Kostenlos

Le novelle marinaresche di mastro Catrame

Text
0
Kritiken
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Le sirene

Alle otto precise papà Catrame era al suo posto, pronto a raccontarci l’ottava storia.

Guardammo il suo volto incartapecorito, per indovinare se fosse di buono o cattivo umore, poiché da questo si poteva argomentare se la novella era allegra o triste. Le nostre investigazioni riuscirono però vane, poiché il suo volto nulla diceva. Solo notammo che pareva un po’ nervoso: egli non faceva altro che levare di bocca la vecchia pipa e cacciarvi dentro il suo pollice, quantunque essa tirasse meglio del solito.

Era imbarazzato a trovare l’argomento? o il suo cervellaccio tardava a risvegliarsi? Io credo che fosse una cosa e l’altra; infatti rimase silenzioso più di un quarto d’ora, continuando a frugare e rifrugare nella pipa. Alla fine, quand’ebbe tracannato un paio di bicchieri, la sua me moria si svegliò come per incanto.

– Credo e non credo, – cominciò egli.

– Oh!… oh!… – esclamò il capitano. – Papà Catrame a poco a poco diventa incredulo.

– No, – rispose il mastro gravemente. – Ma su ciò che sono per narrarvi conservo dei dubbi, non avendo potuto constatare la cosa con piena sicurezza.

– L’argomento deve essere importante, – esclamò il capitano. – Si tratta di qualche mostro di nuova specie?

– D’un mostro precisamente non si tratta, – rispose il marinaio con serietà; – si tratterebbe anzi d’una vaga donna.

Un «oh!» di sorpresa uscì da tutte le bocche, e vi era di che. Come mai mastro Catrame, quell’orsaccio, che quando vedeva una donna fuggiva come se avesse dinanzi il diavolo, si occupava del gentil sesso?

– Ventre di balena! – esclamò il capitano. – Questa volta papà Catrame vuole morire.

– Fuori la novella! – gridarono tutti.

– Il titolo!… Il titolo! – tuonò una voce.

– Il titolo? – disse il mastro. – Eccolo: le sirene!…

Un clamoroso scoppio di risa tenne dietro a quell’annuncio; rideva il capitano fino a slogarsi le mascelle, ridevano i marinai, e si tenevano i fianchi perfino i mozzi.

– Ah! papà Catrame! – esclamò il capitano. – Tu credi ancora a simili frottole?… Eh via!… perbacco!… Sii un po’ più serio.

– Papà Catrame le sballa grosse come una corazzata! – gridarono tutti.

– Adagio, ragazzi, – disse il mastro, che faceva fronte colla maggior calma a quello scoppio d’ilarità. – Ho detto fin da principio che credo e non credo; ma qualche cosa di vero ci deve essere. Oh! perbacco! sono secoli e secoli che i marinai parlano delle sirene. A quale scopo avrebbero inventato simili frottole? Qualche cosa di vero, lo ripeto, ci deve essere, quantunque non abbia ancora potuto verificare esattamente quanto ce ne sia.

– Voi ridete pure; ma se continua la celia, pianto su due piedi l’uditorio e vado a passare la mia notte nella cella dei prigionieri. Avete capito? Ventre di foca! è un po’ troppo!… Corpo d’una spingarda! basta così, o…

– Silenzio! – tuonò il capitano, – o il vecchio Catrame scoppia come una caldaia a trenta atmosfere.

Con uno sforzo prodigioso frenammo la nostra ilarità e il silenzio più profondo regnò attorno al mastro.

– Ritorno al Caronte, – riprese Catrame, – a quel brutto vascello che si diceva fosse popolato di fantasmi e di folletti e il cui comandante fece la fine miseranda che voi tutti conoscete. Però la storia che sto per narrarvi non è tanto lugubre come sembrerebbe a prima vista.

– Quando il caso che ora apprenderete accadde, la fregata si chiamava ancora Santa Barbara; la comandava un altro capitano e nella stiva non si udivano né gemiti né cigolii di catene.

