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La favorita del Mahdi

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Taci, miserabile, taci!

La greca camminò fino alla porta, poi volgendosi verso di lui colle mani tese:

Abd-el-Kerim, diss’ella, cupamente. Trema!… Trema!

CAPITOLO X. Le due rivali

Quando uscì dal sotterraneo, dopo di aver chiusa la porta, non era più la stessa donna che abbiamo veduta entrare. La sua faccia bella, fiera sì, ma niente affatto truce, era stravolta in modo da far paura; la tinta pallida era scomparsa per dar luogo a una tinta bronzina che una collera illimitata rendeva sempre più cupa fino a diventare mattone; gli occhi profondi, scintillanti, che magnetizzavano, eransi ingranditi in modo strano e vi si vedevano dentro certi guizzi feroci da credere talvolta che gettassero fiamme; le labbra di solito sorridenti, erano increspate che lasciavan vedere i candidi denti convulsivamente serrati e sulla fronte spiccava una vena azzurra che ingrossavasi a tratti.

Una sete inestinguibile di vendetta ardeva quella donna veramente terribile nelle sue sfrenate passioni, una smania feroce l’agitava, una smania di schiacciare l’arabo prima e la sua rivale dopo, che l’avevano offesa nel suo orgoglio e che le avevano straziato il cuore.

Ella percorse l’oscuro corridoio come un lampo e s’arrestò dinanzi ai due dongolesi.

Il prigioniero? chiesero.

Silenzio, disse Elenka, raucamente. Chiamatemi Notis.

Uno di essi si mise a urlare per tre volte imitando il lamentevole urlìo dello sciacallo; il canto melodioso dello sberegrig (merops) vi rispose subito.

Tosto i cespugli gommiferi s’aprirono e Notis apparve seguito a corta distanza dallo sceicco Fit Debbeud e da tutta la banda. Egli s’affrettò a raggiungere Elenka che spezzava nervosamente i robusti steli di alcuni ingiorò dai fiori caliciformi, di un bel colore roseo.

Ebbene, sorella? chiese Notis ansiosamente.

Nulla, rispose Elenka con un amaro sorriso.

Come? Non ti capisco.

Il traditore è irremovibile come una roccia.

Tuoni e fulmini!…

Sì, m’ha disprezzata e rifiutata. Tutto ho tentato per affascinarlo, ho pregato, ho supplicato, ho minacciato, ma tutto fu inutile. Non so poi il come, seppe che fu cacciato nel sotterraneo per vendetta che egli attribuì a me invece che a Fit Debbeud,

È impossibile! esclamò il greco. Da chi lo seppe?

L’ignoro, il fatto è che m’ha udito arrivare.

E tu che gli hai detto?

Era impossibile negarlo e gli confessai tutto, attribuendo la colpa a me.

Il greco respirò come gli si fosse levato un gran peso che gravitavagli sul petto. L’idea di essere scoperto lo sgomentava.

Ignora adunque che io sia vivo? chiese egli con ansietà.

Perfettamente.

E adunque, che fai ora?

Che faccio? E tu me lo chiedi? Vado al campo e pugnalo la mia rivale.

Alto là, sorella. Fathma io l’amo, è impossibile quindi che io ti dia il permesso di ammazzarmela.

Ma io la esecro questa miserabile che mi rubò Abd-el-Kerim.

Ed io esecro Abd-el-Kerim che mi cacciò un pollice di lama nel petto e che mi rubò Fathma, disse il greco con ira mal frenata.

E allora?… Notis, fratello mio, io ti darò tutto ciò che vorrai purchè mi lasci spegnere questa sete di vendetta che mi brucia l’anima.

Odimi, sorella. Perdere Fathma per me è come perdere la vita, tanto io amo quella donna. Io ti abbandono Abd-el-Kerim che conquistai colla mia astuzia, ti lascio ampia libertà di tormentarlo, se vuoi anche di farlo morire fra le più atroci torture, ma bisogna che tu m’abbandoni completamente l’almea, che mi aiuti per di più a rapirla dal campo. È un contratto quello che ti propongo e nulla più.

Io rapirla! esclamò la greca.

E perchè no? Tu sei forte, astuta, conosci Hassarn e Dhafar pascià, e tutto puoi. Se rifiuti io spezzo il cuore al mio rivale.

