettiamo, ché nulla posso fare. Mi rivolsi all’equipaggio, e tutti mi fecero un gesto eguale. Lo sapevano il motivo o no? Non ne so più di voi.

– Intanto la giunca rallentava sempre; sentivo sotto la carena un certo dondolio che nulla di buono pronosticava; eppure il vento soffiava sempre e il mare era tranquillo entro lo stretto.

– Salii sulla prua per meglio conoscere e spiegare quello strano fenomeno, quando il legno si arrestò così bruscamente da farmi fare una brutta volata in mare.

– Allorché tornai alla superficie mi sentii afferrare per un braccio e penetrare nelle carni certi denti aguzzi come lame e solidi come fossero d’acciaio. Allungai la mano libera e afferrai una specie di serpente lungo lungo; si dibatteva il mostro, ma le mie dita erano robuste e non lasciai la preda finché non la sentii come morta.

– I celestiali, che si erano accorti del mio salto involontario, vennero in mio aiuto con un canotto e mi trasportarono a bordo insieme col serpente. Voi forse direte che io sognavo; eppure, appena misi i piedi sul ponte, la giunca riprese le mosse e continuò a navigare colla celerità di prima. Indovinereste quale pesce avevo strangolato?

– No, – risposero tutti.

– Una murena, che misurava due metri di lunghezza!…

Guardammo papà Catrame, che si era arrestato, chiedendogli cogli occhi che cosa voleva dire; egli invece guardava noi, stupito della nostra sorpresa.

– E che! – esclamò egli con superbo disprezzo, – forse che non sapete cos’è una murena?

Un coro di proteste si alzò fra l’equipaggio:

– È un’anguilla!…

– Ne abbiamo viste delle centinaia.

– Ne abbiamo mangiate delle dozzine.

– E dunque! – esclamò il vecchio. – Non sapete che le murene arrestano le navi? Ma che razza di marinai siete voi (non parlo degli ufficiali), da ignorare una cosa simile? Ne parlavano persino i romani, ai tempi di Remo e di Romolo, due fratelli stati allattati da non so quale bestia: e voi, dopo non so quante migliaia d’anni che questo fatto è constatato, voi, che siete o vi dite uomini di mare, non conoscete ancora la potenza delle murene? Domandate un po’ al capitano se non fu una murena ad arrestare una nave di non so quale condottiero romano, mentre inseguiva non so quale principe, o console, o imperatore. Oh! che ignoranti!…

I marinai, confusi, rossi fino agli orecchi, guardarono il capitano, che penava a frenare le risa.

– Papà Catrame ha ragione: la storia ha registrato il fatto citato, – rispose questi.

Il mastro lasciò andare due poderosi pugni sul barile e parve che fosse per impazzire dalla contentezza, a quella solenne affermazione del nostro comandante.

– Avete capito, ragazzacci increduli? – esclamò con aria trionfante. – Perfino i romani del signor Remo e del signor Romolo conoscevano queste cose.

– Sì, – disse il capitano, – tutti gli antichi popoli si sono occupati e non poco delle murene, ed affermarono che queste specie di anguille sono capaci di arrestare una nave, e la storia cita parecchi fatti.

– E anche le adoravano, le murene, – disse il mastro.

– Sì, ma per ghiottoneria, – rispose il capitano. – Gli opulenti romani le allevavano con cura in certe piscine appositamente scavate, le nutrivano senza risparmio, somministrando loro perfino carne umana, davano a ciascuna un nome e le ammaestravano, onde accorressero a baciare le loro mani. La bizzarria di non so più quale imperatore romano giunse al punto di adornare le sue murene con pendenti d’oro.

– Udite! – esclamò il mastro.

Ad un tratto il capitano incrociò le braccia e, cangiando tono, disse:

– Papà Catrame, ora basta! Che i romani ed altri popoli abbiano creduto che le murene fossero così potenti da arrestare una nave, padronissimi. Ma credi tu che noi prestiamo fede a simili corbellerie? Ah no, perbacco! Vecchio Catrame, t’inganni!

Il mastro, che era all’apogeo del suo trionfo, a quel cambiamento di tono e a quelle parole illividì, e per poco non cadde dal barile.