– Con me si era imbarcato un giovane ufficiale, i cui modi un po’ bizzarri mi avevano subito colpito. A quale nazione appartenesse non riuscii mai a saperlo; ma non doveva essere italiano, poiché masticava orribilmente la nostra dolce lingua; pareva anzi che venisse da un paese molto lontano: era bruno come un meticcio dell’America, aveva maniere strane, un temperamento concentrato, e mangiava cibi affatto diversi dai nostri. Doveva essere di buona famiglia e di casta molto elevata, perché notai che il capitano lo trattava quasi da eguale e aveva per lui molti riguardi.

– Non so il perché, fino dal primo momento che mi vide mi dimostrò una certa simpatia. Fosse la mia barba imponente, o fossero i miei modi franchi, – modestia a parte, – o perché ero un buon compagno quando si trattava di vedere il fondo di qualche bottiglia, egli mi chiamava sovente nella sua cabina, mi mesceva da bere; ed io ogni sera tornavo alla mia branda colle gambe malferme e la testa pesante; sovente anche quell’uomo strano chiacchierava con me, mentre cogli altri non apriva mai bocca.

– Avevamo lasciato la città del Capo di Buona Speranza diretti in Australia, non ricordo bene se a Melbourne o a Brisbane: un viaggetto di almeno tre mesi, se il vento ci fosse stato sempre propizio: altrimenti la traversata si sarebbe prolungata ancora di più. Il mio ufficialetto, di passo in passo che ci allontanavamo da terra, invece di diventare più allegro, come fa il vero marinaio, intristiva sempre più.

– Lo sorprendevo talora colla testa stretta fra le mani, la fronte annuvolata, le labbra strette e una faccia da uomo più ammalato che sano. Talvolta lo udivo sospirare profondamente, borbottare non so quali parole in una lingua sconosciuta, e in quei giorni non barattava con me due sillabe, anzi mi trattava molto ruvidamente.

– Invano mi rompevo il capo per indovinare il motivo di quella crescente tristezza. Se avessi avuto i galloni d’oro, l’avrei interrogato; ma nella mia condizione non era permesso, e poi veh!, mastro Catrame è un uomo che sa stare al suo posto, osservando le distanze.

– Un giorno, mentre entravo nella cabina per portare al mio ufficialetto non so quale ordine, lo sorpresi cogli occhi bagnati di lagrime… Rimasi di stucco e, ve lo confesso, scandolezzato. Che diamine! Un marinaio, anzi un ufficiale che piange! Poffare! Il motivo doveva essere molto grave per lasciar cadere quell’acqua dolce.

– Appena mi vide, si terse quasi con rabbia quei lucciconi, vergognoso di essersi lasciato sorprendere da me; ma poi, quasi fosse vinto da un nuovo dolore, si lasciò cadere su di una sedia, nascondendosi il viso fra le mani.

– Ve lo figurate come mi trovai io in quel momento, dinanzi al mio ufficialetto. Volevo fuggire, ma avevo timore che si offendesse; volevo rimanere, ma temevo che mi mettesse alla porta; ero insomma sui tizzoni ardenti e non so che cosa avrei fatto per diventare tanto piccolo da potermi nascondere sotto il tavolo.

– Invece il mio ufficialetto non si offese, né si sdegnò. Mi fece cenno di chiudere la porta, poi, piantandomi in viso due occhi che facevano paura, mi chiese a bruciapelo:

– «Catrame, hai avuto delle affezioni nella tua gioventù?…»

– Lo guardai trasognato. Perché chiedeva a me simili cose, a me che non mi sono occupato d’altro che di àncore, di vele, di pennoni?… E poi, e poi… Lasciamo correre…

– Alto là, papà Catrame, – disse il capitano. – Tu ci nascondi qualche particolare e non dici tutta intera la verità. Quel «lasciamo correre» mi fa sospettare qualche… Eh! m’intendo io!

– Che? – chiese il vecchio con una certa inquietudine che non sfuggì a nessuno di noi.

– Tu pure, un tempo, hai corso la cavallina…

– Io!… – esclamò il mastro, la cui faccia si oscurò. – Io!…

Trinciò l’aria due o tre volte colla destra e colla sinistra, come se volesse scacciare qualche cosa, poi riprese con voce aspra:

– Lasciatemi finire…, o io me ne vado nella cabina coi ferri alle mani e anche ai piedi, se volete mettermeli.

