Kostenlos

Le meraiglie del Duemila

Text
0
Kritiken
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

«Abbiamo camminato colle invenzioni, mio caro zio» disse Holker. «Ah! ecco il pranzo.»

Un sibilo acuto era sfuggito da una piccola fessura della mensola, poi una porticina si era aperta automaticamente all’estremità della lastra di metallo che si univa alla tavola e una piccola macchina, seguita da sei vagoncini di alluminio di forma cilindrica, s’avanzò, correndo su due incavi che servivano da rotaie.

«Il pranzo che manda l’albergo?» chiesero Toby e Brandok.

«Sì, signori, e con tutto il necessario. Come vedete è una cosa molto comoda che mi dispensa dall’avere una cuoca ed una cucina» rispose Holker.

Aprì il primo vagoncino che aveva una circonferenza di quaranta centimetri e una lunghezza uguale e levò dei bicchieri, delle posate, delle salviette e quattro bottiglie che dovevano contenere del vino o della birra. Dagli altri quattro estrasse successivamente dei piccoli recipienti contenenti del brodo ancora caldissimo, poi dei piatti con pasticci e vivande svariate, delle uova, dei liquori e così via. Tutto il necessario insomma per un pranzo abbondante.

Quand’ebbe terminato, premette un bottone, la porticina si aprì ed il minuscolo treno scomparve, retrocedendo colla velocità d’un lampo.

«Che cosa ne dite, signor Brandok?» chiese Holker.

«Che ai nostri tempi queste comodità mancavano assolutamente. E tornerà il treno?»

«Certo, per riprendere le stoviglie.»

«E come arriva qui?»

«Per mezzo d’un tubo, e cammina mosso da una piccola pila elettrica, d’una potenza tale però che le imprime una velocità di quasi cento chilometri all’ora. Queste vivande non sono state rinchiuse nei loro recipienti che da qualche minuto; infatti vedete che fumano, anzi scottano.»

«E l’albergatore come viene avvertito dal cliente di ciò che desidera?»

«Per mezzo del telefono. Al mattino il mio servo trasmette all’Hôtel il menù per il pranzo e per la cena e le ore in cui desidero mangiare, ed il treno giunge con precisione matematica.»

«Non tutti potranno permettersi un lusso simile» osservò il dottore Toby.

«Certo,» rispose Holker «ma quelli che non possono abbonarsi all’Hôtel se la sbrigano anche più presto.»

«A mangiare forse, non certo a prepararsi il pranzo.»

«Il lavoratore non fa più cucina in casa, non avendo tempo da perdere. Otto o dieci pillole, ed ecco inghiottito un buon brodo, il succo d’una mezza libbra di bue, o di pollo o di una libbra di maiale o di un paio d’uova, d’una tazza di caffè e così via. Cent’anni fa si perdeva troppo tempo; camminavate ed agivate colla lentezza delle tartarughe. Oggi invece si gareggia coll’elettricità. Mangiate, signori miei, o i cibi si raffredderanno. Una tazza di buon brodo, signor Brandok, prima di tutto, poi sceglierete quello che più vi piace. Vi avverto che è un pranzo a base di vegetali; ma queste pietanze non sono meno nutrienti, e non vi parranno meno saporite. Poi parleremo finché vorrete.»

LA LUCE ED IL CALORE FUTURO

Il dottor Holker aveva detto la verità. Il brodo era squisitissimo, ma nessuna pietanza era di carne di bue, di maiale e di montone. Solo dei pesci: tutti gli altri piatti si componevano di vegetali, fra cui molti che erano assolutamente sconosciuti a Toby ed a Brandok.

In compenso il vino era così eccellente che né l’uno né l’altro mai ne avevano gustato di simile.

«Signor Holker,» disse Brandok, che mangiava con un appetito invidiabile, come se si fosse svegliato solo da dieci o dodici ore «siete vegetariano voi?»

«Perché mi fate questa domanda?» chiese il lontano pronipote del dottore.