– Ma… come… i romani… – borbottò con un filo di voce

– Lascia andare i romani e le loro corbellerie. Io ti dico che sei pazzo se credi che la tua giunca sia stata fermata dalla murena che ti morse. Nell’Oceano Pacifico questi pesci sono grandi assai, ma incapaci di fermare nemmeno una barca.

– Eppure la giunca…

– Si è fermata, vuoi dire. Io non so per quale motivo e fenomeno, ma suppongo che navigasse sui bassifondi dello stretto, e tu sai che in quello di Torres sono numerosi; la marea, che forse in quel momento montava, vi avrà rimessi a galla dopo pochi minuti. Ma levati dal capo la credenza che sia stata una murena. I vecchi marinai, imbevuti di pregiudizi ed attaccati alle antiche leggende, possono ancora prestare fede alle murene: noi no, papà Catrame… Prendi le tue due bottiglie e va’ a riposare la lingua e le stanche membra.

Il mastro non fiatò più. Si terse due goccioloni di sudore, non so se caldi o freddi, prese le sue due bottiglie e discese barcollando nella sua cala.

La nave-feretro sul mare ardente

Le dure smentite del nostro capitano, il quale per altro non mirava che a dissipare la nebbia d’antichi pregiudizi a pro del nostro equipaggio, al pari di tutti gli altri fuor di misura ignorante e credulone, dovevano aver prodotto un profondo effetto sul povero condannato.

Infatti l’indomani papà Catrame non comparve sul ponte, e quando fu sera non lasciò la cala. Lo si mandò a chiamare dieci volte di seguito, ma fu inflessibile. All’undicesima tirò dietro al camerotto tutte e due le scarpe e alla dodicesima scagliò alle gambe d’un timoniere, che era sceso per persuaderlo a salire, tutta la sua batteria di bottiglie, vuote, intendiamoci.

Il capitano lo lasciò fare, gli mandò anzi due fiaschi del vino suo più gradito, che il vecchio orso accolse con un brontolio di contentezza e che vuotò subito, poiché mezz’ora dopo lo udimmo russare con tal fracasso da destare l’eco nella stiva.

Il secondo giorno però, o, meglio la seconda sera, il mastro, riconoscente alla cortesia del nostro allegro capitano, salì in coperta. Pareva contento: aveva un sorrisetto misterioso sulle labbra e lanciava sul capitano degli sguardi maliziosi. Che in quelle ventiquattro ore di riposo avesse scavato, nei suoi vecchi ricordi, qualche fatto da imbarazzare il suo eterno contraddittore? Io lo sospettai vedendolo così di buon umore, mentre tutti credevano che fosse imbronciato.

Quando ci vide attorno al suo barile, il suo sorriso misterioso divenne più marcato e nei suoi occhietti grigi brillò un lampo.

– Restano ancora due sere per espiare la mia pena, – cominciò egli. – Ho narrato dei fatti a me succeduti e mi avete riso sulla faccia come se vi narrassi delle frottole inventate nell’oscurità della cala; ho citato nomi ed autori e voi avete voluto sfatarli; ho creduto di divertirvi e invece mi avete trattato come un buffone di qualche tirannello africano o peggio. Ritorno quindi alle storie lugubri e paurose: quelle almeno sono certo che non le spiegherete, e chi non vuole udirmi, vada a dormire. M’avete capito?

– Se papà Catrame spera di vederci andare a dormire per risparmiare il resto della sua pena, s’inganna, – disse il capitano. – Io rimango e aspetto l’undicesima novella.

– Anche noi! – esclamarono in coro i marinai, che non avrebbero lasciati i loro posti nemmeno per dieci boccali del miglior vino.

Papà Catrame fece un gesto dispettoso, ma dovette rassegnarsi, poiché nessuno si moveva. Storie allegre o tristi, doveva narrarle tutte.

– Sta bene, – diss’egli coi denti stretti; – ma forse vi pentirete. La novella di stasera s’intitola: «La nave-feretro sul mare ardente».

– Che storia è mai questa! – esclamò il capitano. – Tu vuoi proprio spaventare i mozzi.

– Tanto meglio, – rispose il mastro ruvidamente. – A chi non accomoda il titolo, vada a dormire.

– Con tuo permesso rimarremo tutti qui, vecchio brontolone.

