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La favorita del Mahdi

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CAPITOLO XI. O’Donovan

O’Donovan era un uomo sui cinquant’anni, alto di statura, di membra vigorose, con un volto simpatico, alquanto abbronzato dal sole dei paesi tropicali, con barba e due occhi intelligenti e penetranti.

La vita di quest’uomo, che è veramente straordinaria e romanzesca, merita qualche cenno.

Nato in Irlanda, irrequieto di temperamento, coraggioso, fu dapprima feniano e si compromise nelle congiure a segno che dovette rifugiarsi in Germania per non cadere nelle mani della polizia inglese.

Scoppiata la guerra franco-prussiana del 1870, corse ad arruolarsi nell’esercito della Loira e cadde gravemente ferito sul campo di battaglia. Appena guarito si mise ai servigi del giornale londinese Daily News, il cui direttore gli assegnò il dipartimento dell’Asia.

Il reporter viaggiò tutta l’India, poi trovandola piccina, passò i monti e visitò l’Afganistan. Ritornò più volte in Inghilterra ma non vi rimaneva che il tempo necessario per abbracciare i suoi e per rinnovare i patti col Daily News e cogli editori che si contendevano le relazioni dei suoi viaggi.

Stanco di visitare gli Afgani e i Ghirghisi, un giorno s’incamminò con qualche servo verso la Persia, ma i persiani lo presero per una spia russa e lo imprigionarono, O’Donovan dovette sudare per salvarsi dal supplizio del palo e quando i persiani si persuasero che era un giornalista, non solo lo liberarono, ma lo colmarono di favori, di cortesie, gli conferirono dignità eccezionali e gli diedero delle guide per ritornare in Europa per la via della Russia.

In Inghilterra pubblicò allora il suo viaggio sotto il titolo di Viaggio a Merw che gli fruttò una sostanza, poi, vero ebreo errante, andò in Armenia con Muktar pascià per assistere alla guerra russo-turca del 1877. Ma a Batum attaccò lite con un Francese per una bella Armena; Dervisch pascià gli ordinò di andarsene, e visto che il testardo irlandese faceva il sordo, una bella notte lo fece rapire e ignudo come si trovava lo fece trasportare a viva forza, ravvolto in una coperta, su di un battello che salpava per Trebisonda.

O’Donovan che si era fisso di viaggiare in Oriente, vi ritornò, fece delle esplorazioni importanti, poi, nel suo ultimo viaggio si fermò a Costantinopoli, dove lo attendeva una nuova disgrazia.

Essendo in un caffè si mise a parlare come fosse a casa sua del Sultano e del governo criticandoli. La Sublime Porta lo fece arrestare e lo tenne lungamente in prigione. Non lo lasciò libero che dietro ingiunzione dell’ambasciatore inglese proibendogli però di non porre più piede in Turchia. O’Donovan, ricco assai, credette giunta l’ora di riposarsi alcuni anni, ma non fu così. I direttori del Daily News vollero ampliare il «dipartimento» del loro reporter e all’Asia aggiunsero l’Africa incaricandolo di attraversare il misterioso continente dall’Est all’Ovest quando il generale Hicks avesse sottomesso i ribelli del Sudan. Vi erano cinquantamila franchi all’anno di stipendio da guadagnare, gli si faceva un credito illimitato per le spese e un editore gli pagava in anticipazione centomila lire la relazione sulla campagna.

Il reporter, quantunque molto inquieto, quantunque avesse funesti presentimenti, fatto per ogni precauzione testamento, pigliò la via dell’Egitto e raggiunse l’armata di Hicks pascià ed ecco come il reporter del Daily News lo troviamo in fondo al Sudan.

L’ufficiale inglese, compiuta la presentazione, fece subito avanzare tre cavalli bardati che vennero montati da Fathma, Omar e dall’Irlandese. Egli credette di far bene aggiungervi degli eccellenti remington ed abbondanti cartuccie.

Non si sa mai quello che può accadere, diss’egli, facendo cenno alla sua compagnia di fare largo ai cavalli. Quei maledetti insorti si nascondono persino dietro ad un sasso. O’Donovan, affido questa bella ragazza a te.

Non aver timore di nulla, Harry, rispose il reporter. Giungeremo al campo senza malanni.

