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Il re del mare

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7. Il kampong di Pangutaran

Cinque minuti dopo il drappello guardava silenziosamente il fiumicello che era scarsissimo d’acqua e si radunava sulla riva opposta che era priva d’alberi.

Una vasta pianura, interrotta solo da qualche gruppetto di palme e di pombo, si estendeva al di là, spingendosi verso una grossa costruzione sopra la quale si scorgeva una specie di torricella che pareva un osservatorio.

Cominciando appena appena allora a diradarsi le tenebre, non era ancora permesso discernere che cosa veramente fosse, ma il pilota e il meticcio non avevano bisogno della luce per sapere dove si trovavano.

– Il kampong di Pangutaran! – avevano esclamato ad una voce.

– E coi dayaki intorno, – aveva aggiunto Yanez, aggrottando la fronte. – Che il grosso delle loro forze sia giunto prima di noi?

Infatti numerosi fuochi, disposti in forma di semi-cerchio, ardevano dinanzi alla fattoria, come se i terribili tagliatori di teste avessero stabilito un grande campo.

Tutti si erano arrestati, guardando con ansietà quei falò e cercando di rendersi conto delle forze degli assedianti.

– Eccoci in un bell’impiccio, – mormorava Yanez. – Sarebbe un’imprudenza avventarsi alla cieca contro forze che potrebbero essere venti volte superiori e d’altronde sarebbe una follia aspettare l’alba. Mancherebbe la sorpresa e potremmo venire ricacciati.

– Signore, – disse il pilota in quel momento. – Che cosa decidete?

– Credi che siano molti gli assedianti?

– A giudicarlo dal numero dei fuochi si potrebbe crederlo. Volete che vada ad accertarmi delle loro forze?

– Yanez lo guardò con diffidenza.

– Sospettate di me, è vero? – disse il malese, sorridendo. – Avete ragione: fino a ieri io ero un vostro nemico. Eppure avete torto: ormai ho rotto tutto con quegli uomini e preferisco essere contato fra i vostri uomini che sono malesi al pari di me, anzichè con quei selvaggi.

– Potrai essere di ritorno prima che il sole sorga?

– Non comparirà prima di mezz’ora ed io vi prometto di essere di ritorno fra dieci minuti.

– Dammi dunque una prova della tua fedeltà, – disse Yanez.

– L’avrete, signore.

Il malese si fece dare un parang, fece un gesto d’addio e si allontanò, gettandosi in mezzo ad una piantagione di zenzero che gli assedianti non avevano ancora distrutta.

Yanez, coll’orologio alla mano contava i minuti. Temeva vivamente che il pilota tardasse, e che la luce si diffondesse prima del suo ritorno, rendendo impossibile una sorpresa.

Ne aveva contati sei, quando Padada comparve, correndo a corsa sfrenata.

– Ebbene? – chiese Yanez, muovendogli incontro.

– Il grosso che ha operato contro di noi alla foce del fiume non è ancora giunto. Gli assedianti non sono più d’un centinaio e le loro file sono così deboli da non poter resistere ad un urto improvviso.

– Hanno armi da fuoco?

– Sì, signore.

– Bah! Sappiamo come se ne servono.

Si volse verso i suoi uomini che lo avevano raggiunto e aspettavano il comando di dare addosso ai nemici.

– Date dentro a corpo perduto, – disse loro. – Le tigri di Mompracem mostrino in quale conto tengono questi tagliatori di teste.

– Quando ce l’ordinerete, noi sfonderemo tutto, signor Yanez, – rispose il più vecchio. – Voi sapete che noi non abbiamo mai avuto paura.

– Accostiamoci in silenzio e prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io. Formiamo la colonna d’assalto.

Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli.

Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime.

La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti.

I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò.

Trecento metri più oltre s’alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d’assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe.

Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s’alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna.

– Tangusa, – disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria, – dove si trova il passaggio?

– Di fronte a noi, signore.

– Non cadremo in mezzo alle spine?

– Vi guido io.

– Siete pronti? – chiese Yanez rivolgendosi ai pirati.

– Pronti tutti, capitano.

– Caricate al grido «Viva Mompracem!» onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti!

I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche.

Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d’assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola:

– Viva Mompracem!

I tagliatori di teste, sorpresi da quell’improvviso assalto, che erano ben lungi dall’aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l’animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta.

Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò:

– Fermi! Sono amici! Aprite la porta!

– Ohe, amico Tremal-Naik, – gridò Yanez con voce giuliva. – Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki.

– Yanez! – esclamò l’indiano, con una vera esplosione di gioia.

