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Le novelle marinaresche di mastro Catrame

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La croce di Salomone

Alla quarta novella di mastro Catrame, nessun uomo dell’equipaggio si fece vivo. Tutti avevano paura delle funebri leggende di quel vecchio, tremavano ad ogni rumore che si udiva nel fondo della stiva, paventando la comparsa dei fantasmi del Caronte; impallidivano se una nave qualunque passasse all’orizzonte, nel pensiero che fosse quella dell’olandese maledetto, e trasalivano ogni volta che le onde muggivano più forte contro i fianchi del vascello, credendo di udire la campana dell’inglese o di veder comparire il re del mare.



Ne avevano fin troppo di quelle leggende, e se papà Catrame continuava su quel tono, molto probabilmente nessuno sarebbe più rimasto a bordo, appena la nave avesse toccato i porti dell’India.



Quella sera papà Catrame rimase un bel pezzo solo, seduto sul barile; ma egli non parve inquietarsi di ciò. Trasse di tasca un largo foglio di carta, prese un pezzo di carbone, scrisse alcune righe con un carattere zoppo e gobbo, ed appiccicò quella specie di cartello sull’albero di maestra.



Ciò fatto, tornò al suo barile, si accomodò meglio che poté e, accesa la vecchia sua pipa, si mise a fumare come un turco.



Tutti avevamo notato la singolare manovra del vecchio e, spinti da una irresistibile curiosità, ci avvicinammo all’albero per vedere cosa stava scritto sul foglio.



Ci volle non poca fatica a decifrare quegli sgorbi, poiché mastro Catrame scriveva come un marinaio, facendo certe aste grosse e certe code che non si sapeva dove andavano a terminare. Alla fine però riuscimmo a leggere fra la più alta meraviglia la seguente bizzarra dicitura: «Come una croce di Salomone facesse diventare mastro Catrame re di un’isola!»



– Cosa significa quella roba li? – chiese un gabbiere.



– Perbacco! – esclamò il capitano. – È il titolo della novella di stasera.



– Come! Papà Catrame è stato re?… – esclamarono tutti.



– Lo dice lui.



– Che storia è mai questa?



– E c’entra una croce di Salomone!



– Papà Catrame è impazzito!



– L’inglese gli ha tirato le gambe e la paura gli ha sconvolto il cervello.



– Silenzio! – esclamò il capitano con tono imperioso. – Non si giudicano le persone prima dei fatti… Marche! Andiamo a udire la novella del vecchio lupo!…



Quando papà Catrame ci vide tutti intorno seduti dinanzi al suo barile, ci guardò con un sorriso di compiacenza e si stropicciò allegramente le mani. Senza dubbio era contento della sua trovata originale per farci accorrere.



– Tu, papà Catrame, ci prometti stasera una storia meravigliosa – disse il capitano, – e pare che questa volta non c’entrino né vascelli fantasmi, né morti che suonano le campane. Se ci farai stare allegri ti prometto non una, ma sei bottiglie di vino di Spagna, di quello che fa andare in solluchero gli uomini della tua età.



– Sarò allegro, – rispose il mastro con un sorriso sardonico.



– Niente leggende dunque, stasera?



– La leggenda entra sempre nelle mie narrazioni.



Il capitano fece una smorfia di malcontento; ma papà Catrame lo rassicurò con un gesto.



– Se fosse una storia sinistra, non sarei qui a raccontarla, – disse. – Toccò a me; ma sebbene abbia corso un brutto pericolo e per poco non sia stato messo allo spiedo come un capretto, non è punto paurosa.



– Apri per bene il becco e canta, vecchio mio.



– Le trombe! – esclamò mastro Catrame. – Ecco un fenomeno che fa raddrizzare i capelli ai più vecchi e ai più audaci marinai, che fa impallidire i capitani e gli ufficiali e quasi morire di paura i passeggeri che si avventurano sull’oceano.



– Chi di noi non ha tremato di spavento all’avvicinarsi di quelle colonne d’acqua turbinose, che sconvolgono il mare, che abbattono quanto incontrano sul loro passo, che travolgono le navi più gigantesche, sollevandole come semplici pagliuzze, per poi cacciarle rotte capovolte in fondo agli abissi? Chi non…



– Olà! papà Catrame, – disse il capitano interrompendolo. – Cosa c’entrano le trombe colla croce di Salomone, il tuo regno e il tuo spiedo?