«Ai nostri tempi si parlava molto di vegetarianismo, specialmente in Germania ed in Inghilterra. Si vede che quella cucina ha fatto dei progressi.»

«Perché non trovate delle bistecche?»

«Sì, e mi stupisce come i moderni americani abbiano rinunciato alle succose bistecche ed ai sanguinanti roast beef.»

«Sono piatti diventati un po’ rari, oggi, mio caro, e pel semplice motivo che i buoi ed i montoni sono quasi scomparsi.»

«Ah!»

«Ve ne stupite?»

«Molto.»

«Mio caro signore, la popolazione del globo in questi cento anni è enormemente cresciuta, e non esistono più praterie per nutrire le grandi mandrie che esistevano ai vostri tempi. Tutti i terreni disponibili sono ora coltivati intensivamente per chiedere al suolo tutto quello che può dare. Se così non si fosse fatto, a quest’ora la popolazione del globo sarebbe alle prese colla fame. I grandi pascoli dell’Argentina e i nostri del Far-West non esistono più, ed i buoi ed i montoni a poco a poco sono quasi scomparsi, non rendendo le praterie in proporzione all’estensione. D’altronde non abbiamo più bisogno di carne al giorno d’oggi. I nostri chimici, in una semplice pillola dal peso di qualche grammo, fanno concentrare tutti gli elementi che prima si potevano ricavare da una buona libbra di ottimo bue.»

«E l’agricoltura come va senza buoi?»

«Anticaglie» disse Holker. «I nostri campagnoli non fanno uso che di macchine mosse dall’elettricità.»

«Sicché non vi sono più neanche cavalli?»

«A che cosa potrebbero servire? Ce ne sono ancora alcuni, conservati più per curiosità che per altro.»

«E gli eserciti non ne fanno più uso?» chiese il dottor Toby. «Ai nostri tempi tutte le nazioni ne avevano dei reggimenti.»

«E che cosa ne facevano?» chiese Holker, con aria ironica.

«Se ne servivano nelle guerre.»

«Eserciti! Cavalleria! Chi se ne ricorda ora?»

«Non vi sono più eserciti?» chiesero ad una voce Toby e Brandok.

«Da sessant’anni sono scomparsi, dopo che la guerra ha ucciso la guerra, l’ultima battaglia combattuta per mare e per terra fra le nazioni americane ed europee è stata terribile, spaventevole, ed è costata milioni di vite umane, senza vantaggio né per le une né per le altre potenze. Il massacro è stato tale da decidere le diverse nazioni del mondo ad abolire per sempre le guerre. E poi non sarebbero più possibili. Oggi noi possediamo degli esplosivi capaci di far saltare una città di qualche milione di abitanti; delle macchine che sollevano delle montagne; possiamo sprigionare, colla semplice pressione del dito, una scintilla elettrica trasmissibile a centinaia di miglia di distanza e far scoppiare qualsiasi deposito di polvere. Una guerra, al giorno d’oggi, segnerebbe la fine dell’umanità. La scienza ha vinto ormai su tutto e su tutti.»

«Eppure quest’oggi, appena svegliato, mi fu comunicata dal vostro giornale una notizia che smentirebbe quello che avete detto ora, mio caro nipote» disse Toby.

«Ah sì! La distruzione di Cadice da parte degli anarchici. Bazzecole! Ormai questi bricconi irrequieti saranno stati completamente distrutti dai pompieri di Malaga e di Alicante.»

«Dai pompieri?»

«Non abbiamo altre truppe al giorno d’oggi, e vi assicuro che sanno mantenere l’ordine in tutte le città e sedare qualunque tumulto. Mettono in batteria alcune pompe e rovesciano sui sediziosi torrenti d’acqua elettrizzata al massimo grado. Ogni goccia fulmina, e l’affare è sbrigato presto.»

«Un mezzo un po’ brutale, signor Holker, e anche inumano.»