– Lasciamo correre adunque e vediamo cos’ha da fare quell’ufficiale piagnucolone colle sirene, – disse il capitano.

– Dunque, – riprese il mastro, – sono rimasto quando l’ufficiale mi rivolse a bruciapelo quella stravagante domanda.

– Rimasi imbarazzato, tanto ero lontano dall’attendermi una simile interrogazione, e non riuscii che a borbottare tre o quattro parole, che certo egli non comprese, poiché nemmeno io sapevo quello che dicessi.

– Avesse capito un no, o un sì, l’ufficiale continuò, coll’aria di un uomo che non ha tutto il cervello solidamente incastrato nella zucca:

– «Dimmi tu se io posso essere felice nel trovarmi così lontano da lei! E forse non la rivedrò più mai, forse morrà per me, e anch’io, lo sento, finirò presto questa esistenza tormentosa».

– Io non sapevo cosa rispondere; giravo e rigiravo le dita nel mio berretto e non vedevo il momento di darmela a gambe. Non m’intendevo io di simili cose… E poi… come mai gli era saltato in capo di prendermi per suo confidente?

– Continuò così a parlare un bel pezzo della sua donna, senza che io comprendessi gran che, avendo in quel momento nel cervello altro da pensare e indosso una certa vergogna che non saprei spiegarvi. Quando il cielo volle, mi lasciò libero, e vi potete immaginare con quanta lestezza sgattaiolai sul ponte.

– Per quindici giorni non misi più piede nella sua cabina per paura che mi facesse qualche altra simile domanda o che mi riparlasse della sua infelicità e della sua donna. Egli d’altronde non mi mandò più a chiamare e non comparve che rade volte sul ponte.

– Era però sempre abbattuto, pallido, triste, e nei suoi occhi brillava una strana fiamma. Vi confesso che mi faceva paura tutte le volte che mi fissava: c’era qualche cosa di sinistro in quelle pupille; e per quanto chiudessi gli occhi, me le vedevo balenare sempre dinanzi, e le vedevo anche alla notte luccicar in fondo alla mia branda o negli angoli più oscuri della mia piccola cabina, sotto le sedie, sull’orlo del tavolo o sulle pareti.

– Io incominciavo davvero a temere che quell’uomo mi avesse affascinato, o comunicato la sua pazzia; poiché io lo ritenevo un vero pazzo…

Papà Catrame s’interruppe, guardandoci, e fosse l’impressione o altro, anche nei suoi occhi vedemmo in quel momento balenare un lampo simile a quello che egli scorgeva negli occhi del misterioso ufficialetto. Era un baleno d’una tinta indefinibile, che ci metteva indosso un certo malessere. Si sarebbe detto che ci affascinava!…

 

A poco a poco però quel lampo si spense, il vecchio fece una mossa brusca come per risvegliarsi e continuò la sua curiosa storia, ma con voce stanca, spossata:

– Una sera, mentre mi trovavo nella stiva ritirando certe gomene che dovevano servire pel ricambio d’un paterazzo, mi sentii improvvisamente battere sulla spalla.

– Mi volsi e nella semioscurità vidi quei due occhi che mi guardavano con un’ostinata fissazione. Non scorgendo di primo colpo l’ufficialetto, mi sentii prendere da un vivo terrore e lasciai cadere le gomene per fuggire; ma una mano di ferro mi trattenne violentemente, mentre una voce mi sussurrava agli orecchi:

– «L’ho veduta!…»

– M’alzai di scatto, e mi trovai dinanzi all’ufficiale, al pazzo.

– «Chi?» – chiesi coi denti stretti.

– «Lei!…»

– Non so chi mi trattenne dal rispondergli male. Ero arcistucco di quel pazzo da catena, tanto più che cominciava a farmi paura.

– Vedendo che io rimanevo impalato dinanzi a lui senza parlare, mi ripeté con una intonazione pazza:

– «Ti ho detto che l’ho veduta».

– «Ebbene?» – chiesi, alzando le spalle.

– «Era bella, sai?»

– «Ne ho piacere».

– «E mi ha detto che mi vuole sempre bene».

– «Tanto meglio».