– Un po’ di pazienza, signore.



– Lascia le trombe marine e tira avanti, dunque. Tutti le conosciamo, perbacco!



– Voi forse avrete udito parlare del tremendo naufragio dell’Albert nell’Oceano Pacifico, parecchi anni or sono, al 14° di latitudine sud e al 204° di longitudine est.



– Lo udii narrare quando ero ragazzo, – rispose il capitano. – So che fu sollevato da una tromba marina e poi cacciato a fondo.



– Sapete per quale motivo si perdette?



– No! – esclamarono tutti.



– Per una croce di Salomone che il mastro di bordo non ebbe il tempo di fare.



– Oh! – esclamarono i marinai con tono incredulo, mentre il capitano rideva a crepapelle.



– Ascoltate e poi giudicate, – aggiunse mastro Catrame imperturbabilmente. – Come vi sarete già immaginato, io facevo parte dell’equipaggio dell’Albert, un grande veliero che batteva bandiera inglese e che era destinato al trasporto degli emigranti dal Celeste Impero nella California.



– Avevamo già attraversato quattro volte il grande oceano e, quantunque poche volte lo avessimo trovato degno di chiamarsi Pacifico, pure nulla di grave ci era mai toccato. Durante il quinto viaggio, nei pressi dell’arcipelago dei Navigatori, che si chiama anche di Samoa, ecco un furioso uragano assalire la nostra nave.



– Si lotta disperatamente per non venire trascinati verso una delle tante isole che ingombrano quel grande mare, sapendo che erano popolate da certi brutti musi color cioccolatta e regolizia, i quali hanno la brutta abitudine di cacciare nella pentola o di mettere allo spiedo quei disgraziati che il loro buon padre – l’oceano – spinge sulle loro spiagge. Tutti i nostri sforzi riescono vani. La nave traballa come un marinaio che ha bevuto tre bottiglie di rhum, si rovescia ora sul babordo ed ora sul tribordo, imbarcando vere montagne d’acqua; i suoi alberi oscillano come fossero per andare in pezzi; la prora, percossa sempre più furiosamente, comincia a fendersi, e l’oceano fa la sua comparsa nella stiva.



– Si poteva ancora sperare; ma no, ché il diavolo volle metterci anche lui la coda. Erano le quattro pomeridiane, non un minuto di più né di meno, quando vedemmo staccarsi dalla massa delle nubi una specie di cono. A poco a poco si allunga, si raccorcia, poi torna ad allungarsi, come se venisse attirato da una forza misteriosa.



– Sotto a quella specie di tromba il mare si alzava a spaventosa altezza, poi ricadeva, formando una specie di vortice, indi tornava ad alzarsi come se avesse una voglia matta di stringere la mano a quel pezzo di nube.



– Quel brutto gioco durava da dieci minuti, quando finalmente mare e nube si unirono. Ecco la tromba formata, ma quale tromba! Era una colonna grossa quanto un’isola; la nube aspirava il mare con furia estrema, il vento la portava con un moto rotatorio vertiginoso e la spingeva addosso a noi che non eravamo più in grado di evitarla, poiché il timone si era spezzato e tutte le nostre vele erano ridotte a pochi brandelli…



Papà Catrame si fermò per riprendere lena e per vuotare un altro bicchiere di Cipro; poi, guardandoci fissi, ci chiese bruscamente:



– Credete voi all’efficacia della croce di Salomone?



– Sì, – risposero alcuni.



– No, – dissero altri.



Il capitano invece si strinse nelle spalle e sorrise beffardamente.



– Allora dirò, a quelli che non credono, che non hanno mai provato a fare una croce di Salomone dinanzi a una tromba marina, poiché, se l’avessero fatta, avrebbero veduto la terribile colonna d’acqua rompersi all’istante, – disse mastro Catrame con un tono cattedratico. – Credete voi che i nostri vecchi non abbiano spezzato delle trombe, per insegnare a noi questo mezzo infallibile? Ora si dice che vi sia un altro mezzo. Ma che! È la croce che ci vuole, e ve lo dice papà Catrame!