«Se non si facesse così, le nazioni si vedrebbero costrette ad avere delle truppe per mantenere l’ordine. E del resto siamo in troppi in questo mondo, e se non troviamo il mezzo d’invadere qualche pianeta, non so come se la caveranno i nostri pronipoti fra altri cent’anni, a meno che non tornino, come i nostri antenati, all’antropofagia. La produzione della terra e dei mari non basterebbe a nutrire tutti, e questo è il grave problema che turba e preoccupa gli scienziati. Ah! se si potesse dar la scalata a Marte che ha invece una popolazione così scarsa e tante terre ancora incolte!»

«Come lo sapete voi?» chiese Toby, facendo un gesto di stupore.

«Dagli stessi martiani» rispose Holker.

«Dagli abitanti di quel pianeta!» esclamò Brandok.

«Ah, dimenticavo che ai vostri tempi non si era trovato ancora un mezzo per mettersi in relazione con quei bravi martiani.»

«Scherzate?»

«Ve lo dico sul serio, mio caro signor Brandok.»

«Voi comunicate con loro?»

«Ho anzi un carissimo amico lassù che mi dà spesso sue notizie.»

«Come avete fatto a mettervi in relazione coi martiani?»

«Ve lo dirò più tardi, quando avrete visitato la stazione elettrica di Brooklyn. Eh! Sono già quarant’anni che siamo in relazione coi martiani.»

«È incredibile!» esclamò il dottor Toby. «Quali meravigliose scoperte avete fatto voi in questi cent’anni!»

«Molte che vi faranno assai stupire, zio. Appena vi sarete completamente rimessi, vi proporrò di fare una corsa attraverso il mondo. In sette giorni saremo nuovamente a casa.»

«Il giro del mondo in una settimana!…»

«È naturale che ciò vi stupisca. Ai vostri tempi s’impiegavano quarantacinque o cinquanta giorni, se non m’inganno.»

«E ci sembrava d’aver raggiunto la massima velocità.»

«Delle tartarughe» disse Holker, ridendo. «Poi faremo anche una corsa al polo nord a visitare quella colonia.»

«Si va anche al polo, ora?»

«Bah!… è una semplice passeggiata.»

«Avete trovato il mezzo di distruggere i ghiacci che lo circondano?…»

«Niente affatto, anzi io credo che le calotte di ghiaccio che avvolgono i due confini della terra siano diventate più enormi di quello che erano cent’anni fa; eppure noi abbiamo trovato egualmente il mezzo di andare a visitarli e anche a popolarli. Vi abbiamo relegati là…»

Un sibilo acuto che sfuggì da un foro aperto sopra una mensola che si trovava in un angolo della stanza, gl’interruppe la frase.

«Ah, ecco la mia corrispondenza che arriva» disse Holker, alzandosi.

«Un’altra meraviglia!» esclamarono Toby e Brandok alzandosi.

«Una cosa semplicissima» rispose Holker. «Guardate, amici miei.»

 

Premette un bottone al disotto d’un quadro che rappresentava una battaglia navale. La figura scomparve, innalzandosi entro due scanalature, e lasciando un vano d’un mezzo metro quadrato. Dentro v’era un cilindro di metallo coperto di numeri segnati in nero, lungo sessanta o settanta centimetri, con una circonferenza di trenta o quaranta.

«Il mio numero d’abbonamento postale è il 1987» disse Holker. «Eccolo qui, e in un piccolo scompartimento sono state collocate le mie lettere.»

Mise un dito sul numero, s’aprì uno sportellino e trasse la sua corrispondenza, poi fece ridiscendere il quadro e premette un altro bottone.

«Ecco il cilindro ripartito» disse. «Va a distribuire la corrispondenza agli inquilini della casa.»

«Come è giunto qui quel cilindro?» chiese Brandok.

«Per mezzo d’un tubo comunicante coll’ufficio postale più vicino, e rimorchiato da una piccola macchina elettrica.»