La greca lo guardò per alcuni istanti in silenzio cogli occhi accesi; una subitanea idea le balenò in mente e l’afferrò di volo.

Accetto, diss’ella colla maggior tranquillità.

Me la porterai proprio qui?

Sì, qualora io riesca a rapirla. Se per te è impossibile a trarla in agguato per me sarà difficile, tu ben lo sai.

Non ti dico di no, ma farai quello che potrai. Se non riesci allora cercherò io qualche altro mezzo più violento. Quando parti?

Subito, se così vuoi. Mi darai per aiutarmi i due dongolesi.

Il greco fece un cenno a Fit Debbeud che stava seduto lì vicino. Subito dopo tre mahari accuratamente bardati vennero condotti vicino a Elenka che esaminava la batteria di una carabina Martini.

Sorella, le disse Notis. Non tentare nulla contro l’almea se non vuoi che capiti sfortuna ad Abd-el-Kerim.

Non temere di nulla: mi frenerò.

I mahari vennero fatti inginocchiare ed Elenka e i due dongolesi salirono in sella.

Che Iddio ti protegga, sorella, disse Notis gravemente.

E che Iddio protegga Abd-el-Kerim, rispose su egual tono la greca. Non dimenticare che muore di fame.

L’ich! ich! venne emesso dai due dongolesi e i mahari partirono di corsa inoltrandosi su di un largo sentiero coperto di alfek spinoso e fiancheggiato da grandi ardèb (tamarindi) dai rami lunghissimi ed assai flessibili sui quali strillavano e facevano mille versacci bande di scimmie di un pelo verde-dorato bellissimo (cercopithecus fistulosa).

Elenka si volse due o tre volte verso le ruine di El-Garch, e le sue labbra s’aprirono ad un sorriso sardonico e quasi compassionevole.

Hai torto, fratello, mormorò ella quando perdette di vista le ruine. Tu t’affidi a me e io approfitterò di questa fiducia. Quando il leone ha fame divora carne ed io gli darò da divorare la carne di Fathma!

Un lampo sinistro guizzò nei neri suoi sguardi e la sua fronte s’aggrottò. Le sue manine accarezzarono con feroce compiacenza la brunita canna della carabina, sospesa all’arcione,

La traversata della foresta del Bahr-el-Abiad si compì felicemente in poco più di tre quarti d’ora. I tre mahari sostarono un momento presso le ultime palme deleb poi ripresero la celere loro corsa attraverso le pianure, dirigendosi verso Hossanieh i cui tugul apparivano distintamente, inondati dai cocenti raggi del sole che cominciava a discendere all’occaso.

Trottavano da un’ora ed erano giunti ad un gran macchione di acacie, quando Elenka gettò improvvisamente il chrr! chrr! pronunciandolo così in furia che i mahari s’arrestarono di colpo a rischio di far balzare di sella coloro che li montavano.

Che succede? chiesero i dongolesi, portando istintivamente lo mani alla loro harba.

Fermi tutti, disse Elenka con un tono di voce che non ammetteva replica.

Fece inginocchiare il suo mahari, saltò a terra e si internò silenziosamente nella macchia fino a raggiungere il lembo estremo. Ella s’arrestò cogli occhi fissi su due uomini che si dirigevano a lenti passi a quella volta.

Bene, mormorò ella con gioia. Quello là è Hassarn, lo riconosco, e l’altro è Omar, lo schiavo di Abd-el-Kerim. Dove si dirigono essi?

Si cacciò sotto ad un cespuglio aggomitolandosi su sè stessa come una serpe e attese pazientemente che le passassero vicini. Non corse molto tempo che udì i loro passi e Hassarn che diceva al compagno:

Sei proprio sicuro che furono dei beduini a rapirlo?

Sì, capitano, rispose Omar. Mussa che era in sentinella vicino gli ultimi tugul d’Hossanieh, li vide saltar fuori da una macchia e gettarsi su di lui come tanti leoni. Il mio povero padrone fu oppresso dal numero.

E ti dissero che?....

Che presero la via che conduce a Sceh-el-Mactud.

A me parve che fuggissero verso le foreste del Bahr-el-Abiad.

Mussa sostiene il contrario. Tirava vento e la notte era troppo oscura per vederci bene; è probabile quindi che vi siate ingannato.