– L’ho veduta fare non una, ma dieci, venti, cinquanta volte, e la tromba si è rotta sempre prima di giungere addosso alla nave, oppure ha girato al largo. Bastava che il più vecchio marinaio di bordo si recasse a poppa, tracciasse la magica croce o sul coronamento o sulla ribolla del timone e la colonna roteante si sfasciava.



– Ma basta; ripigliamo la narrazione, o non la finirò prima di domani mattina. Aspettate un po’!… ah sì! per mille boccaporti!… È proprio così: la tromba si avvicinava con rapidità vertiginosa e noi ci trovavamo nell’assoluta impossibilità di evitarla. Bisognava adunque tracciare subito la croce, o per noi era proprio finita.



– Il nostro mastro o bosmano, come lo chiamano i marinai d’oltre Manica, un vecchio di non so quanti anni, per la prima volta in vita sua perde la flemma e la rigidità della sua razza, e corre, anzi vola verso poppa per tracciare sul coronamento la magica croce. Ma anche in questo disgraziato viaggio, ecco messer Belzebù che ci mette la sua coda, e il povero bosmano scivola rompendosi la testa.



– La tromba, non più frenata dalla potenza misteriosa della croce, ci piomba addosso, ci investe, ci alza in aria. Se dovessi dirvi cosa ho veduto e provato in quel momento, vi giuro che non saprei farlo nemmeno oggi.



– Ho udito un frangersi di legnami, un laceramento di vele, poi fischi strani, muggiti orribili, e ho veduto turbinare la nave fra il mare e le nubi, in mezzo a una immensa colonna d’acqua. Mi sono sentito sollevare a prodigiosa altezza, poi mi sono trovato, non so ancora come, sotto le onde. Quando tornai a galla non vidi più né la tromba, né la nave, né i miei compagni; però tutto all’intorno galleggiavano, urtandosi furiosamente, pezzi di fasciame, pezzi d’alberi, antenne, casse, botti e non so quanti altri oggetti.



– La catastrofe era completa; l’Albert era stato inghiottito dalla tromba marina, dopo di essere stato disarticolato dalla violenza dell’acqua.



– Ero io l’unico superstite di quel tremendo naufragio, o qualche altro si trovava presso di me? Pel momento non riuscii a saperlo, poiché nessuna voce umana rispose alle mie disperate grida. Più tardi però, un anno o due dopo, appresi con gioia che parecchi miei compagni si erano miracolosamente salvati e fra loro anche quel disgraziato bosmano, unica causa della perdita dell’Albert. Ah! se quel malaugurato inglese non avesse avuto tanta fretta, forse sarei ancora a bordo di quel magnifico veliero e chissà con quale paga!…

 



Papà Catrame mandò un sospirone lungo quanto la gomena di un’ancora, che mise in allegria tutto l’uditorio, prese animo mandando giù una mezza bottiglia che il camerotto gli porgeva, si pulì le labbra col dorso della mano e continuò la narrazione.



– Vi confesso che avevo indosso una grande paura nel trovarmi solo sull’immenso oceano, in balìa delle onde che mi cacciavano in corpo non so quanti bicchieri d’acqua, facendomi sternutare come chi fiuta tabacco per la prima volta. E avevo maggior paura sapendo di trovarmi in paraggi abitati da non pochi di quei divoratori di marinai che si chiamano pescecani. Non volevo però morire prima di lottare e disputare la mia pelle alle onde, dibattendomi come il diavolo nell’acqua santa.



– Dopo di aver errato una buona mezz’ora, ora spinto innanzi, ora indietro, ed ora sballottato con molto poca gentilezza, raggiunsi finalmente un rottame dell’Albert. Era un pezzo della nostra cucina, la coperta se non m’inganno, e mi faceva molto comodo, tanto anzi che mi vi sdraiai sopra e, non lo crederete, mi addormentai d’un sonno così profondo che vi assicuro non mi avrebbe svegliato nemmeno la gran campana di Pechino.