«E come si ferma?»

«Dietro il quadro vi è uno strumento destinato ad interrompere la corrente elettrica. Appena il cilindro vi passa sopra, si ferma e non riparte se io prima non riattivo la corrente premendo quel bottone.»

«Vi è un cilindro per ogni casa?»

«Sì, signor Brandok; devo avvertirvi che le abitazioni moderne hanno venti o venticinque piani e che contengono dalle cinquecento alle mille famiglie.»

«La popolazione d’uno dei nostri antichi sobborghi» disse il dottore. «Non ci sono dunque più case piccole?»

«Il terreno è troppo prezioso oggidì, e quel lusso è stato bandito. Non si può sottrarre spazio all’agricoltura. Ma comincia a far buio; sarebbe tempo d’illuminare il mio salotto. Ai vostri tempi che cosa si accendeva alla sera?»

«Gas, petrolio, luce elettrica» disse Brandok.

«Povera gente» disse Holker. «E come doveva costar cara allora l’illuminazione!»

«Certo, signor Holker» disse Brandok. «Ora invece?»

«Abbiamo quasi gratis la luce ed il calore.»

Dal soffitto pendeva un’asta di ferro che finiva in una palla, composta d’un metallo azzurro.

Il signor Holker l’aprì facendola scorrere sopra l’asta e tosto una luce brillante, simile a quella che mandavano un tempo le lampade elettriche, si sprigionò, inondando il salotto.

Ciò che la produceva era una pallottolina appena visibile che si trovava infissa sotto la sfera, e la luce che tramandava, espandeva un dolce calore assai superiore a quello del gas.

«Che cos’è?» chiesero ad una voce Brandok e Toby.

«Un semplice pezzetto di radium» rispose Holker.

«Il radium!» esclamarono i due risuscitati.

«Si conosceva ai vostri tempi?»

«L’avevano già scoperto» rispose Toby. «Ma non si usava ancora a causa dell’enorme suo costo. Un grammo non si poteva avere a meno di tre o quattromila lire. E poi non s’era potuto trovare ancora il modo di applicarlo, come avete fatto ora voi. Tutti però gli predicevano un grande avvenire.»

«Quello che non hanno potuto fare i chimici del 1900 l’hanno fatto quelli del Duemila» disse Holker. «Quel pezzetto lì non vale che un dollaro e brucia sempre, senza mai consumarsi. È il fuoco eterno.»

«Meraviglioso metallo!…»

«Sì, meraviglioso, perché oltre a darci la luce, ci dà anche il calore. Ha detronizzato il carbon fossile, la luce elettrica, il gas, il petrolio, le stufe ed i camini.»

«Sicché anche le vie sono illuminate con lampade a radium?» chiese Toby.

«E anche gli stabilimenti, le officine e così via.»

«E nelle miniere di carbone non si lavora più?»

«A che cosa servirebbe il carbone? Poi cominciavano già ad esaurirsi.»

«La forza necessaria per far agire le macchine degli stabilimenti, chi ve la dà ora?»

«L’elettricità trasportata ormai a distanze enormi. Le nostre cascate del Niagara, per esempio, fanno lavorare delle macchine che si trovano a mille miglia di distanza. Se noi volessimo, potremmo dare di quelle forze anche all’Europa, mandandole attraverso l’Atlantico. Ma anche laggiù hanno costruito delle cascate sui loro fiumi e non hanno più bisogno di noi.»

«Amico James,» disse Toby «ti penti d’aver dormito cent’anni per poter vedere le meraviglie del Duemila?»

«Oh no!» esclamò vivamente il giovane.

«Credevi di veder il mondo così progredito?»

«Non mi aspettavo tanto.»

«E il tuo spleen?»

«Non lo provo più, tuttavia… non senti nulla tu?»

«Sì, un’agitazione strana, un’irritazione inesplicabile del sistema nervoso» disse Toby. «Mi sembra che i muscoli ballino sotto la mia pelle.»