– «E che tornerà a trovarmi».

– «Buon segno».

– «Vieni a bere nella mia cabina: ti parlerò di lei».

– Mi sono sentito imperlare la fronte d’un freddo sudore a quella proposta, non perché mi dispiacesse il bere, anzi tutt’altro: ma trovarmi solo con quel pazzo! ciò non mi andava a sangue.

– Gli risposi che ero di quarto e che dovevo conferire col capitano; che perciò per quella sera mi dispensasse dal tenergli compagnia. Non attesi nemmeno la sua risposta e salii più che in fretta sul ponte, mandando un altro marinaio a compiere l’operazione delle gomene, temendo di ritrovare ancora il pazzo.

– L’indomani mi mandò a chiamare, ma mi guardai bene di andare nella sua cabina e gli feci dire che ero ammalato. Non so se credesse alla mia malattia, o si fosse accorto che io non volevo più saperne di lui: mi ricordo che mi lasciò tranquillo, e io fui contentissimo, e lo sarei stato di più se si fosse dimenticato di me.

– Quando però lo vedevo apparire in coperta, fuggivo più che in fretta e andavo a nascondermi nel pozzo delle catene, onde non potesse trovarmi.

– Egli, non vedendomi, domandava di me; ed i miei camerati, che sapevano ogni cosa, gli rispondevano sempre che ero ammalato od occupato in qualche importante lavoro per ordine espresso del capitano. L’ufficiale allora sospirava lungamente e tornava nella sua cabina più cupo che mai.

– Eravamo giunti presso le coste australiane, anzi già le avevamo scorte durante il giorno, quando una sera mi imbattei in quel maniaco. Vi assicuro che passai un brutto quarto d’ora, quantunque sia stato l’ultimo.

– Mi trovavo seduto a poppa, dietro la ruota del timone, attendendo la fine del mio quarto di guardia per andarmene a dormire. Ora che mi ricordo, appunto quella sera la fregata aveva imboccato lo stretto di Bass, larghissimo canale che divide la costa australiana dall’isola di Van Diemen, ed eravamo a poche miglia dall’isola di King.

– Avevo socchiuso gli occhi e stavo per addormentarmi, quando mi sentii toccare in fronte da una mano gelida. Alzai bruscamente il capo, e vidi dinanzi a me l’ufficiale, cogli occhi strabuzzati, il viso più terreo del solito, i capelli irti.

– «Cosa volete?» – chiesi preparando le gambe per fuggire.

– «Là!… là!…» – esclamò egli con voce strozzata, indicandomi la scia spumeggiante della nave.

– «Cosa vedete?» – gli chiesi.

– «Lei!…»

– «In mare? Eh via, signore, voi sognate».

– «No, Catrame!» – esclamò egli. – «L’ho veduta!…»

– Quantunque non credessi un ette a quello che mi diceva, mi curvai sul bordo e guardai attentamente nella scia; ma nulla vidi, nemmeno la testa di un pescecane.

– «Calmatevi», – gli dissi, vedendolo in preda a una viva eccitazione. – «Non vi è nulla in mare».

– «Ma sì», – riprese con sovrumana energia. – «Ti dico che l’ho veduta là, in mezzo alla spuma».

– «Sarà stato uno scherzo dei vostri occhi».

– Egli non rispose; si era slanciato innanzi come un vero pazzo, sporgendosi mezzo fuor dal bordo, e guardava fissamente con quegli occhi che mandavano strani bagliori.

– «Guardala!… guardala come è bella!» – ripeté.

– Guardai, più spinto dal desiderio di accontentarlo che dalla curiosità. Ebbene,… voi non mi crederete, eppure vidi sorgere in mezzo alla scia della nave, fra la candida spuma, una testa!… Faceva buio, è vero, ma la spuma era bianca, quasi fosforescente, e quella testa spiccava nettamente!… L’ho veduta due volte emergere, poi sparire, e giurerei di aver udito un suono, una voce che mi parve umana.

– Se mi chiedeste se era bella o brutta, se era bionda o bruna, non ve lo saprei dire, poiché lo stupore che provai era così forte da impedirmi di veder bene; ma avevo visto una testa umana: di questo sono certo…

Un beffardo scroscio di risa interruppe papà Catrame: era il capitano che si burlava di lui.