Papà Catrame scrollò le spalle, si raccolse per alcuni istanti, poi cominciò:

– Vi narrerò un’avventura assai bizzarra, forse la più strana che mi sia toccata in tanti anni di navigazione, e che non fui capace di spiegare mai, quantunque mi sia torturato il cervello non so quante volte. Voglio vedere se il nostro capitano è capace di fare un po’ di luce su questo tenebroso fatto.

– Speriamolo, papà mio, – disse il capitano. – Bada però che sia una storia vera.

– È toccata a me, e questo può bastarvi per credere alla esattezza dell’avventura. Ditemi innanzi tutto: avete mai udito parlare della nave-feretro? Si dice, e non da ora, ma da molti, moltissimi anni, che di quando in quando si incontra un vascello tutto nero che veleggia da solo, senza aver bisogno d’un equipaggio che lo manovri e lo guidi, che porta con sé un carico completo di feretri.

– Le leggende di molti popoli non solo europei ma anche di altri continenti, dicono che quel vascello fantasma racchiude le salme di marinai morti durante le tempeste, o quelle dei più valenti guerrieri spenti combattendo sul mare per sante cause, o i cadaveri di quegli audaci scorrazzatori del mare che si chiamarono normanni, tutti resti di persone affidate all’oceano da secoli e secoli e riunite sulla nera nave. Cosa ci sia di vero in tutto ciò, io lo ignoro; ma che la nave-feretro esista è vero, poiché io l’ho incontrata e l’ho veduta coi miei occhi.

– Tu! – esclamò il capitano con tono incredulo.

– Io, signore, – rispose il mastro con voce solenne, – io!…

– Udiamo adunque questa bizzarra avventura, – riprese il capitano – Se è vera, non so come potrò spiegarla.

– Non la spiegherete, signore: ve l’assicuro, – rispose il mastro.

Mi ero arruolato su di un brigantino messicano che faceva il traffico con la Cina ed il Giappone, attraversando tre o quattro volte all’anno l’Oceano Pacifico settentrionale. Avevamo lasciato il porto di Callao sul finire della primavera, se ben ricordo, diretti al Giappone, dove contavamo di fare un grosso carico di seta per le bellezze americane.

Il buon vento, che in quella stagione spira quasi sempre in favore delle navi che vanno dall’oriente verso l’occidente, in quindici giorni ci aveva spinto fino al 220° parallelo() senza che alcun avvenimento turbasse la calma che regnava a bordo, quando un giorno, pochi minuti prima che calasse il sole, facemmo una strana scoperta.

– Mentre stavamo terminando la nostra cena, un gabbiere che si trovava sulla coffa di maestra occupato a fare un legaccio a un boscello, ci segnalò un bastimento che navigava parallelamente a noi, a una distanza di quattro miglia.

– Non era una cosa straordinaria di certo, quantunque in quella porzione d’oceano sia abbastanza raro un tale incontro. Essendosi però il giorno precedente manifestato un guasto nella nostra bussola, il capitano volle approfittare di quella occasione per chiedere alla nave segnalata la giusta rotta, e diresse il brigantino verso il Nord.

– Mezz’ora dopo, noi eravamo ad un miglio dal vascello, sicché potemmo osservarlo a nostro agio. La sua andatura, la sua immersione e la disposizione delle sue vele attrassero la nostra attenzione.

– Era un grande veliero tutto dipinto in nero, coi suoi tre alberi carichi di tela, ma coi pennoni orientati gli uni sottovento e gli altri sopravvento, senza regola, ed era così immerso che l’acqua giungeva fino agli ombrinali. Ma, cosa ancora più sorprendente, non portava alcuna bandiera, e né sul ponte di comando, né sul cassero di poppa, né sul castello di prua, né in coperta si vedeva alcun marinaio.

– Il nostro capitano, ritenendo che gli uomini fossero sdraiati dietro alle murate di babordo o dietro alle imbarcazioni, fece spiegare le bandiere dei segnali, pregando quell’equipaggio invisibile di porsi in panna; ma nessuno apparve!

– Converrete che la cosa era strana. O l’equipaggio si era ubriacato e dormiva della grossa, o quella nave era stata abbandonata per qualche motivo. Eppure senza bisogno di braccia continuava a navigare, filando più di noi. Sparammo un colpo di spingarda, ma non ottenemmo miglior frutto: nessun uomo comparve, nessuno ci rispose.