Povera Fathma! esclamò Hassarn, sospirando.

È agitata?

Ho paura che abbia a diventare pazza, Omar. Chi mai lo fece rapire? A quale scopo? Se fosse vivo Notis, ma è morto da un bel pezzo. Orsù, cerchiamo verso Sceh-el-Mactud, Chi sa?…

Essi s’allontanarono senza aggiungere parola, dirigendosi verso il sud a passi più rapidi. Elenka appena li perdette di vista saltò fuori e si diresse di corsa verso i mahari.

Fathma è sola, mormorò ella. Ci troveremo l’una di fronte all’altra!

Saltò in sella, e lanciò il mahari alla carriera sempre seguita dai due dongolesi. Dopo dieci minuti giungevano dinanzi al villaggio arrestandosi presso un gruppo di arabi occupati a dissetare le loro vacche dal pelo tigrato.

Voi rimarrete qui, disse Elenka ai dongolesi. Quando mi vedrete uscire da quella casupola che vedete laggiù, mi seguirete alla lontana, e non perderete di vista la donna che avrò meco. Al primo fischio che io emetto vi getterete su di lei e la ridurrete all’impotenza. Vi sono dieci talleri da guadagnare.

Contate su di noi, risposero i dongolesi.

La greca s’avvolse accuratamente nel suo candido taub nascondendosi parte della faccia e s’incamminò verso la casupola di Fathma statale precedentemente descritta da Notis. Un negro armato di fucile la fermò nel momento che varcava la soglia.

Sono la sorella del capitano Hassarn, diss’ella pacatamente. Lasciami libero il passo; devo parlare a Fathma.

Il negro non ardì a respingerla. Elenka salì i gradini come spintavi da una molla, colla fronte aggrottata, la collera negli occhi e una mano sull’impugnatura d’ebano del suo pugnale, passato fra le pieghe della fascia.

 

Il cuore saltellavale nel petto, nubi di fuoco passavanle dinanzi alla vista e sentiva il sangue accendersi e turbinare nelle vene. Ebbe paura di non potersi dominare in presenza dell’odiata rivale.

Ella si slanciò come una leonessa nella prima stanzuccia che si vide dinanzi; subito si fermò lasciando sfuggire una esclamazione sorda.

Sdraiata su di un angareb tra morbidi tappeti trapunti d’oro, se ne stava Fathma coi lunghi capelli neri sciolti sulle nude spalle, colla testa appoggiata ad una mano ed il suo tamburello d’almea ai piedi. La sua faccia tanto bella e tanto fiera portava le traccie di atroci sofferenze e i suoi occhi rilucevano d’un fuoco selvaggio. Pareva in preda a una cupa disperazione che invano sforzavasi di vincere, e tratto tratto qualche cosa d’umido solcava le vellutate e abbronzate gote.

Alla vista della sconosciuta che entrava in quella furia, ella s’alzò lentamente squadrandola più con curiosità, che con collera. Elenka sostenne imperterrita quello sguardo di fuoco che gareggiava in potenza col suo.

Chi sei? chiese l’almea con voce brusca.

Elenka si volse indietro, chiuse la porta col chiavistello e si mise in tasca la chiave. L’almea non dissimulò un gesto di sorpresa e fece due passi verso la finestra, forse per chiamare il negro che vegliava sulla via, ma la greca fa pronta a sbarrarle il passo.

Chi sei? ripetè l’almea duramente.

Non mandare un grido, non tentare nulla, disse Elenka risolutamente. Voglio parlarti.

Non ti conosco.

Mi conoscerai fra poco. Non sei tu Fathma?

Ebbene?

L’amante dell’arabo Abd-el-Kerim?

Abd-el-Kerim! esclamò l’almea. Che sai tu del mio fidanzato? Dove trovasi egli? Vieni a dirmi qualche cosa? Parla, parla, che ho il cuore infranto.

Un beffardo sorriso apparve sulle labbra della vendicativa greca e il cuore le si allargò dalla gioia. La rivale soffriva; era per lei una felicità.

Io so più di quello che tu credi, ma voglio sapere una cosa prima, diss’ella.

Parla, parla, io sono tua, rispose l’almea con emozione. Io ti dirò tutto quello che tu vorrai, purchè mi additi ove trovasi il mio Abd-el-Kerim, il mio fidanzato.