Guardati bene attorno, O’Donovan. Questa mane ho veduto dei cavalieri correre per la pianura.

Ho buoni occhi e sopratutto buone braccia per difendermi. Addio, Harry.

Una parola, disse Fathma, porgendo la mano all’inglese. Noi ci siamo lasciati indietro dei giallàba. Forse sono stati divorati dai leoni, ma forse qualcuno si è salvato e potreste giungere in tempo di raccoglierlo.

Vi comprendo, miss. Manderò i miei uomini a cercarli. Che la fortuna sia con voi.

I tre cavalli partirono alla carriera dirigendosi verso il sud e tenendosi tutti uniti. O’Donovan staccò dall’arcione il remington e l’armò, invitando i suoi compagni a fare altrettanto.

Per dieci minuti galopparono in silenzio, guardandosi attorno per non cadere in qualche imboscata d’insorti, poi O’Donovan che da qualche tempo osservava attentamente Fathma, le chiese bruscamente:

Ditemi la verità, per quale caso vi trovate in questo paese? Sapete che noi tutti corriamo un grave pericolo e che vi sono molte probabilità di lasciare le ossa in questi deserti?

Voi correte un grave pericolo? disse Fathma con qualche sorpresa.

Sì e vi compiango di essere giunta in questi luoghi. Dovete avere un forte motivo per arrischiarvi a raggiungere Hicks pascià.

Molto forte, mormorò l’almea con un profondo sospiro.

Cercate qualcuno forse?

Come lo sapete voi?

Lo suppongo.

Ditemi, O’Donovan, è giunto al campo Dhafar pascià?

Quello che conduceva i rinforzi speditici dal governatore di Chartum?

Sì, proprio quello.

Giunse dodici giorni or sono, ma è stato ucciso l’altro ieri.

È morto! esclamarono Omar e Fathma ad una voce.

L’ho veduto cadere coi miei propri occhi, assieme ad un centinaio di egiziani. Erano usciti per fare una ricognizione, i ribelli li circondarono e li massacrarono tutti. Quando noi giungemmo sul luogo del combattimento, Dhafar pascià, colpito da una lancia in petto, spirava.

Allàh lo punì, disse sordamente Fathma. I colpevoli cadono uno ad uno.

O’Donovan la guardò con sorpresa.

Che dite mai? chiese egli. Era forse un vostro nemico Dhafar?

Mi schiantò l’anima, involontariamente forse, ma me la schiantò. Uditemi, O’Donovan, avete mai inteso parlare di un ufficiale arabo che si chiama Abd-el-Kherim?

Il reporter si passò la mano sulla fronte parecchie volte come cercasse nella sua memoria.

Non l’ho mai udito nominare rispose dipoi.

Proprio mai! esclamò l’almea con un accento di dolore sconfinato. È impossibile!… Cercate, cercate bene nella vostra mente!…

Ma sì, voi dovete averlo veduto, aggiunse Omar. È giunto con Dhafar pascià, ve lo assicuro.

Ma io vi dico che non l’ho mai udito quel nome.

Gran Dio! Che gli sia toccata una qualche disgrazia!… Che me l’abbiano ucciso!

Non correte troppo, disse O’Donovan. Capirete bene che siamo in undicimila al campo e che degli ufficiali ve ne sono moltissimi. Forse l’avrò veduto, forse avrò anche parlato assieme, ma non me lo rammento. Avete torto di disperarvi.

Avete ragione, O’Donovan, balbettò l’almea. Ditemi ora, avete mai visto nella tenda di Hicks pascià…

Chi?

Una donna?

Una donna!… Ah! sì, mi ricordo di averla veduta parecchie volte. Era una…

Greca! esclamò l’almea coi denti stretti.

Sì, proprio una greca che si chiamava Elenka.

Fathma fremette e fece uno sforzo violento per frenare l’ira che bolliva nel petto.

Ditemi, è ancora al campo?

Quando lasciai la tenda Hicks pascià, tre giorni or sono, essa vi entrava,

Ah!

O’Donovan si volse verso Fathma e vedendola col volto sconvolto, gli occhi accesi, fece un gesto di sorpresa.

Ma sapete, diss’egli, che voi mi mettete in curiosità.

Lo credo, rispose Fathma sforzandosi, ma invano, di sorridere.