Il vecchio alzò le spalle e continuò:

– Rimasi parecchi minuti come pietrificato, dinanzi a quella inaspettata visione. L’ufficiale mi strappò da quello stupore pauroso, dicendomi:

– «L’hai veduta?»

– Non seppi dir di no e fu male, poiché, appena ebbi fatto quel cenno affermativo, il povero pazzo superò d’un balzo la murata e si slanciò a capofitto in mare, gridando:

– «Eccomi, Manuelita!…»

– Gettai un grido di terrore, e con un colpo di coltello lasciai cadere un gavitello. Il capitano, subito informato, comandò di virare di bordo e di mettere in mare le imbarcazioni.

– Tornammo sul luogo; ma tutte le nostre ricerche furono vane: il povero pazzo non ricomparve più mai alla superficie!…

– Era stato proprio affascinato da una sirena? – chiesero i mozzi.

– Chi può dirlo? – rispose papà Catrame. – Io non ho potuto vederla bene, essendo la notte oscura; ma… forse i nostri vecchi non hanno inventato le sirene!

Il capitano fece ancora udire il suo riso beffardo.

– Sai cos’era quella testa, papà Catrame? – disse poi.

– Non lo so, – rispose il mastro, bruscamente.

– Era quella di una foca!

– Sarà, ma non lo credo.

Sì, papà Catrame, era una foca dello stretto di Bass; e aggiungerò, per meglio convincerti, che in quel braccio di mare sono numerose quanto le tinche dei nostri stagni e che di notte si può scambiare la loro testa rotonda con quella di una creatura umana. Sei persuaso?

Il mastro non rispose né sì, né no, ma ci lasciò, brontolando più del solito.

Il serpente marino

Anche la nona sera, mastro Catrame fu puntuale come il cronometro di bordo. Battevano le otto quando si vide il suo berretto, vecchio di almeno mezzo secolo, spuntare dal boccaporto, poi apparire quel lungo corpo magro, ma ancora robusto.

Si spinse fino a prua per osservare lo stato del mare e del cielo, fece bracciare la vela di parrocchetto onde prendesse più vento, diede uno sguardo alla bussola per accertarsi dell’esattezza della ruota, poi accese la sua pipa e andò a sedersi al suo solito posto, sul trono, come diceva scherzando l’equipaggio.

Pochi istanti dopo, tutto l’uditorio era a lui d’intorno, poiché la curiosità non scemava, anzi cresceva ogni sera, e tutti avrebbero voluto che il capitano prolungasse ad altri giorni ancora la pena del povero vecchio, quantunque certe volte avesse narrato delle storie così lugubri da sconvolgere il sangue a più d’uno e mettere indosso a tutti delle brutte paure.

Papà Catrame doveva, durante il giorno, aver già pensata e preparata la sua novella, poiché, appena seduto, senza preamboli e senza farci attendere, come era solito, disse:

– Vi narrerò questa sera l’incontro da me fatto d’un mostro spaventevole, di cui si sono occupati a lungo i così detti scienziati, alcuni affermandone l’esistenza e altri negandola spudoratamente. Non intendo parlare di uno di quei mostri immensi che i popoli nordici chiamano kraken, né di quello segnalato da Olaus Magnus, vescovo di Upsala, e che si disse avesse un miglio di lunghezza e somigliasse più a un’isola che a un pesce; né di quell’altro veduto da un prete scandinavo e sul cui corpo celebrò la santa messa, avendolo scambiato per una roccia. No: papà Catrame è più ragionevole di quello che sembra, né è poi tanto credenzone quanto lo giudica il signor capitano, e a frottole così colossali non presta fede.

– Non dico che quei due santi uomini non possono aver veduto dei mostri enormi, forse simili a quello incontrato dal comandante dell’avviso a vapore Alecto, fra Madera e le isole Canarie, or son pochi anni, e di cui si conserva ancora un pezzo di coda o di braccio a Santa Croce di Tenerife; quello era un polipo, grandissimo sì, ma non tale da scambiarlo per un’isola. Lasciamo però andare questi kraken delle leggende nordiche e occupiamoci del mio mostro.