Dimmi da dove vieni, bisogna che io lo sappia.

Da El-Obeid. Fui la favorita di Mohamed Ahmed il Mahdi del Sudan.

Ah! fe’ la greca sogghignando. Fosti la favorita del ribelle Ahmed!

Che trovi tu di strano? Io vo’ superba d’aver appartenuto a un tal uomo, all’inviato d’Allàh.

Non trovo nulla di straordinario. Un’almea sarà sempre un’almea.

Fathma alzò il capo con fierezza e le lanciò una occhiata sprezzante.

Quale scopo avevi quando salisti da me? domandò ella. Non ti conosco, sento istintivamente che tutto ho da temere da te, che tu hai degli strani progetti nel tuo capo; vattene che io non ti cerco. Abd-el-Kerim saprò trovarlo da me.

Sai chi io sono? disse la greca senza muoversi.

Non mi curo di saperlo.

Voglio che tu lo sappi.

Non abusare della pazienza di Fathma. Irritata diventa una leonessa.

Ed io una iena assetata di sangue capace di sbranare anche la leonessa.

L’almea fremette di collera e le additò superbamente la porta.

Fathma, disse la greca con rabbia concentrata. Hai mai saputo tu, che Abd-el-Kerim abbia lasciata a Chartum una fidanzata?

Quella domanda gettata là freddamente fece su Fathma l’effetto di un morso al cuore. Ella balzò indietro gettando un ruggito furioso, coi denti convulsivamente stretti, pallida d’ira e le sue braccia s’allungarono verso un tavolo sul quale stava un jatagan snudato.

Chi sei?… Chi sei?… gridò con voce strozzata.

Elenka svolse lentamente il taub e lo gettò a terra. Ella apparve dinanzi all’almea vestita colla sua casacchetta a maniche strette con sottili spallini listati in oro allargantisi in punta, colla sua tunica a pieghe, stretta in vita e che non oltrepassava il ginocchio, cinta da una fascia di seta rossa e oro, bella, superba, affascinante nel suo costume greco. Ella posò una mano sul calcio di una pistola e l’altra sul pugnale passati nella cintura.

Guardami in volto, Fathma, io sono Elenka la fidanzata dell’arabo Abd-el-Kerim!…

Elenka! esclamò Fathma con accento feroce.

Le due rivali si erano raccolte su se stesse come per islanciarsi l’una addosso all’altra; l’almea aveva impugnato l’jatagan e la greca aveva levata la pistola e l’aveva armata. Esse si squadrarono per alcuni istanti provocandosi collo sguardo,

Fathma, disse d’un tratto la greca con voce stridula. Io ti odio!

Ed io ti disprezzo e vorrei averti nelle mie mani per dilaniarti le carni.

Odimi, abborrita rivale. Noi amiamo tutte due Abd-el-Kerim; è quindi necessario che una di noi scompaia dalla terra.

Non chiedo altro che di misurarmi con te e di assassinarti, rispose Fathma che fremeva tutta dall’ira.

Se noi ci assaliamo in questa stanza qualcuno potrebbe udire le nostre grida e venire a separarci. Sei tu tanto coraggiosa da seguirmi nella foresta? Nessuno ci vedrà e potremo scannarci a nostro agio.

Vieni, maledetta greca!

Prendi un fucile, che noi ci batteremo a fucilate. Ti conviene?

Sì, perchè ti spezzerò il cuore con una palla.

Ed io ti fracasserò quel superbo capo che dopo aver affascinato il ribelle Ahmed affascinò Abd-el-Kerim. Lo deformerò così orribilmente che nessuno riconoscerà più nel tuo cadavere l’almea Fathma.

Un sorriso sprezzante e insieme incredulo sfiorò le labbra dell’araba; lanciò lungi da sè l’jatagan, si gettò sulle spalle una magnifica farda ricamata in oro e staccò da un chiodo una carabina rabescata e incrostata d’argento.

Con quest’arma abbattei più che dieci leoni, diss’ella fissando Elenka che s’avvolgeva nel suo taub. Oggi abbatterò te!…

È ciò che io voglio vedere, o mia rivale. Vieni! rispose la greca.