Avvicinò il suo cavallo a quello del reporter e disse a bruciapelo:

Guardatemi bene il volto, O’Donovan.

Vi guardo e vi trovo sublimemente bella. Chi siete?

Fui la favorita di Mohammed Ahmed, il Profeta del Sudan.

Che!…

Statemi ad udire. Un dì abbandonai il mio signore e capitai a Hossanieh. Un prode mi salvò da un leone che stava per divorarmi e questo prode l’amai come sanno amare la arabe, cioè alla follìa.

Comprendo.

Egli era ufficiale del corpo di Dhafar pascià. Un tenente greco s’innamorò di me e giurò che io sarei stata sua. Lo disprezzai ed egli, furente, mi denunziò a Dhafar pascià per la favorita del Mahdi, per una spia.

Ah! il vigliacco!

Mi separarono a forza dal mio amante e mi trascinarono a Quetêna dove caddi nelle mani del greco. Alcuni giorni dopo però riuscii a fuggire e mi misi subito in viaggio per cercare Abd-el-Kerim, il prode che amavo, l’eroe che mi salvò la vita.

È per questo adunque che venite al campo?

Sì, per questo.

Ma se venite scoperta?

Come?

Potrebbe darsi che qualcuno riconoscesse in voi l’ex favorita di Mohammed Ahmed che Dhafar pascià fece arrestare. Badate a me, andate cauta e non mostratevi nella tenda di Hicks pascià.

È impossibile. Bisogna che io sappia a qualsiasi costo che è accaduto di Abd-el-Kerim. Per quell’uomo arrischierei mille volte la vita.

O’Donovan le prese una mano e stringendola teneramente:

Voi siete forte e coraggiosa ed io amo i forti e i coraggiosi, le disse. Volete che io vi aiuti nell’impresa, che io pure cerchi di Abd-el-Kerim?

 

La faccia dell’almea, poco prima trucemente sconvolta, si rasserenò. Nei suoi grandi occhi fiammeggianti, balenò un fugace lampo di tenerezza; parve anzi commossa.

Voi avete un nobil cuore, mormorò ella. Mi affido interamente a voi, amico mio. Che devo fare?

Rinunciare di recarvi da Hicks pascià. Verrete nella mia tenda, vi alloggierete e vi darò un vestito da soldato onde non abbiano a riconoscere in voi la Favorita del Mahdi. Al resto penserò io.

Troverete voi Abd-el-Kerim, adunque?

Lo troverò, vi dò la mia parola.

Erano allora giunti in una gola formata da due colline tagliate a picco, tutta cosparsa di fitti cespugli. O’Donovan arrestò il suo cavallo.

Stiamo in guardia, diss’egli. In questo luogo si nascondono dei ribelli. Guardate bene i cespugli.

Siamo lontani molto dal campo? chiese Omar.

Un miglio e mezzo e forse meno. Udite?

In distanza echeggiarono alcuni squilli di tromba e s’udirono a rullare dei tamburi. Qualche detonazione fu pure notata.

Avanti, comandò O’Donovan.

I tre cavalieri s’inoltrarono nella gola tenendosi lontani dai cespugli. Avevano percorso un centinaio di metri, quando dalle macchie si videro uscire sei o sette uomini semi-nudi, armati di lancie e di scudi di pelle di elefante. Essi si misero a urlare come bestie feroci, agitando minacciosamente le armi.

O’Donovan scaricò il suo remington sul più vicino che cadde a terra, dimenando disperatamente le braccia. Gli altri si diedero a precipitosa fuga attraverso la gola, urlando con quanto fiato avevano in corpo e saltando a destra e a sinistra per non offrire facile bersaglio alle palle.

Alla carriera! gridò il reporter, spronando vivamente il cavallo. Se non usciamo in fretta, corriamo rischio di venire rinchiusi qui da un migliaio di quei furfanti. Attenti alle imboscate!

I tre cavalli si slanciarono nella gola che andava restringendosi a mo’ d’imbuto, seminata qua e là da cadaveri di soldati egiziani o d’insorti, imputriditi, spesso mezzo divorati dalle fiere e che mandavano un odore nauseante. In meno di cinque minuti giunsero a duecento passi dall’uscita. Qui i tre cavalieri arrestarono di colpo i loro cavalli.