– Essendo calata in quel frattempo la notte, la nave misteriosa scomparve nelle tenebre; però, qualche ora dopo, e da lontano, scoprimmo parecchie fiammelle che brillavano distintamente fra la profonda oscurità.

 

– Da che provenivano? Non riuscimmo a saperlo; non essendovi però alcuna terra in vista, arguimmo che quei fuochi dovevano brillare sul vascello poco prima segnalato.

– Lascio immaginare a voi a quante chiacchiere diede luogo quel misterioso incontro. Alcuni dicevano che forse quella nave era montata da pirati, i quali dovevano aver avuto paura di noi; altri che era il vascello fantasma dell’olandese maledetto; altri ancora asserivano invece, e con tutta serietà, che doveva essere la nave-feretro, anzi aggiungevano che appunto in quella porzione dell’Oceano Pacifico era stata incontrata pochi anni prima da un capitano di Acapulco.

– Tutta la notte vegliammo attentamente in coperta, temendo che il triste legno da un istante all’altro ci investisse o ci facesse qualche brutto gioco; ma nulla apparve sulla fosca linea dell’orizzonte. Soltanto un gabbiere assicurò di aver veduto ancora, fra le undici e la mezzanotte, brillare quelle fiammelle che ci avevano tanto spaventati.

– Finalmente l’alba, così ansiosamente attesa, spuntò, e l’oceano apparve completamente libero: la nave incontrata la sera precedente era scomparsa!…

– Trascorsero tre giorni, durante i quali essa più non riapparve, benché l’equipaggio intero vegliasse attentamente e per turno, ed un uomo si tenesse sulla crocetta di maestra, munito d’un potente cannocchiale.

– Cominciavamo già a rassicurarci, quando al tramonto del quarto giorno il nostro timoniere gridò:

– «Nave sottovento!…»

– Salimmo tutti in coperta e distinguemmo infatti, verso il Nord, un tre-alberi di dimensioni non comuni; ma la distanza era tale da non permetterci di osservarlo minutamente.

– Un gabbiere si issò sulla crocetta e puntò un cannocchiale in quella direzione.

– «È la nave-feretro!» – esclamò.

– «Mettete la prua al Nord e si spieghino i coltellacci e gli scopamari!», – comandò il nostro capitano. – «Voglio vedere chiaro in questa misteriosa avventura».

– Quantunque fossimo tutti impressionati, anzi, se devo dire esattamente la verità, vivamente spaventati, temendo quell’incontro, obbedimmo, e il nostro brigantino filò come una rondine marina verso il Nord, alla caccia del vascello fantasma.

– La nostra velocità cresceva di minuto in minuto; ma anche quella del vascello inseguito, che forse era meglio costruito e che portava più vele di noi, era rapida, poiché la distanza non scemava che lentamente.

– Anche quella volta giungemmo a un miglio di distanza; indi le tenebre calarono e non riuscimmo più a distinguere nulla. Però avevamo avuto tempo di osservare che il ponte della nave era sempre deserto, che la sua immersione si manteneva come prima, e che i suoi pennoni non avevano subito alcun cambiamento, quantunque il vento avesse preso diversa direzione.

– Cercammo tutta la notte, ora dirigendoci verso il Nord, ora verso l’Ovest, ma senza risultato; nemmeno le fiamme apparvero, cosicché, non potendo proseguire in modo alcuno, fummo costretti ad abbandonare le nostre ricerche con grande rincrescimento del capitano, che contava di fare una grossa preda, giacché quella nave sembrava abbandonata dal suo equipaggio.

– Noi però eravamo convinti che fosse la nave-feretro ed infatti non dovevamo tardare ad averne la prova

– La sesta sera nulla apparve nel momento in cui il sole tramontava; ma più tardi accadde un avvenimento straordinario, che spaventò tutti, eccetto il capitano.

– Erano le undici. Il nostro brigantino navigava colla velocità ridotta, essendo il vento alquanto forte, e colla prua sempre all’Ovest, quando scorgemmo tutto ad un tratto, ad una grande distanza, un vivo chiarore.