«Anche a me» disse Brandok.

«Sapete da che cosa deriva?» chiese Holker.

«Non saprei indovinarlo» rispose Toby.

«Dall’immensa tensione elettrica che regna ormai in tutte le città del mondo ed a cui voi non siete ancora abituati. Cent’anni fa l’elettricità non aveva ancora raggiunto un grande sviluppo, mentre ora l’atmosfera ed il suolo ne sono saturi. Ma vi abituerete, ne son certo. E per oggi basta. Andate a riposare e domani mattina faremo una corsa attraverso Nuova York sul mio Condor.»

«È un’automobile?» chiese Brandok.

«Sì, ma di nuovo genere» rispose Holker, con un sorriso. «Cominceremo così il nostro viaggio attraverso il mondo.»

A BORDO DEL CONDOR

Era appena spuntata l’alba, quando Holker entrò nella stanza del suo antenato e del signor Brandok, gridando:

«In piedi miei cari amici!… Il mio Condor ci aspetta dinanzi alle finestre del salotto e l’hôtel ci ha già mandato il tè».

Non ci volevano che le parole «ci aspetta dinanzi alle finestre» per far balzare giù dal letto il dottore ed il suo compagno.

«L’automobile davanti alle finestre!» avevano esclamato, infilando i calzoni.

«Vi sorprendete?»

«A che piano siamo?» chiese Brandok.

«Al diciannovesimo. Si respira meglio in alto ed i rumori della via giungono appena.»

«Allora che automobile è la vostra, per salire a simile altezza?»

«Lo vedrete; sbrigatevi, amici, perché ho desiderio di condurvi stamane fino alle cascate del Niagara, per mostrarvi i colossali impianti elettrici che forniscono la forza a quasi tutti gli stabilimenti della Federazione. Prima andremo a vedere la stazione ultrapotente di Brooklyn, dovendo dare mie notizie al mio amico marziano. Quel brav’uomo deve essere un po’ inquieto pel mio lungo silenzio e saprà con piacere la notizia della vostra risurrezione.»

«Come!» esclamò Toby. «Tu lo avevi informato che un tuo antenato dormiva da cento anni?»

«Sì, zio» rispose Holker. «Ci facciamo di tratto in tratto delle confidenze, perché siamo legati da una profonda amicizia.»

«Senza esservi mai veduti?» esclamò Brandok.

«Dietro alcune mie indicazioni avrà scarabocchiato il mio ritratto.»

«E tu?» chiese Toby.

«Ho il suo.»

«Come sono dunque gli abitanti di Marte? Somigliano a noi?»

«Dalle descrizioni che abbiamo ricevuto da loro, non sono affatto simili a noi; tuttavia in fatto di civiltà e di scienza, sembra che non siano a noi inferiori. Figuratevi, zio, che hanno delle teste quattro volte più grosse delle nostre e che quindi, con un simile sviluppo di cervello, non devono essere più arretrati di noi.»

«Ed il corpo?»

«I martiani, da quanto abbiamo potuto comprendere, sono anfibi che rassomigliano alle foche, con braccia cortissime, che terminano con dieci dita, e piedi molto grandi e palmati.»

«Dei veri mostri, insomma!» esclamò Toby, che ascoltava con viva curiosità quei particolari.

«Non sembra infatti che siano troppo belli» rispose Holker. «Ma andiamo a prendere il tè, o lo troveremo freddo. Riparleremo dei martiani e del loro pianeta quando saremo alla stazione ultrapotente di Brooklyn.»

Lasciarono la stanza ed entrarono nel salotto. La piccola ferrovia con un solo vagoncino, stava ferma all’estremità della piastra di metallo. Non fu però quella che attrasse l’attenzione di Brandok e del dottore, bensì un’ombra gigantesca che si agitava dinanzi alle due ampie finestre.

«Che cos’è?» chiesero, slanciandosi innanzi.