– By-good! bestemmiò O’Donovan. Hanno chiusa la via!

Infatti gli insorti si erano aggruppati dinanzi all’uscita riparandosi dietro i macigni e le macchie. Essi accolsero la comparsa dei cavalieri con indescrivibili urla, alzando le lancie e le scimitarre di ferro.

Torniamo indietro, disse Fathma. Forse non ci hanno ancora tagliata la ritirata.

È impossibile, rispose il reporter. Dietro a quei ladroni vi è il campo e se ritorniamo verremmo facilmente uccisi.

Che facciamo adunque? chiese Fathma.

Non trovo altro mezzo che quello di forzare il passo. Sono sei o sette ladroni e non mi sembrano molto coraggiosi. Tirate l’jatagan e prendete le pistole; piomberemo loro addosso come una valanga.

I cavalli spronati a sangue ripartirono alla carriera. I ribelli, vedendoli venire addosso, saltarono in piedi colle lancie in aria. O’Donovan, che aveva tratto la scimitarra, ruinò in mezzo a loro spaccando nettamente la testa al primo che gli si parò dinanzi. Fathma e Omar scaricarono le loro pistole sugli altri, i quali, vista la mala parata, si affrettarono a lasciare il posto.

I cavalieri uscirono in furia dalla gola dirigendosi verso una boscaglia di palme e di mimose che nascondeva il campo egiziano.

Avanti! avanti! gridò O’Donovan.

Un urlo tremendo e alcune moschettate tennero dietro al suo comando. Dai burroni e dalle gole uscirono varii drappelli di arabi Abù-Rof e di Baggàra slanciandosi dietro ai fuggiaschi, agitando freneticamente le lancie, le scimitarre e gli scudi.

A briglia sciolta, Fathma, urlò il reporter. Sprona, perdio! Sprona che siamo vicini al campo

Dietro a loro s’udì lo scalpitìo precipitato di un cavallo. Omar volgendosi vide uno sceicco che si avvicinava rapidamente colla scimitarra alzata nella dritta e la bandiera del Mahdi nella sinistra.

Guardati, Omar! disse rapidamente Fathma, scaricando la sua pistola.

Il negro si voltò e sparò il remington sullo sceicco, il quale lasciossi sfuggire di mano la bandiera. Cercò di rizzarsi sulle staffe e di brandire la scimitarra, ma le forze gli vennero meno e cadde pesantemente a terra colla testa inondata di sangue.

I ribelli visto il loro capo a cadere, si arrestarono titubanti. Alcuni di essi s’avanzarono però, cercando di tagliare fuori Omar che era rimasto indietro, ma una scarica di remington che abbattè il più vicino e i sei colpi di revolver del reporter, li decisero a volgere le spalle e a rifugiatisi nella gola.

Avanti, Omar, che siamo vicini al campo! urlò O’Donovan caricando il revolver.

I tre cavalli con un ultimo slancio guadagnarono il palmeto prendendo un largo sentiero sul quale scorgevansi, profondamente impresse, le traccie lasciate dalle ruote dei cannoni, e si arrestarono poco dopo dinanzi ad un gruppo di capanne attorno alle quali bivaccavano alcune compagnie di negri d’Etiopia.

Alto! comandò O’Donovan. Siamo giunti a Kassegh.

I tre viaggiatori balzarono a terra.

CAPITOLO XII. L’esercito egiziano

Kassegh è un piccolo villaggio distante una sola giornata di cammino da El-Obeid, la capitale del Kordofan.

Questo villaggio si compone di un gruppetto di miserabili tugul conici, circondati da pochi pozzi e abitati un tempo da un pugno di arabi. Hicks pascià, appena giuntovi, l’aveva fatto occupare da alcune compagnie di negri per tenere in rispetto i ribelli che scorazzavano i dintorni e farne, all’uopo, la base delle sue operazioni contro El-Obeid.

O’Donovan, affidati i cavalli ad alcuni soldati si affrettò a condurre Fathma e Omar in una capanna, che fu subito sgombrata da coloro che l’occupavano e fece portare della birra merissak e una terrina di durah bollite.

Voi rimarrete qui, diss’egli, e mentre vuoterete questo fiasco di birra andrò a dire due parole al comandante della guarnigione, che è mio amico.