– Si sarebbe detto che il mare era in fiamme, o che sotto le onde splendeva un altro sole, o che avvampava un vulcano. Si vedevano guizzare in tutte le direzioni lingue rosse, azzurre o verdastre. colle selvagge contrazioni dei serpenti; balzavano per ogni dove fasci di scintille ogni volta che le onde fosforescenti s’urtavano, e sotto a quella specie di distesa di bronzo liquefatto, si distinguevano dei ribollimenti strani che parevano prodotti da legioni di mostri contorcentisi.

– Cos’era? Il capitano diceva che era una fosforescenza marina d’un chiarore ammirabile, prodotta da ammassi enormi di certi pesci o da miriadi di uova; ma nessuno di noi gli credeva, quantunque non ignorassimo che anche gli scienziati hanno dato tale spiegazione di siffatto fenomeno.

– Ci dirigemmo a quella volta e, giunti sull’estremo lembo di quel mare ardente o fosforescente che fosse, vedemmo ferma, proprio nel mezzo, una massa nera che spiccava nettamente su quel fondo scintillante. La riconoscemmo di colpo.

– «La nave-feretro!» – gridammo tutti.

– «Finalmente!» – esclamò il nostro capitano. – «Avanti!»

– Invece di ubbidire, il timoniere lasciò la ribolla e i gabbieri abbandonarono i bracci delle manovre, dichiarando formalmente che nessuno lo avrebbe seguito. Perbacco! Non avevamo alcuna intenzione di andarci ad impacciare col vascello dei morti! E fummo ben contenti di rimanere a bordo.

– Vedendoci risoluti e decisi a ribellarci se avesse insistito, il nostro capitano fece calare una scialuppa in mare e discese solo, dicendoci:

– «Aspettatemi qui adunque: la preda sarà tutta mia».

– Afferrò i remi e con un coraggio ammirabile entrò nel mare fosforescente, dirigendosi verso la nave misteriosa. Arrancava con sovrumana energia, facendo volare sotto i colpi di remo sprazzi di scintille, e teneva gli occhi costantemente fissi sul tre-alberi, che era perfettamente immobile, quantunque avesse sempre le vele sciolte e il vento soffiasse ancora.

– Di mano in mano che la scialuppa si allontanava, invece di sembrare più piccola, sia che un fenomeno d’ottica ovvero il terrore ci falsasse la vista, pareva assumere proporzioni gigantesche e che il nostro capitano diventasse sempre più grande.

– Finalmente lo vedemmo raggiungere la nave, deporre i remi e balzare sopra le murate che erano a fior d’acqua.

– Quasi nel medesimo istante, come se quello fosse stato un segnale, la luce intensa che si stendeva sotto le onde si spense bruscamente, e tutto divenne oscuro come il fondo di un barile di catrame!…

– Il nostro terrore accrebbe smisuratamente quando, in mezzo al profondo silenzio che regnava fra le tenebre, ci giunse agli orecchi un grido acuto che veniva dal largo, come un grido d’orrore.

– L’aveva emesso il nostro capitano, o qualche altro essere umano? Attendemmo col cuore stretto dall’angoscia, ma non udimmo più nulla, né vedemmo ritornare la scialuppa.

– Passarono due, tre, quattro ore, ed il nostro comandante non riapparve. Il terrore cresceva a bordo di momento in momento, e nessuno ardiva slanciarsi verso la nave misteriosa: eravamo istupiditi dallo spavento.

– Verso le quattro udimmo improvvisamente a prua un urto. Facendoci coraggio uno coll’altro, salimmo sul castello e scorgemmo la scialuppa del capitano, che le onde o qualche corrente marina o il flusso avevano ricondotta verso di noi. Gettammo una corda munita d’un uncino e la rimorchiammo fin sotto la scala. Solo allora ci accorgemmo che dentro vi giaceva il nostro capitano!

– Lo portammo a bordo: non dava quasi più segno di vita, era bianco come un cencio lavato, bagnato di freddo sudore e i capelli gli erano incanutiti tutti.

– Abbandonammo subito quei paraggi funesti, temendo che una grave sciagura cogliesse anche noi.

– Al nostro povero capitano vennero prodigate le più affettuose cure, ma non rinvenne che il giorno seguente. Le prime parole che pronunciò furono queste:

– «I feretri!… Quanti feretri!…»

– Poi fu subito assalito da un delirio furioso, durante il quale non faceva altro che parlare di morti e di sepolture. Dai suoi discorsi riuscimmo a capire che quella nave era piena di casse contenenti centinaia di morti.