– Figuratevi quale fu il mio stupore quando, riaperti gli occhi, mi trovai non più sul tetto della mia cucina, non più sull’oceano, ma mollemente disteso sopra la fresca erba, all’ombra di superbi alberi che avevano foglie lunghe un paio di metri, non so più se fossero cocchi artocarpi o areche; ma ciò poco conta.



– Mi levai a sedere credendomi lo zimbello d’un sogno, e solo allora mi accorsi che ero circondato da trenta o quaranta brutti musi, color del pepe e della cioccolatta, nudi come Adamo, cioè no, poiché portavano un anello infilato nel naso, e sul capo due o tre penne d’uccelli del paradiso.



– Vedendomi ancor vivo, quei furfanti sbarrarono certe bocche da mettere i brividi. Pareva che loro si aprisse mezza la testa d’un sol colpo, e mostravano certe file di denti da fare invidia a un coccodrillo. Ridevano come pazzi battendosi il ventre con ambe le mani, e si stropicciavano l’un l’altro il naso con tale energia da allungarlo mezzo palmo.



– Credetti di venire colto dalla febbre terzana, e ne avevo ben il motivo, non ignorando che quegli allegri messeri hanno la brutta abitudine di mangiare i naufraghi, e mi pareva di sentirmi precipitare in un pentolone a bollire colla salsa verde o di sentirmi passare attraverso il corpo un immane spiedo.



– Vi giuro che in quel momento mandai di cuore alla malora quel furfante di bosmano, causa unica di tutte le mie disgrazie, poiché se quella benedetta croce…



– Sappiamo il resto, papà Catrame, – interruppe il capitano. – Lascia lì la croce di Salomone e tira innanzi, che sono curioso di sapere come finì il tuo regno.



– Ripiglio il filo, – disse il mastro. – La mia paura durò pochi minuti, poiché colla più grande sorpresa vidi quei selvaggi, che a prima vista avevo scambiato per antropofaghi voracissimi, usarmi mille sorta di cortesie. Gli uni mi strofinavano le membra, gli altri mi rinfrescavano con certi ventagli di foglie o mi offrivano frutta o venivano a strofinare il loro naso contro il mio in segno di amicizia, usando gl’isolani del Pacifico salutarsi in questo bizzarro modo.



– Quando mi videro tranquillo e sazio, con cenni mi invitarono a seguirli e mi condussero in un grande villaggio, dalla cui popolazione venni accolto con grandi dimostrazioni di gioia. Colà mi posero in capo una corona di piume, mi passarono nel naso un anello di rame e mi condussero finalmente in una comoda capanna, facendomi capire che d’ora innanzi io ero il loro re!



– «Corbezzoli!» – esclamai. – «Mai marinaio fu così fortunato!»



– Più tardi però dovevo accorgermi che specie di fortuna era quella toccatami! Mi sento ancora venire i brividi, tutte le volte che ci penso.



– Ma non divaghiamo. Eccomi adunque re di quell’isola in causa di quella disgraziata croce. I miei sudditi si facevano in quattro per portarmi i prodotti più succulenti della terra e del mare. Nella mia capanna piovevano tutte le mattine pesci d’ogni specie, maialetti arrostiti con certe radici appetitose, frutta squisite e vasi ripieni d’una specie di birra assai piccante. Figuratevi se papà Catrame, che è sempre stato un gran divoratore, come lo sono in generale tutti i marinai, non approfittava di tanto ben di Dio! Mangiavo come un lupo tre colazioni al mattino, due pranzi nel pomeriggio e tre o anche quattro cene durante la notte. In capo ad un mese ero diventato tanto grasso che dovetti far allargare la porta della mia regale dimora e rifare quattro volte il mantello di tela di gelso regalatomi dal mio popolo.



– Non esito a credere che sarei diventato grosso come un elefante o per lo meno quanto un rinoceronte, se avessi continuato quella vita beata; ma così non doveva avvenire.