Le due rivali abbandonarono la stanza e scesero nella via, nel mezzo della quale stavano i tre mahari guardati dai dongolesi. Bastò un cenno di Elenka perchè due degli animali venissero condotti dinanzi ad esse; vi salirono e pochi secondi dopo trottavano verso le foreste del Bahr-el-Abiad.

CAPITOLO XI. La vendetta di Elenka

Quando giunsero ai primi palmeti, il sole cominciava a nascondersi dietro le immense ombrelle dei colossali baobab. L’oscurità cominciava a farsi sotto le cupe volte di verzura dei tamarindi e delle palme deleb e il silenzio più assoluto si succedeva all’allegro cinguettio dei pivieri e dei pappagalli che si affrettavano a guadagnare i loro nidi e ai clamori bizzarri delle innumerevoli bande di scimmie che eseguivano le più strane giravolte sui rami.

Le due rivali, legati i mahari ai tronco di una acacia gommifera, presero le carabine e si cacciarono risolutamente nel folto della foresta. Prima però di mettersi in cammino, Elenka gettò uno sguardo nella pianura e non potè frenare un gesto di diabolica gioia, vedendo i due dongolesi che si avanzavano strisciando come serpenti, fra le erbe.

Avanti, comandò ella seccamente.

Percorsero un seicento passi, aprendosi con gran fatica il passo fra i cespugli e gli arrampicanti che s’intrecciavano in tutte le guise immaginabili, e si arrestarono ai piedi di un grande tamarindo, il quale stendeva i suoi giganteschi rami su di una piccola radura.

Le due rivali, di comune accordo, caricarono con grande attenzione le carabine, dopo di aver fatto scoppiare tre o quattro capsule per accertarsi del buono stato della batteria.

Senti, disse Fathma con voce ferma e così glaciale che faceva fremere. È qui, in questa foresta che una di noi lascierà le ossa a cibo dei leoni e delle formiche termiti. Se tu hai paura vattene, ma vattene a Chartum, nè ardisci comparirmi giammai dinanzi a disputarmi l’amore dell’eroico Abd-el-Kerim. Lo vedi, io sono ancor generosa come ii leone.

Non parlarmi di questo, Fathma, rispose la greca con disprezzo. Voglio vedere il superbo tuo capo deformato dalla palla della mia carabina.

Sta bene, ma ti giuro che fra pochi minuti te ne pentirai.

Povera Fathma, disse Elenka ironicamente.

Lascia la ironia e preparati invece a morire. Spicciati, maledetta greca, poichè fra poco non ci si vedrà più, e gli abitanti della foresta usciranno dai loro covi in cerca di preda. Io prendo questo sentieruzzo che va a dritta, tu prendi quel sentiero che va a sinistra e passati che sieno cinque minuti, mettiamoci ambedue in caccia.

Addio, almea. Fra dieci minuti voglio averti nelle mie mani.

Fathma alzò le spalle con disdegno e prese il sentiero di destra allontanandosi lentamente e senza produrre il menomo rumore. Elenka la guardò a lungo sogghignando, si gettò sul sentiero di sinistra, poi, quando fu persuasa che l’almea era tanto lontana da non udirla, invece d’imboscarsi come era stato stabilito, si mise a correre come un antilope verso il limite della foresta.

Corse così per quattro minuti poi emise un fischio debole ma penetrante come quello di un serpente. S’udirono i rami muoversi impercettibilmente, i cespugli s’aprirono con somma precauzione e comparvero i due dongolesi.

Eccoci, rispose uno di essi. Che dobbiamo fare?

State bene attenti, disse Elenka con un filo di voce. La mia rivale trovasi imboscata a seicento passi di qui; aspettando che io apparisca per spararmi addosso. Bisogna che io l’abbia in mia mano inerme, anzi legata.

Non sarà tanto difficile.

Anzi difficilissimo. È armata di una carabina ed è più astuta di un serpente. Se voi non riuscite ad avvicinarvi a lei senza che abbia ad accorgersene, correrete pericolo di ricevere una scarica in pieno petto.

Lascia pensare a noi, disse il dongolese. Press’a poco dove trovasi imboscata?

Nel mezzo di un gruppo di acacie a quanto mi parve.

Tu non puoi seguirci, poichè una donna è impossibile che passi dove passerà un uomo. Quando udrai il nostro fischio accorri e troverai l’almea legata.