E al campo, quando ci andremo? chiese Fathma, che non dissimulava la sua impazienza.

Fra mezz’ora noi vi entreremo, e forse potrete vedere Hicks pascià senza correre rischio di essere riconosciuta.

Il reporter se ne andò lestamente cacciandosi in mezzo alle tende degli Egiziani. Omar e Fathma, rimasti soli, si scambiarono uno sguardo.

Che ne dici di quell’uomo, Omar? chiese l’almea.

Dico che possiamo fidarci di lui, rispose il negro.

Credi tu che troveremo Abd-el-Kerim?

Lo spero.

Eppure O’Donovan non l’ha mai veduto e non ha mai udito pronunciare il suo nome. Non so, ma ho un funesto presentimento.

Io trovo naturalissimo che O’Donovan non lo abbia mai veduto. Undicimila uomini non sono già un centinaio.

Ma la greca l’ha pure veduta, disse Fathma con collera.

Una donna si fa presto a notarla, tanto più che Elenka si mostrava spesso nella tenda di Hicks pascià.

Ma non si mostrerà più, te lo giuro Omar. Appena sarò entrata nel campo mi metterò in cerca di lei e la pugnalerò in qualsiasi luogo la trovi.

Non lo farai, Fathma, disse il negro fermamente.

Perchè?… Chi me lo impedirà? chiese con impeto selvaggio l’almea.

Perchè correrai il rischio di farti prendere.

E che importa a me quando l’avrò uccisa?

Ma verrai scoperta, riconosciuta per la favorita del Mahdi e forse fucilata lì per lì. Questi inglesi non ischerzano, Fathma.

Sarò prudente, Omar.

Me lo prometti?

Te lo prometto.

Lascia fare a me. La prenderò, la trascinerò lungi dal campo e te la darò in mano legata.

Ah! esclamò l’almea con feroce accento. Quando penso che la vedrò ai miei piedi gelata dalla morte, sento il cuore balzarmi in petto e provo una gioia sino ad oggi mai provata. Ah! quanto è bella la vendetta.

Zitto, Fathma; ecco O’Donovan, disse Omar. O’Donovan entrò seguito da un negro che portava in ispalla un gran rotolo di vesti.

Che ci portate? chiese Fathma affettando una certa noncuranza.

L’occorrente per entrare nel campo senza destare sospetti, rispose O’Donovan congedando il negro.

Forse con quelle vesti sulle spalle?

Sedete e ascoltatemi.

O’Donovan empì una tazza di birra e la tracannò in un sol fiato, poi sedendosi dinanzi a loro due:

Amici miei, diss’egli, in tempo di guerra, fare entrare in un campo degli sconosciuti, è sempre pericoloso.

È giusto, disse Fathma.

Ho fatto portare qui delle vesti di basci-bozuk, e mi pare che camuffati da soldati sia facile entrare ed uscire dal campo.

Ah! fe’ Omar ridendo. Voi volete vestirci da basci-bozuk?

Sicuramente.

Anch’io? chiese Fathma.

Voi più del vostro compagno.

È ridicola.

Niente affatto, io la trovo una precauzione saggia.

Mi si conoscerà facilmente per una donna.

Non così facilmente come credete. Avete un bel portamento e una faccia ardita. Orsù, spicciamoci.

O’Donovan sciolse il rotolo e levò sei o sette vestiti di ufficiali basci-bozuk coi turbanti e le scimitarre. Fathma non esitò a scegliere quello che meglio adattavasi al suo taglio.

Si ritirò in una stanza attigua e cominciò a vestirsi, calzò le uose di pelle di capra, infilò i larghi calzoni rossi e la casacca ricamata d’argento, cinse la larga fascia nella quale passò un jatagan e le pistole e raccolse i capelli a chignon, nascondendoli interamente sotto un gran turbante verde. Appesasi la scimitarra, ritornò dai compagni, colla dritta posata fieramente sulla guardia dell’arma e la testa alta.

Ah! il bell’ufficiale! esclamò O’Donovan By-good! Non mi ricordo d’aver visto in Oriente un basci-bozuk così ammirabile.

Siete certo? disse l’almea sorridendo.

Ve lo giuro. Se io fossi Hicks pascià vi darei subito da comandare uno squadrone di cavalleria.