– Un bel mattino, anzi un brutto mattino, ricevo la visita di sei grandi dignitari, sei capi valorosi, ma anche maestri di gastronomia, a quanto seppi poi. Credetti che venissero a trovarmi per affari riguardanti il mio regno, anzi mi ero messo in capo l’idea che venissero a trattare il mio matrimonio con qualche bellezza color regolizia, onde la mia dinastia non si spegnesse con me; ma indovinate quale fu la mia meraviglia quando li vidi avvicinarsi con certe facce sospette, che tradivano un’ardente bramosia, ed esaminarmi con profonda attenzione, palpandomi le braccia e le cosce. Li udii discorrere tra di loro in una lingua che non conoscevo, poi mi fecero un profondo inchino e se ne andarono.



– Rimasi perplesso, non sapendo a cosa attribuire quella accurata visita. Credetti che i miei sudditi avessero paura che io non mangiassi abbastanza e che deperissi, sicché quel giorno feci sei colazioni, quattro pranzi e cinque cene. Ahimè! dovevano essere le ultime!



– Alla sera, mentre stavo digerendo tranquillamente la mia quinta cena, ecco tornare i sei visitatori accompagnati dal cuoco di corte e sottopormi ad un’altra minuziosa visita. Quand’ebbero terminato se ne andarono con un nuovo e più rispettoso inchino: mentre però uscivano, udii queste misteriose parole:



«È fissato per domani! Siamo intesi!»



– Cominciai a pensare seriamente. Cosa c’entrava il cuoco di corte? Quell’uomo non era un alto dignitario e avevo ben diritto di offendermi di quella mancanza di etichetta. E poi, a che intendevano di alludere con quel «a domani»? Diventai inquieto e andai a cercare il mio primo ministro.



– Lo trovai in cucina occupato a far pulire un pentolone così grande da contenere due uomini!…



– Potete immaginare se rimasi stupito. Come mai il mio primo ministro si occupava del vasellame di cucina?



– «Kara-Olo!» – esclamai con severo cipiglio. – «È così che voi curate gli affari dello Stato? Poffare! un ministro che fa lavorare i guatteri!… Vergognatevi, pezzo d’asino!…»



– «Maestà», diss’egli umilmente. – «Procuro che tutto sia pronto pel grande banchetto di domani».



– «Un banchetto?» – esclamai. – «Forse che il mio popolo intende di offrirmi un pranzo nazionale?»



– Questa volta fu Kara-Olo che mi guardò con sorpresa.



– «Ma siete voi che date il pranzo alla popolazione!» – esclamò.



– «Io!…»



– «Ma sì, maestà», – rispose candidamente il mio primo ministro. – «Siete abbastanza grasso, e stavo misurando questa pentola per assicurarmi se era capace di contenervi!…»



– Compresi tutto fin troppo! Si stava per mangiare il re, Catrame I! Era per questo che mi avevano portato tante e tante ghiottonerie! Rimasi un bel pezzo senza respirare e senza muovermi. Io scommetto che in quel momento dovevo essere bianco come un gabbiano e che, se mi avessero aperta una vena, non sarebbe uscita una sola goccia di sangue.



– Mi trascinai nel mio appartamento, bagnato da capo a piedi d’un gelido sudore. Non so quante ore rimasi accasciato sul mio trono. Quando tornai in me, la notte stava per andarsene, ma un silenzio assoluto regnava ancora nel mio villaggio. Avevo preso una risoluzione disperata.



– Presi un pennello tinto di nero e vergai, con mano abbastanza sicura, queste parole sulla parete della mia regale dimora:



RINUNCIO AL TRONO: MANGIATE IN MIA VECE IL MIO PRIMO MINISTRO. – CATRAME I



– Diedi un pugno alla mia corona, aprii il mio coltello da marinaio, che avevo gelosamente conservato, infilai la porta, attraversai il bosco e, giunto sulla riva del mare, balzai in una canoa, abbandonando senza rimpianto il mio regno e i miei sudditi.



– Otto giorni dopo venivo raccolto da un bastimento danese. La paura di venire raggiunto e messo a cuocere nella salsa verde e la fame m’avevano ridotto in così breve tempo a pelle ed ossa.



– Se i miei ex sudditi mi avessero veduto, non so di quanto si sarebbero allungati i loro nasi.