– L’hai proprio veduto tu? – gli chiese il capitano, che prestava una profonda attenzione.

– Coi miei occhi.

– Di giorno?

– Di notte: c’era però la luna e ci si vedeva abbastanza bene.

– Allora cominciano a nascermi dei dubbi.

– E quali, se è permesso conoscerli? – chiese il vecchio con tono risentito.

– Te li dirò più tardi; ora prosegui perché non sappiamo ancora di quale mostro tu intenda parlare.

– Ebbene, avete mai udito parlare del serpente marino?

– Sì, sì, – esclamarono tutti.

– Credete alla sua esistenza?

Nessuno rispose; tutti ci guardammo l’un l’altro in viso, non sapendo dire né sì, né no; ma sono certo che i più inclinati al meraviglioso, come tutti i marinai, avrebbero risposto in modo affermativo, piuttosto che negativamente.

– Forse non credete, – riprese papà Catrame; – ma avete torto, poiché, ve lo ripeto, l’ho veduto io coi miei occhi. Come dissi, l’esistenza di questo mostruoso serpente fu messa lungamente in dubbio anche dai più vecchi marinai; però alcuni affermarono, in epoche diverse, di averlo incontrato. Le opinioni loro naturalmente sono disparate: altri dicevano che era lungo più di mille metri, altri cinquecento: altri riducevano la misura a più modeste proporzioni, a cento, a cinquanta; non però a meno.

– Chi dice che è dotato di una forza così potente da stritolare fra le sue spire un vascello; chi invece essere gelatinoso come i polipi e senza consistenza; alcuni narrano di essere stati assaliti e altri di averlo invece veduto fuggire, appena s’accorse di essere stato scoperto. L’equipaggio di una nave danese affermò di averne tagliato a mezzo uno con un colpo di sperone e che le due parti perdettero tanto sangue da arrossare il mare per un tratto di mille metri quadrati.

– Bum! – esclamò il capitano. – Aveva una cantina nel corpo quel serpente?

– Non ne so più di voi, – rispose serio serio papà Catrame. – Quanto a me, non presto che una fede molto relativa a tutti questi racconti. Ora lasciatemi proseguire e non m’interrompete, se desiderate che me la sbrighi presto, poiché sento che la mia lingua s’ingrossa con questo faticoso esercizio, e se non mi affretto a dire, finirò di perderla.

– Navigavo da circa tre anni a bordo di un barco maltese, che faceva dei lunghi viaggi in America, nell’Estremo Oriente e anche nel grande Oceano Pacifico; un buon veliero, forse il migliore che io abbia montato in tanti anni di navigazione, e comandato dal più amabile capitano che abbia conosciuto.

– Durante questo lungo tempo nulla di straordinario era accaduto. Navigavamo come tranquilli passeggeri che vanno a diporto pel mondo, anziché come poveri marinai, e mangiando bene e bevendo meglio, senza mai aver incontrata una di quelle formidabili tempeste che fanno rizzare i capelli ai più coraggiosi e stringere il cuore anche a chi non è alle prime sue armi.

– Il capitano, che era un epulone e anche un mattacchione, offriva di quando in quando dei banchetti al suo equipaggio, o delle bicchierate memorabili che facevano dei grandi vuoti nella sua cantina. Quando poi il tempo era tranquillo e la notte illuminata dalla luna, non mancava mai d’improvvisare delle feste da ballo fra l’albero di trinchetto e quello di mezzana.

– Un giorno, mentre ci disponevamo a lasciare l’isola di Tonga, che fa parte, anzi è la principale, del gruppo omonimo, un capo indigeno, a cui avevamo fatto dei regali, ci mandò a bordo due granchi ladri.

 

– Cosa sono i granchi ladri? – chiedemmo tutti, eccettuato il capitano, il quale senza dubbio sapeva cos’erano.

– Ve lo dico subito in quattro parole, – rispose il mastro. – Sono dei granchi grossi assai, con delle morse così potenti che spaccano una noce di cocco colla massima facilità. Vivono in grande numero nelle isole dell’Oceano Pacifico, presso alle spiagge, onde essere più vicini agli alberi di cocco, sui tronchi dei quali si arrampicano per mangiare le frutta.