Venti talleri se voi riuscite a farla prigioniera.

Non ci voleva di più per incoraggiare i dongolesi, Essi si cacciarono sotto le macchie, scostando lentamente le foglie e i rami, strisciando come serpenti o inerpicandosi sugli alberi quando riusciva a loro impossibile trovare un passaggio, tirandosi su l’un l’altro e senza fare più rumore d’una formica bianca. D’un tratto il profondo silenzio che regnava sotto la foresta fu rotto dall’urlo dello sciacallo.

I due dongolesi s’arrestarono di botto guardandosi in faccia l’un l’altro.

Hai udito, Alek? chiese sottovoce il più anziano.

Perfettamente, Nagarch, rispose l’altro.

Che ne dici?

Che questo urlo non fu emesso da uno sciacallo.

È quello che penso pur io. Scommetterei che lo mandò l’almea per ingannare la greca e tenerla lontana.

Deve essere così. Procediamo cautamente e stiamo attenti all’urlo.

Ripresero la silenziosa marcia guidati dal lamentevole urlo che di tratto in tratto udivasi. Dopo di aver percorso un cinquecento passi, dall’alto di una palma dum scorsero qualche cosa di bianco in mezzo a un fitto gruppo di bauinie.

Eccola là l’almea, disse Nagarch.

La vedo, rispose Alek. Ora dividiamoci e stiamo bene attenti alla sua carabina. Io vado di qui seguendo le bauinie e tu va dietro a quelle acacie. Su spicciamoci.

Nagarch apparve fra le acacie, e Alek strisciò diritto verso la macchia, nel mezzo della quale stava sdraiata l’almea colla carabina puntata dinanzi a sè. Di quando in quando mandava il lugubre urlo dello sciacallo così bene imitato da crederlo naturale.

Già Alek era giunto a soli pochi passi di distanza, quando un ramo si spezzò sotto i suoi piedi L’almea scattò in piedi colla rapidità del lampo, vide il dongolese, puntò rapidamente l›arma e fece fuoco.

Alek girò su se stesso portando una mano al petto, poi si scagliò innanzi con impeto disperato rigando la via di sangue che sgorgavagli abbondante da un fianco.

 

Arrenditi! urlò egli.

Fathma aveva impugnato la carabina per la canna e assestò un colpo sì tremendo al dongolese, che cadde al suolo colle cervella schizzanti dal cranio spaccato. Gettò un urlo, ma uno solo, un urlo straziante, supremo, poi s’aggomitolò su sè stesso e non si mosse più.

Sono tradita, mormorò l’almea. Ah! maledetta greca.

Ella si gettò fuori della macchia con un pugnale in mano, ma non fece dieci passi che si sentì afferrare per di dietro e gettare violentemente al suolo. Nagarch, poichè era lui, le pose un ginocchio sul petto, le prese ambe le mani serrandole fra le sue come in una morsa, e dopo di averle intorpidite con una violenta torsione le legò per bene.

L’almea quantunque stordita dal colpo e sorpresa dall’improvviso attacco si dibattè furiosamente cercando di risollevarsi ma le fu impossibile. Si mise a ruggire come una leonessa prigioniera.

Sta ferma, le disse brutalmente il dongolese percuotendola col rovescio del suo scudo. Se continui a muoverti tornerò a torcerti le braccia fino a slogartele.

Lasciami andare, maledetto da Dio! urlò l’almea digrignando i denti. Lasciami andare, vigliacco!

Il dongolese per tutta risposta si mise a fischiare.

Lasciami andare, orribile mostro, o io ti sbrano colle mie unghie!

Sta in guardia, almea, disse Nagarch. Fra poco verrà una donna che ti farà pagar caro l’amore che tu nutri per quell’arabo e ti farà rimpiangere la tua bellezza.

Chi? chi? chiese con voce strozzata Fathma.

– B’allai! La bella greca, la rivale che volevi ammazzare.

L’almea fece un soprassalto così brusco che per poco il dongolese non fu rovesciato.

Uccidimi piuttosto che darmi a lei! esclamò la sventurata. Cacciami l’jatagan nel petto, ma non gettarmi fra le braccia di quella maledetta!

Sei pazza! La bella greca pagherà la tua cattura come una principessa.