E così, – disse il capitano, – tu, papà Catrame, per una croce di Salomone non fatta sei diventato re. Bella fortuna, perbacco!…



– Tanto bella, signore, – rispose papà Catrame con gravità, – che vi avrei regalato la mia corona col massimo piacere.



– Sarei almeno diventato grasso.



– Per ingrassare poi i vostri sudditi. Buona notte: torno nella mia cala!…



– Un momento, Catrame.



– Desiderate, capitano?



– Darti un consiglio. Quando vedrai una tromba marina, lascia andare la croce di Salomone, che è stata inventata per gli sciocchi o per i superstiziosi, e fa’ sparare un colpo di cannone; senza palla, se così ti piace. Basterà la detonazione per romperla: te lo assicuro io. Buona notte, Catrame, primo ed ultimo!



I fantasmi dei mari del Nord

La quinta sera l’ex re dei selvaggi non comparve in coperta. Era risalito all’ora del pranzo, aveva divorato la sua razione con un appetito da vecchio pescecane, poi, vedendo che il mare era sempre tranquillo e il vento costante, si era rintanato, portando con sé una grossa provvista di biscotti e gli avanzi del pasto.



L’equipaggio, che ci prendeva gusto a quelle narrazioni più o meno fantastiche, si era radunato per tempo attorno al barile, disputandosi i primi posti; ma papà Catrame non si fece vivo. Era ammalato, oppure aveva alzato un po’ troppo il gomito? Non lo si poté sapere, poiché il vecchio orso mai ce lo disse, e il camerotto, che mandammo nella cala per vedere e saperci riferire qualche cosa, tornò in coperta con la faccia pesta da una ciabatta tiratagli contro.



Aspettammo fino alle nove, poi fino alle dieci, ma invano. Alcuni, malgrado il superstizioso terrore che ispirava quello strano vecchio e la brutta accoglienza toccata al camerotto, ardirono scendere in fondo alla stiva; ma non ci seppero dire altro che l’orso marino russava come un tasso, anzi come un contrabbasso scordato.



Il capitano, che voleva molto bene al suo mastro e che chiudeva uno e anche tutti e due gli occhi sulle originalità di lui, ordinò che per quella sera lo si lasciasse tranquillo.



– Avrà la lingua stanca, – diss’egli ridendo. – Perbacco! Ha parlato più in queste sere, che in tutta la sua vita.



Tutti obbedirono, ma un vivo malumore regnò a bordo e gli uomini di guardia si annoiarono mortalmente, specialmente quelli del primo quarto, che si erano abituati a passarlo dinanzi al barile del vecchio marinaio.



L’indomani papà Catrame riapparve in coperta all’ora del pasto; ma anche questa volta si portò via gli avanzi e andò a celarsi in fondo alla cala. Giunta la sera, non diede segno di vita.



– Ah! briccone! – esclamò il capitano. – Che il furbo creda di aver terminata la sua pena? Olà! Due uomini scendano nella cala e dicano al mastro che, se non viene a sciogliere la lingua, lo passo ai ferri per gli altri otto giorni. Andate!



Dieci minuti dopo papà Catrame era nuovamente seduto sul suo barile, circondato da tutto l’equipaggio, ansioso di udire la quinta novella.



Il mastro era di umore cattivo e certo aveva obbedito pel solo timore che il capitano facesse eseguire alla lettera la minaccia di passarlo ferri. Non dovevamo aspettarci quindi una allegra storiella; lo leggevamo negli occhi del narratore.



– È pronta la tua lingua? – chiese il capitano, assumendo un’aria arcigna.



Papà Catrame fece un gesto affermativo.



– Parla adunque!



Il mastro curvò la testa sul petto per concentrarsi, mentre attorno lui si faceva un religioso silenzio; frugò e rifrugò nel suo cervello alcuni minuti, poi socchiudendo gli occhi grigi ci chiese:

 



Avete mai fatto voi un viaggio nelle regioni polari?



Nessuno rispose, eccettuato il capitano che borbottò un sì.



– Comprendo, – riprese papà Catrame con ironia. – A nessuno di voi garba sfidare i freddi intensi del polo artico o antartico. Bei marinai, perbacco! Le costipazioni vi hanno fatto paura!… Là… là!… i marinai moderni tremano dinanzi ad un orso bianco e non osano affrontare i fantasmi polari!… I fantasmi del polo!… Ecco il titolo della mia quinta novella, e se non vi garba, buona notte a tutti e vado nella cala.