Burlone.

E sono sicuro che lo comanderebbe meglio di qualche ufficiale, aggiunse Omar, che terminava di abbigliarsi.

Siete certo che non riconosceranno in me una donna? chiese l’almea.

Certissimo.

Allora affrettiamoci a recarsi al campo. Mi preme d’interrogare Hicks pascià.

Volete proprio venire dal generale?

Certamente e voi mi presenterete per un vostro aiutante di campo o per qualche cosa di simile.

Mi mettete in un bell’impiccio.

Che c’è di nuovo? Avete paura che vi tradisca?

Non è questo, ma…

Che cosa allora? Dite su, voglio saperlo.

Se Hicks pascià… se vi dasse qualche notizia su Abd-el-Kerim… Chissà, potrebbe darsi che questa notizia non fosse troppo buona…

Sapete forse qualche cosa voi?…

No, non so niente, ve lo giuro.

La faccia dell’almea si alterò orribilmente; stette per alcuni istanti muta colle mani strette sul cuore.

Sono forte, disse poi rizzandosi fieramente, e sono preparata a tutto. Conducetemi da Hicks pascià.

Quando mi dite di essere preparata a tutto possiamo andare.

Si gettarono ad armacollo i remington e uscirono dal tugul inoltrandosi fra le tende delle compagnie accampate. Gli egiziani, vedendo uscire due ufficiali basci-bozuk invece di un uomo e di una donna si guardavan l’un l’altro sorpresi, non potendo credere ai loro occhi, ma O’Donovan non lasciò a loro tempo di osservare troppo.

Prendiamo questo sentiero, diss’egli. Questi soldati si sono accorti del travestimento.

Forse non ho il portamento d’un soldato, mormorò Fathma.

Non è questo. Si sono accorti perchè vi avevano visto entrare e sapevano che il tugul non alloggiava basci-bozuk. Del resto poco importa.

Presero un sentieruzzo che scendeva, serpeggiando, il declivio di un colle ed in poco tempo giunsero sul limite estremo del bosco. Fathma e Omar s’arrestarono sorpresi dal grandioso spettacolo che si presentava dinanzi ai loro occhi.

 

A duecento metri da loro, in una immensa pianura ondulata, cosparsa da gruppetti di palme, accampava l’esercito egiziano comandato da Hicks e da Aladin pascià, forte di undicimila e più uomini.

Immaginatevi tre o quattro mila tende, disposte nel massimo disordine, secondo il capriccio di coloro che le abitavano, ritte o atterrate, lacerate o rattoppate, bianche o dipinte, alcune aggruppate strettamente, altre separate da centinaia e centinaia di piedi, arrampicantesi sulle colline sabbiose o sui pendii di aridissime rupi. Nel mezzo s’alzavano, e queste con un po’ d’ordine, le tende più elevate degli ufficiali, dello stato maggiore e quelle dei generali sulle quali ondeggiavano lacere bandiere egiziane.

Dappertutto si vedevano soldati, chi sdraiati per terra o aggomitolati come gatti al sole, chi seduti attorno ai fuochi a preparare il rancio, chi occupati a manovrare, chi a esercitarsi al tiro; vi erano egiziani, negri, turchi, basci-bozuk, europei, tutti in differenti costumi. Dappertutto vi erano fasci di fucili che rifulgevano ai torridi raggi del sole, cannoni, tamburi, barili di munizioni, e in mezzo a tuttociò cavalli, muli e cammelli che nitrivano, che ragliavano, che muggivano, formando colla voce degli uomini un baccano assordante, continuo, paragonabile al fragore del mare in tempesta.

Quanti uomini! esclamò Omar. Che baccano, che confusione, quante armi, quante tende, quanti animali!…

Tanti ma sempre pochi, disse O’Donovan con un sospiro.

Non vi pare che bastino tutti questi?

Pel Mahdi no, sono ancora pochi.

Lo credete? disse Fathma.

Sì mia cara, questi uomini non sono sufficienti per vincere il leone del Sudan. Orsù, andiamo da Hicks pascià.

Qual’è la sua tenda?

Quella che vedete là in mezzo.

E quella…

Di chi?…

Tiriamo innanzi, mormorò Fathma mordendosi le labbra.