«Il mio Condor» rispose tranquillamente Holker.

«Un pallone dirigibile?» chiese.

«No, signori, una macchina volante che funziona perfettamente, dotata d’una velocità straordinaria, tale da poter gareggiare colle rondini ed i colombi viaggiatori. Ve n’erano ai vostri tempi?»

«Qualche pallone dirigibile, sempre pericoloso» disse Toby.

«E siccome i palloni causavano troppe disgrazie, noi da cinquant’anni abbiamo abbandonato l’idrogeno per le ali. Prendiamo il tè, poi avrete il tempo di osservare il mio Condor e di vederlo manovrare.»

Strappò quasi per forza il dottore e Brandok dalle finestre e trasse dal vagoncino le tazze, la salvietta ed il recipiente contenente la profumata bevanda, nonché dei biscotti.

«Non siate troppo impazienti» disse. «Bisogna vedere le cose una alla volta o vi affaticherete troppo. Il tempo non ci manca.»

Bevettero il tè, bagnandovi qualche biscotto, poi Holker salì sul davanzale che era molto basso e mise i piedi sulla piattaforma della macchina volante su cui erano state collocate quattro comode poltroncine.

Harry, il negro gigante, stava dietro alla macchina, tenendo le mani su una piccola ruota che faceva agire due immensi timoni di forma triangolare, costruiti con una specie di tela lucidissima, montati sopra una leggera armatura di metallo.

Brandok e Toby si erano appena seduti, che il Condor s’innalzò subito obliquamente fino al di sopra delle immense case, descrivendo una serie di giri d’una precisione ammirabile. Quella macchina, inventata dagli scienziati del Duemila, era davvero stupefacente e, quello che è più, d’una semplicità straordinaria.

Non si componeva che di una piattaforma di metallo che pareva più leggero dell’alluminio, con quattro ali e due eliche collocate le une lateralmente alle altre, tutte di tela, con stecche d’acciaio e una piccola macchina che le faceva agire.

Il gas, come si vede, non vi entrava per nulla; la meccanica aveva trionfato sui palloni dirigibili del secolo precedente.

Toby ed il suo compagno guardavano con stupore quel congegno straordinario che si alzava e si abbassava e girava e rigirava come fosse un vero uccello.

Altri consimili ne volavano in gran numero sopra i tetti dei palazzi, gareggiando in velocità, per la maggior parte montati da signore che ridevano allegramente, e da fanciulli schiamazzanti.

Ve n’erano di tutte le dimensioni: di grandissimi che portavano perfino venti persone, e di piccolissimi, appena sufficienti per due; ed altri formati da sole due ali somiglianti a quelle dei pipistrelli, che reggevano una poltroncina montata da una sola persona e che pure manovravano con non minore precisione e rapidità degli altri.

In alto, in basso, s’incrociavano saluti e chiamate, poi la flottiglia aerea si disperdeva in tutte le direzioni, calando sulle vie, sulle piazze, sulle immense terrazze delle case o fermandosi dinanzi alle finestre od ai poggioli per imbarcare nuove persone. Brandok e Toby erano diventati muti, come se lo stupore avesse paralizzato loro la lingua.

«Non dite nulla, dunque?» chiese finalmente Holker. «Avete perduta la favella?»

«Io mi domando se sto sognando» disse Brandok. «È impossibile che tutto ciò sia realtà.»

«Mio caro Brandok, siamo nel Duemila.»

«Tutto quello che vorrete; eppure stento a persuadermi che il mondo, in soli cent’anni, sia così progredito. Trasformare gli uomini in uccelli! È incredibile!»

«E non vi è pericolo che queste macchine volanti cadano?» chiese Toby.

«Qualche volta succedono degli scontri; le ali si spezzano, le eliche si lacerano e allora guai a chi cade: eppure chi ci bada? Forse che ai vostri tempi non s’urtavano le vecchie ferrovie e le navi? Sono incidenti che non commuovono nessuno.»