– Adagio, papà Catrame, – disse il capitano – Questa sera non andrai a dormire nella tua tana prima di averci narrata la quinta novella, a meno che tu non preferisca di dormire colle manette. Orsù, fantasmi o folletti, orsi o lupi, tira innanzi, ché tutti ti ascoltiamo. Ehi, camerotto, versa un buon bicchiere al nostro narratore e recagli una dozzina quei grossi sigari di Manilla, affinché cessi il broncio e ci mostri un viso un po’ più da cristiano. Diamine! Hai una cera da turco questa sera, mio caro orso marino.



Il vecchio mastro, che era di umore assai nero, si rabbonì un po’; vuotò con visibile soddisfazione l’eccellente Cipro del capitano, e diede fuoco a uno di quei deliziosi sigari, inghiottendo ed eruttando vere nubi di fumo.



– Il polo artico! – riprese egli. – Chi non si sente correre un brivido nell’avvicinarsi a quell’oceano misterioso, coperto di immensi campi di ghiaccio, scintillanti ai sanguigni riflessi dell’aurora boreale e coperti da quei pesanti e diacciati nebbioni, che pare si aprano a stento dinanzi all’affilato sperone delle navi? – È là, in quelle solitudini desolate, dove non cresce una pianta sulle gelide isole, che si stende una notte non interrotta di sei mesi; è di là che si staccano quegli immensi campi di ghiaccio che le correnti portano fino sulle coste della Norvegia e su quelle della Scozia e dell’Irlanda; là dove gelano il vino, il petrolio, l’acquavite, il cognac e perfino il mercurio, e non soltanto i nasi, ma le mani e i piedi ai disgraziati marinai che si avventurano fra quelle alte latitudini o spinti dall’avidità del guadagno o dall’amore per la scienza o dalla potente curiosità di sollevare il velo che si stende attorno a quel punto misterioso che si chiama polo; è là infine dove si vedono talvolta delle ombre giganti errare fra i nebbioni e le nevi, che appariscono animali immensi dalle forme strane e fantasmi enormi che passano a fianco delle navi e dinanzi agli occhi degli atterriti equipaggi; che si odono fra i fischi del vento boreale urla, muggiti orribili, scrosci spaventevoli che nessuno saprà mai da quali creature sono emessi, ma che le leggende dei popoli nordici attribuiscono ai maghi che circondano il punto misterioso, quel punto che costò la vita a tanti marinai di tutte le nazioni del mondo e che ora dormono il sonno eterno sotto i campi di ghiaccio, nel seno di quell’oceano spaventevole.



– Cospettaccio! – esclamò un giovane gabbiere. – Mi fate venire la pelle d’oca, papà Catrame! Che racconto lugubre!…



Il vecchio orso fece intendere un grugnito minaccioso e agitò nervosamente le braccia. Se il gabbiere fosse stato più vicino, avrebbe sentito quanto erano pesanti le sue mani.



– Asino! – brontolò il vecchio. – Se m’interrompi ancora, t’insegnerò io a rispettare il tuo mastro. O che! sono diventato io il tuo buffone forse?… Ventre di balena! Se…



– Ohè, papà Catrame, basta! – disse il capitano. – Questa sera pizzichi troppo. Ripiglia il filo; e voi… silenzio, o vi faccio fare un bagno.



L’imprudente gabbiere si ritirò lestamente dietro all’albero cogli occhi bassi; ma l’irascibile mastro brontolò due buoni minuti prima di riprendere la sua disgraziata narrazione.



– Dovete sapere adunque, che avevo preso imbarco su di un brigantino, il quale aveva per scopo di esplorare non so quali isole dell’Oceano Artico, onde rintracciare gli avanzi di due navi colà perdutesi assieme agli uomini che le montavano e ad un ammiraglio che le guidava verso il polo.



– Forse l’ammiraglio Franklin? – chiese il capitano, che era diventato assai attento.



– Mi pare che si chiamasse appu