Se tu mi lasci libera ti darò tanti talleri quanto tu pesi, se ti rifiuti Dhafar pascià ti farà morire sotto il corbach (staffile).

Non ho che una parola e questa parola la diedi alla greca, d’altronde ecco che viene la tua rivale.

Infatti Elenka veniva innanzi correndo come una pantera, stringendo un corbach di pelle d’ippopotamo lungo o flessibile. Un sorriso atroce, un sorriso di gioia sconfinata errava sulle sue labbra e negli occhi balenavagli un lampo feroce, un lampo spietato. Gettò un grido di trionfo alla vista dell’almea che contorcevasi come un serpente sotto i ginocchi del dongolese.

Ah! sei in mia mano, finalmente! esclamò ella precipitandosi verso la rivale col corbach alzato.

Miserabile! urlò l’almea ebbra d’ira, tendendo le pugna verso di lei.

Dov’è il tuo compagno, chiese la greca a Nagarch.

Questa furia l’ha ammazzato, rispose egli.

Ah! Tu ammazzi la mia gente, dannata almea?

Sì, e se potessi farei a brani anche te! gridò Fathma. Vattene di qua, vigliacca, vattene via traditora, maledetta, assassina.

Nagarch, legala al tronco di quel tamarindo. Il dongolese afferrò fra le sue robuste braccia l’almea che esausta di forze non era più capace di opporre resistenza e la legò al tamarindo con forti corregge di pelle. La greca si mise a sogghignare.

Che direbbe Abd-el-Kerim se ti vedesse così? diss’ella beffardamente.

Taci, non nominarmelo almeno. Vuoi uccidermi, giacchè per tradimento sono caduta nelle tue mani, uccidimi ma non tormentarmi.

Ah! Credi tu che una greca si vendichi d’una rivale uccidendola? No, Fathma non sperarlo da me, che ti esecro e che giurai d’essere senza pietà. Giacchè il parlare di Abd-el-Kerim ti produce l’effetto di una stretta al cuore, parliamo di lui.

Non ti ascolterò, jena codarda.

Non me ne importa. Sai dove trovasi il tuo amante così misteriosamente sparito?

Non te lo chiedo. Hassarn lo troverà e guai a coloro che l’avranno rapito, guai!

Se tu nol sai, Abd-el-Kerim trovasi in mia mano!…

L’almea provò una scossa come fosse stata tocca da una pila elettrica. Impallidì orribilmente, chiuse gli occhi e li riaprì che roteavano in un cerchio sanguigno.

No!… tu menti!… tu menti! ripetè ella con disperazione.

Te lo giuro Fathma. Trovasi in un sotterraneo delle rovine di El-Garch, e lo tormento dì e notte dissanguandolo lentamente.

Ah! feroce iena!… Ma che vuoi farne?

Voglio farlo morire, ma farlo morire a oncia a oncia.

Ma io lo salverò.

Non ti lascerò il tempo. Domani sarai uno scheletro roso dal dente dei leoni e dei sciacalli.

L’almea rabbrividì e si sentì prendere dallo spavento.

Mostro! balbettò la disgraziata.

Orsù, vendichiamoci, disse la greca spietatamente. Tu spregevole almea hai alzato gli occhi fino al fidanzato di una greca di sangue nobile. È un’offesa che non si lava che a colpi di corbach e io strazierò le tue belle carni colla correggia del mio staffile.

L’almea fece uno sforzo supremo per ispezzare i legami e gettarsi su quel mostro in gonnella, ma le corde resistettero alla potente torsione. Ella si dimenò forsennatamente facendo crocchiare le ossa delle braccia.

Non toccarmi! non toccarmi! rantolò.

Elenka, si avvicinò alla rivale, con un violento strappo le lacerò la ricca farda trapunta in oro e l’habbaras di seta azzurrina che la copriva, e su quelle carni bronzine e vellutate applicò un furioso colpo di corbach che tracciò una riga violacea.

L’almea cacciò fuori un urlo strozzato, furibondo, un urlo d’angoscia, di vergogna, d’ira e si piegò come fosse stata spezzata in due, cogli occhi fuor dall’orbite e con una bava sanguigna sugli angoli delle labbra contorte per lo spasimo.

Basta, disse il dongolese. È troppo lacerarle quel seno da urì.