«Che macchine sono quelle che fanno agire le ali?»

«Macchine elettriche di grande potenza. Come vi ho detto, in questi cent’anni l’elettricità ha fatto dei progressi stupefacenti.»

«E quale velocità potete imprimere a queste navi volanti?»

«Anche 150 chilometri all’ora.»

«Sicché avete abolito i treni ferroviari?» chiese Brandok.

«Oh no, mio caro signore, non son più quelli che si usavano ai vostri tempi, troppo lenti per noi, ma ne abbiamo ancora moltissimi. Capirete che queste macchine volanti non si possono caricare soverchiamente. Non servono che per divertirsi o per compiere delle piccole corse di piacere. E pei lunghi viaggi attraverso gli oceani anche» proseguì Holker. «Noi abbiamo dei veri vascelli aerei, che partono regolarmente da tutti i porti dell’Atlantico e del Pacifico e che in trentasei ore vi sbarcano in Inghilterra, ed in quaranta nel Giappone o nella Cina o nell’Australia.»

 

«Non vi sono più navi sui mari?»

«Oh sì, ne abbiamo ancora; ma non sono più quelle che si usavano nel secolo scorso. Ne vedrete molte quando attraverseremo l’Atlantico. Ho pensato anzi di lasciare alle cascate del Niagara il mio Condor e di condurvi a Quebec colla ferrovia canadese, per imbarcarvi poi di là per l’Europa.»

«Mio caro nipote,» disse Toby «tu trascuri i tuoi affari; suppongo che avrai qualche occupazione.»

«Sono medico nel grande ospedale di Brooklyn; per ora non si ha bisogno di me, avendo io due mesi di vacanza.»

«Anche tu dottore!» esclamò Toby.

«Che farà una ben meschina figura dinanzi all’uomo che ha fatto una così grande scoperta.»

«Ne sarai l’erede» disse Toby.

In quel momento il Condor si abbassò bruscamente su una vasta piazza brulicante di gente che pareva impazzita.

«Che cosa accade laggiù?» chiese Brandok, che si era curvato sul parapetto della piattaforma.

«È la piazza della Borsa» rispose Holker.

«Sembra che quegli uomini abbiano il fuoco addosso. Vanno e vengono quasi correndo.»

«E anche la gente che si affolla nelle vie vicine pare che cammini sui tizzoni» disse Toby. «Eppure non saranno borsisti quelli là.»

«Camminavano diversamente cent’anni fa?» chiese Holker, con una certa sorpresa.

«Erano molto più calmi gli uomini, mentre ora vedo che perfino le signore marciano a passo di corsa, come se avessero paura di perdere il treno.»

«Io ho sempre veduto, da quando son venuto al mondo, correre così frettolosamente.»

«Ah! Ora comprendo,» disse Toby. «È la grande tensione elettrica che agisce sui loro nervi. Il mondo è impazzito o quasi.»

«Harry,» disse Holker «muovi verso Brooklyn.»

Il Condor s’alzò d’un centinaio di metri e si slanciò verso l’est con una velocità di cinquanta chilometri all’ora.

Vie immense apparivano sotto agli aeronauti, se così si potevano chiamare, fiancheggiate da palazzi mostruosi di venti, venticinque e perfino di trenta piani, che dovevano contenere migliaia di famiglie ciascuno, la popolazione di un villaggio. Mille fragori salivano fino agli orecchi dei due risuscitati, prodotti chissà da quali macchine gigantesche: fischi, colpi formidabili, detonazioni, scoppi, e si vedevano, lungo le pareti e sulla cima di colonne di ferro, roteare con velocità straordinaria delle macchine volanti di dimensioni mai viste.

«Che cosa fanno laggiù?» chiese Brandok.

«Sono officine meccaniche» rispose Holker.

«Chissà quante migliaia di operai lavoreranno là dentro!»

«Vi ingannate, mio caro signore; gli operai oggidì sono quasi scomparsi. Non vi sono che dei meccanici per dirigere le macchine. L’elettricità ha ucciso il lavoratore.»