– Gli isolani sono ghiotti della loro carne e li cercano avidamente; se poi sia eccellente o no io lo ignoro, non avendone mai assaggiata.

– Ma, – disse il capitano, – cosa c’entrano qui i birgus latro (questo è il vero nome di quei granchi) col serpente di mare? Tu divaghi, papà Catrame.

– C’entrano per qualche cosa, signore, – rispose il mastro, – poiché furono quei due granchi a chiamare sul nostro veliero le disgrazie.

– E come mai?

– Io non lo so; il cuoco di bordo mi disse con tutta serietà che quelle bestie portano sfortuna e non si è ingannato, poiché dopo la loro comparsa cominciarono tempeste, disgrazie e facemmo l’incontro del serpente di mare.

– Oh! diamine! – esclamò il capitano, schiattando dalle risa.

– Lo vedrete fra poco, – rispose il mastro sempre serio e grave. – Passo sopra alle tempeste che ci assalirono poco dopo, ai due o tre marinai che si ruppero le braccia e le gambe sempre per colpa di quei granchi che ci avevano attirato addosso l’ira del re del mare (tal è almeno la mia convinzione, poiché si dice fra gl’isolani, che siano quei crostacei i suoi favoriti), e vengo al punto più interessante.

– Se ben mi ricordo, stavamo attraversando quel tratto di oceano che si estende fra le isole dell’arcipelago di Mendaña e la costa d’America, quando una sera, mentre stavamo danzando e bevendo in buona allegria, si verificò un fenomeno che non solamente ci sorprese, ma ci spaventò assai.

– Il nostro legno filava quattro o cinque nodi all’ora, spinto da buon vento largo, quando a poco a poco rallentò la corsa, finché rimase quasi immobile sul tranquillo mare!

– Dapprima credemmo che il vento fosse improvvisamente cessato, ma i mostravento spiegati sulla cima degli alberi indicavano il contrario, e poi le vele erano sempre gonfie, segno evidente che tiravano ancora. Meravigliati d’un tal fatto, che per noi tutti era inesplicabile, ci precipitammo verso prua per vedere se qualche ostacolo si opponeva alla corsa del nostro legno: nulla appariva.

– Gettammo la sonda per vedere se vi era qualche banco, ma lo scandaglio non toccò fondo, quantunque fosse sceso a quattrocentocinquanta braccia. Guardammo a poppa, temendo che qualche mostro si fosse aggrappato al timone, e nulla si vide che potesse convalidare il nostro sospetto.

– Nessuno sapeva spiegare quello strano e sorprendente fenomeno. Alcuni dicevano che qualche grande polipo si era attaccato alla nostra chiglia e ci aveva fermati; altri dicevano che forse il mare era in quel punto così denso da impedirci di avanzare e che per conseguenza dovevamo virare di bordo; ma erano sciocchezze a cui nessuno prestava fede.

– Il nostro barco rimase quasi immobile per un buon quarto d’ora, poi tutto d’un tratto si mise a veleggiare colla primiera velocità. Però, allorché si mosse, vedemmo a poppa il mare gonfiarsi e ribollire, e un marinaio assicurò di aver veduto qualche cosa di nerastro agitarsi fra la spuma, come un braccio smisurato o un immenso cilindro.

– Ci aveva fermati qualche mostro marino di nuova specie, e non altro. Per quella sera però nulla potemmo sapere.

– Durante tutta la notte l’intero equipaggio vegliò sul ponte, giacché nessuno pensava a dormire, e parecchi uomini si tennero armati di ramponi e di carabine. Nulla accadde, fino verso le due del mattino. Allora, un gabbiere che si era arrampicato sulla crocetta dell’albero di trinchetto, asserì di aver veduto, appena un miglio sottovento, un cono ergersi dal mare, simile ad una tromba marina. Non ho potuto constatare il fatto coi miei occhi: ma mi sembra tuttavia che potesse essere una tromba, giacché il vento era leggero, l’oceano tranquillo o quasi, e il cielo sgombro di ogni nube.

– Verso l’alba però vidi il mare sollevarsi sotto la poppa del nostro legno e intesi distintamente una specie di fischio, poco meno acuto di quello che ordinariamente emettono i serpenti.