Entrarono nel campo, attraversando quel labirinto di tende, d’uomini e di animali e mezz’ora dopo si arrestavano presso la tenda d’Hicks pascià, dinanzi la quale vigilavano due sentinelle.

Vammi ad annunciare al generale, disse O’Donovan ad una di esse.

Ci accoglierà? chiese Fathma con voce visibilmente alterata.

Certamente, rispose il reporter. Siate forte.

Lo sono.

Rammentatevi che un sol gesto può tradirvi e forse perdervi. Il generale non tollererebbe nel suo campo una favorita del Mahdi.

Vi dissi già che sono pronta a tutto. Non abbiate paura.

Due ufficiali uscirono in quell’istante dalla tenda, e salutarono rispettosamente il reporter che restituì a loro il saluto.

Chi sono? chiese Fathma.

Il capitano di stato maggiore Farquar e il barone Cettendorfs. Due uomini di ferro, specialmente il primo.

La sentinella ritornò annunciando che erano aspettati. O’Donovan strinse fortemente le braccia de’ suoi compagni, come per raccomandare a loro prudenza, e li condusse dentro.

In mezzo alla tenda, seduto su di un tamburo, se ne stava il generale Hicks con alcune carte topografiche spiegate sulle ginocchia.

Era questi un uomo di bell’aspetto, alto, robustissimo, non ostante che gli pesassero sulle spalle più che cinquant’anni, con una faccia alquanto dura, abbronzata dai raggi solari delle torride regioni e rugosa per le fatiche, ombreggiata da una barba piuttosto lunga, liscia e brizzolata da parecchi fili bianchi.

Hicks pascià era un soldato nel vero senso della parola, che sorto dal nulla, mercè la sua rara intrepidezza, la sua energia e il suo talento, era riuscito, passo a passo, a guadagnarsi il grado di generale.

Era entrato nell’esercito indiano l’anno 1848. Dopo aver combattuto in quasi tutte le battaglie della grande insurrezione indiana era corso in Abissinia a prendere parte alla guerra contro Re Teodoro, anzi entrava fra i primi in Magdala.

Ritiratosi in Inghilterra col grado di maggiore e nominato più tardi colonnello, ripartiva i primi del 1883 per Suakim onde prendere parte alla spedizione del Sudan.

Il 13 febbraio, nominato comandante supremo della spedizione, lasciava Suakim con uno stato maggiore composto di dodici ufficiali europei, dieci inglesi e due tedeschi.

Giunto a Chartum organizzava l’esercito incorporandovi Arabi, Egiziani, Etiopi e Basci-Bozuk e il 9 settembre mettevasi in campagna con 6000 fantaccini, 4000 basci-bozuk, ventidue cannoni, alcune mitragliatrici, 590 cavalli e 5500 cammelli.

Doveva avanzarsi lungo il fiume Bianco costruendo sei forti onde mantenere le relazioni e nell’ottobre o novembre dare battaglia alle orde del Mahdi.

Al forte di Kawa batteva i ribelli e poche settimane dopo tornava a vincerli, ma a nulla erano giovate queste vittorie.

Assalito continuamente, male organizzato, senza commissariato, senza mezzi di trasporto sufficienti, senza fondo di cassa, l’esercito s’era ben presto demoralizzato.

Hicks pascià aveva però tenuto fermo, e sfidando imperterrito le lancie dei mahdisti, la fame, la sete e il caldo, era finalmente riuscito a raggiungere El-Dhuem.

Riorganizzato alla meglio l’esercito erasi subito rimesso in campagna risoluto ad espugnare El-Obeid, la capitale del Mahdi, affrontando nuovamente altri ostacoli e altri pericoli senza nome. I soldati cadevano per la stanchezza, i pozzi erano pieni di cadaveri putrefatti appositamente gettativi dai ribelli, i cammelli insufficienti, i nemici sempre più accaniti.

Nella prima sola giornata di marcia aveva perduto sette ufficiali, cinquanta soldati e altrettanti cammelli per l’insoffribile caldo!

Il 10 ottobre, dopo un continuo scaramucciare, giungeva a Sange-Hamferid e agli ultimi di ottobre faceva accampare l’esercito sfinito, demoralizzato, a Kassegh, aspettando il momento opportuno per gettarsi su El-Obeid ed espugnarla.