«Cosa è avvenuto di quelle masse enormi di lavoratori che esistevano un tempo?»

«Sono diventati pescatori ed agricoltori; il mare e le campagne a poco a poco hanno assorbito gli operai.»

«Sicché non vi saranno più scioperi?»

«È una parola sconosciuta.»

«Ai nostri tempi si imponevano, e come! Specialmente dopo l’organizzazione fatta dal grande partito socialista. Che cosa è avvenuto anzi del socialismo? Si prediceva un grande avvenire a quel partito.»

«È scomparso dopo una serie di esperimenti che hanno scontentato tutti e contentato nessuno. Era una bella utopia che in pratica non poteva dare alcun risultato, risolvendosi infine in una specie di schiavitù. Così siamo tornati all’antico, e oggidì vi sono poveri e ricchi, padroni e dipendenti come era migliaia d’anni prima, e come è sempre stato dacché il mondo cominciò a popolarsi. Qualche colonia tedesca e russa sussiste nondimeno ancora, composta da vecchi socialisti che coltivano in comune alcune plaghe della Patagonia e della Terra del Fuoco, ma nessuno si occupa di loro, né hanno alcuna importanza, anzi, vanno scomparendo poco a poco.»

«Il ponte di Brooklyn!» esclamò Brandok. «Lo riconosco ancora. Ha dunque resistito fino ad oggi?»

«Già, sono più di centoventi anni che è lì. Gl’ingegneri dei vostri tempi erano buoni costruttori» disse Holker.

«Come è diventato immenso quel sobborgo!» esclamò il dottore guardando con ammirazione la distesa di palazzi immensi che si estendeva a perdita d’occhio.

«Quattro milioni di abitanti» disse Holker. «Ormai gareggia con Nuova York.»

«E Londra che cosa sarà mai?»

«Una città di dodici milioni.»

«E Parigi?»

«Una metropoli sterminata, più grossa ancora. Harry, va diritto alla stazione ultrapotente.»

Il Condor, oltrepassato il ponte, aveva affrettato il volo.

Anche di sopra all’antico sobborgo di Nuova York si vedevano volteggiare un gran numero di macchine volanti, cariche di persone che si dirigevano per lo più verso l’Hudson o verso il mare.

Il Condor, dopo essere passato sopra la città, si diresse verso una piccola altura su cui si vedeva ergersi una torre immensa munita sulla cima di un’antenna smisurata, che pareva un cannone mostruoso minacciante il cielo.

«La stazione ultrapotente» disse Holker. «Vedete là a fianco della torre anche un tubo lucente, di dimensioni pure enormi?»

«Sì, e cos’è?» chiese Toby.

«È il più grande cannocchiale che esista al mondo.»

«Deve essere immenso.»

«È lungo centocinquanta metri, signori miei, una vera meraviglia che permette di vedere la luna ad un solo metro di distanza.»

«Sicché voi avete realizzato l’antico sogno dei nostri astronomi.»

«Ah! Anche i vostri scienziati hanno tentato di avvicinare di tanto il nostro satellite?»

«Sì, nipote mio,» rispose Toby «e senza riuscirvi. Sicché ora la luna è ormai conosciuta minutamente?»

«Conosciamo anche le sue più piccole rocce.»

«È popolata?»

«È un corpo spento, senz’aria, senz’acqua, senza vegetazione e senza abitanti.»

«Già, anche i nostri astronomi l’avevano supposta così.»

«E Marte a quanta distanza lo vedete col vostro cannocchiale?» chiese Brandok.

«A soli trecento metri.»

«Che meraviglie!»

«Adagio, Harry, scendi piano.»

Il Condor aveva superata una vasta cinta che circondava la stazione e scendeva dolcemente, descrivendo delle curve allungate.

Alle otto del mattino s’adagiava a trenta metri dall’enorme telescopio.