– Questo nuovo fenomeno ci spaventò e anche il nostro capitano cominciò a impensierirsi, tanto più che si sospettava la presenza d’un mostro marino.

– Virammo di bordo cambiando rotta, colla speranza di fargli perdere le nostre tracce, ed infatti il nostro barco filò verso nord senza incidenti durante tutta la giornata. Già ci rallegravamo di essere scampati a quel misterioso pericolo, quando, due ore dopo calato il sole, ecco la nostra nave a poco a poco arrestarsi e poi oscillare abbastanza fortemente da bordo a tribordo.

– Il nostro stupore si cambiò in una vera paura da non potersi descrivere. Dal capitano all’ultimo mozzo erano tutti pallidi ed io tremavo più degli altri.

– Guardammo tutto intorno alla nostra nave, ma nulla appariva a fior d’acqua. Eppure il rollio continuava e tanto che credemmo di venire da un istante all’altro gettati in mare e subissati.

– L’oscurità accresceva la nostra paura: il cielo si era coperto e la luna e le stelle non proiettavano sulla nera superficie dell’oceano nessun chiarore che permettesse di distinguere alcuna cosa con precisione.

– Più tardi, la nostra attenzione venne attirata da un potente fischio che veniva dal largo. Corremmo tutti a prua stringendo le armi, credendoci assaliti dal misterioso mostro che ci seguiva con tanta ostinazione.

– Là, a sole due gomene da prua, un mostro enorme, che non si poteva ben distinguere in causa dell’oscurità, navigava in modo da tagliarci il passo, ruttando una specie di nebbia o di fumo.

– Si teneva quasi tutto sommerso; ma dietro alla sua testa che poteva essere lunga venti metri, vedevamo distendersi sul mare un corpo lungo lungo, serpeggiante, che si perdeva verso il Nord. Non so quanto misurasse tutto intero poiché, come dissi, la notte era oscura; ma io non esito ad affermare che superava un miglio.

– «Virate di bordo!» – tuonò il capitano con voce strozzata per l’emozione.

– Non so come, in meno di venti secondi la manovra fu eseguita e il nostro legno fuggì verso il Nord; ma percorse sei o sette gomene, si trovò dinanzi alla coda del mostro che fu tagliata nettamente per metà e con una facilità tale che nessuno di noi s’accorse del menomo urto!…

– Era di burro quel serpente? – chiese il nostro capitano, guardando con aria ironica mastro Catrame.

– Di burro!… Vi basti sapere che al mattino trovammo nella sentina un piede d’acqua entrata da due fori perfettamente regolari, del diametro di quindici o venti centimetri, aperti uno a babordo, un po’ sopra il paramezzale, e l’altro a poppa. Ditemi che specie di denti aveva quel serpente di burro.

– E siete andati a picco? – chiedemmo.

– No, – rispose papà Catrame. – Ci riuscì facile chiudere quei due fori e asciugare la stiva col mezzo delle pompe; ma tale fu lo spavento provato da quell’incontro, che parecchi marinai si ammalarono.

– Io sarò un credulone, ma dico che, se quei due granchi non fossero stati a bordo, chissà, il re degli abissi marini non ci avrebbe mandato addosso quel formidabile serpente, la cui esistenza molti mettono in dubbio.

Ciò detto, il vecchio scese dal barile e fece per andarsene; ma il capitano, che da qualche minuto era diventato pensieroso, lo fermò con un gesto.

– Una spiegazione? – chiese il vecchio, aggrottando la fronte.

– Forse.

– Non credereste a ciò che vi ho narrato?

– Non credo al tuo serpente, il quale non esiste che nel cervello degli ignoranti.

Mastro Catrame alzò il suo curvo dorso, puntò le mani sui fianchi guardò il suo eterno contraddittore con un’aria di sfida.

– Che fossimo tutti ciechi! – esclamò. – Spiegate voi adunque questo fenomeno!

– Sì, – disse il capitano, come parlando fra se stesso, – deve essere così… ne sono certo… Ebbene, – riprese poi ad alta voce e sostenendo serenamente lo sguardo fosco del vecchio, – ti spiegherò io tutto.