La greca alzò una seconda volta lo staffile, ma lo riabbassò e lo gettò lungi da sè. L’almea era svenuta e rimaneva sospesa per le corde.

Ecco come si vendica una greca, disse Elenka con un sorriso feroce.

Che facciamo ora di lei? chiese Nagarch. Devo staccarla.

Mai più, la lasceremo qui sola e legata.

Ma le tenebre cominciano a calare e fra pochi minuti sarà notte.

E che importa a me se fa notte.

Voglio dire che i leoni, le pantere, le jene e gli sciacalli usciranno dai loro covi e che si getteranno sull’almea.

È quello che desidero, disse la greca

Oh! fe’ il dongolese. E voi lascerete divorare quella bella donna? Ricordatevi che vostro fratello vi ordinò di condurgliela.

Mio fratello non rivedrà più quest’almea. Se questa donna scampa potrebbe ancora attraversarmi la via e diventare mia rivale. Spenta che ella sia, Abd-El-Kerim perderà ogni speranza, ritornerà per forza da me e mi amerà ancora.

Ma che dirà vostro fratello?

La greca trasse dalla cintola una borsa rigonfia e la pose nelle mani del dongolese.

Nagarch, gli disse. Qui vi sono cento talleri e altrettanti ne avrai se tu non lascerai uscire dalle tue labbra una sola parola di quanto hai fatto e veduto. Noi diremo a Notis che ci fu impossibile fare prigioniera Fathma perchè trovasi sotto la protezione di Dhafar pascià e attendata proprio nel mezzo del campo egiziano.

Sarò muto come un morto. Ah! voi siete ben terribile. Non ho mai incontrato in vita mia una donna simile.

Almeno non dirai più così. Andiamo che le tenebre calano.

Il dongolese le accennò il cadavere di Alek. Si avvicinò al compagno, scavò coll’jatagan una fossa e ve lo seppellì colla faccia rivolta alla Mecca come prescrive il Corano. Quando tornò, Elenka era ferma dinanzi all’almea, colle braccia incrociate.

Andiamo, diss’egli ponendosi in cammino

Povera Fathma! esclamò Elenka con ironia. È atroce perdere il fidanzato e la vita in un sol colpo!

Soffocò uno scroscio di risa, raggiunse il dongolese e pochi minuti dopo scomparivano in mezzo alle palme, lasciandosi dietro la vittima.

Era trascorsa una mezz’ora: quando la povera Fathma tornò in sè. Riaprì gli occhi strambasciati e roteanti in un cerchio di sangue, si raddrizzò con impeto felino addossandosi contro il ruvido tronco del tamarindo e si guardò attorno con un misto di spavento, di ansietà e di profonda sorpresa.

Non vide nulla. Provava sulle carni un bruciore infernale, sentiva come un peso enorme che la accasciava, che le mozzava il respiro e la testa che le girava come una fionda. In sulle prime credette di essere in preda ad un terribile incubo.

Tornò a guardarsi attorno. Le parve impossibile di trovarsi sola, le parve impossibile di non vedersi dinanzi la sinistra figura della vendicativa Elenka col corbach in mano in atto di straziarle le nude carni. Credette che la rivale si tenesse celata dietro a qualche tronco d’albero, ma dovette ben presto convincersi che era affatto sola in mezzo alla foresta. Indovinò subito a quale orribile supplizio l’aveva destinata e tremò tutta d’angoscia e di spavento.

Le balenò in mente la fuga prima che la notte calasse e che le jene e i leoni venissero a divorarla. Radunò tutte le sue forze triplicate dalla disperazione e si dimenò come una pazza furiosa al punto di fare quasi scoppiare la pelle sotto la tensione dei muscoli; i polsi, contorti s’insanguinarono ma le corregge resistettero. Si mise a chiamare aiuto, e a urlare destando tutti gli echi delle foreste ma nessuno rispose alle disperate invocazioni. Uno spavento inesprimibile s’impadronì di lei; si vide perduta ed emise uno straziante gemito.

La notte calava rapida, rapida.

Il sole declinò all’occidente dopo di aver illuminato le più alte cime della foresta e succedette il crepuscolo, vago, rossastro, brevissimo, che andò subito oscurandosi lasciando il posto alle tenebre che s’addensavano già sotto la vôlta di verzura.