– Chi credevi che fosse dunque?

– Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa!

Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria.

Un uomo di statura piuttosto alta, un po’ attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po’ abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese.

Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino.

– Qui, sul mio petto, amico Yanez! – aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. – È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia?

– Muore di salute.

– E la tua Surama?

– Mi ama sempre intensamente. E Darma dov’è che non la vedo?

– La tigre o mia figlia?

– L’una e l’altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia.

– Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri.

– Come! il maharatto non è qui? – esclamò Yanez.

– Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest’ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem.

– Lo ritroveremo più tardi.

– Vieni, amico, – disse Tremal-Naik. – Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa’ gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem.

S’avviò verso il bengalow che s’alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l’amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all’intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù.

– Un buon bicchiere di bram innanzi tutto, – disse l’indiano, empiendo due bicchieri con quell’eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. – Arresta il sudore.

– Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d’un fiato. Non sono più giovane, amico mio, – disse Yanez, vuotando poi d’un fiato il bicchiere. – Ed ora spiegami questo mistero.

– Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto?

– Colla Marianna e dopo d’aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta.

– Dove l’hai lasciata?

– All’imbarcadero.

– È numeroso l’equipaggio?

– Ha forze uguali alle mie.

Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto.

– Sono uomini capaci di difendere il mio veliero, – disse Yanez che se n’era accorto.

 

– Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati.

– Dal pellegrino?

– Sì, Yanez.

– L’avrai veduto, tu, quel briccone.

– Io? Mai!

– Non sai nemmeno tu chi è? – chiese Yanez al colmo dello stupore.

– No, – rispose Tremal-Naik. – Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita.

– E lui si è guardato bene dall’obbedire?

– Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia.

– Tanta audacia ha avuto quel miserabile! – esclamò Yanez, indignato. – Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi.

– Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell’uomo non è un dayako, – rispose l’indiano.

– Chi è dunque?

– Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano.

– Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto.

– Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto.

– Quale?

– È così assurdo che rideresti se te lo dicessi. – disse Tremal-Naik.

– Gettalo fuori.

– Che potesse essere qualche thug.

Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l’indiano s’aspettava, era diventato lievemente pallido.

– Sei ben certo, Tremal-Naik, – disse poi con voce grave, – che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura?

– E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni?

– Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l’odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine.

Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse:

– No, è impossibile, è assurdo. I thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d’imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d’altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug.

– Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie?

– Le hanno saccheggiate e poi arse.

– Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem.

– Volevo tentare di colonizzare queste coste e incivilire questi barbari.

– E hai fatto un buco nell’acqua, – disse Yanez, ridendo.

– Purtroppo.

– E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo?

– Ti chiedo solo ventiquattro ore, – rispose Tremal-Naik, – per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave.

– E correremo al più presto verso Mompracem, – disse Yanez. – La nostra presenza è necessaria laggiù.

Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l’indiano ne fu colpito.

– C’è qualche cosa in aria? – chiese.

– Ma… non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia.

– E quali?

– Che gli inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po’ di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell’isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese.

– E anche la sua ingratitudine, – disse l’indiano. – Ecco come vorrebbero compensarci d’aver liberata l’India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe?

– Lui! Ah! Quell’uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l’Inghilterra e di…

Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase.

– Hai udito? – esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione.

– Sì, il cannone tuona verso il sud.

– I dayaki attaccano la Marianna!

– Seguimi sull’osservatorio, Yanez, – disse Tremal-Naik. – Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.

8. Lo scoppio della Marianna

I due uomini, visibilmente impressionati, uscirono dalla stanza e, salita una scala, si trovarono su una delle terrazze del bengalow su cui si alzava la torricella o meglio il minareto, essendo altissimo e sottilissimo, con una piccola gradinata esterna.

In pochi istanti raggiunsero la cima che terminava in una piccola piattaforma circolare, su cui trovavasi una grossa spingarda dalla canna lunghissima che doveva battere da quell’altezza tutti i punti dell’orizzonte.

Il sole erasi già alzato diffondendo sulla pianura i suoi raggi dorati, appena sorti e già subito ardentissimi, non essendovi in quelle regioni nessuna frescura, nemmeno nelle prime ore del mattino.

I dayaki che assediavano il kampong, coll’apparire della luce, si erano allontanati di sei o settecento metri, riparandosi dietro ai grossi tronchi d’alberi appositamente abbattuti onde servirsene a modo di trincee mobili, potendo farli scorrere innanzi o indietro, a loro piacimento.

Pareva che durante la notte fossero aumentati di numero, perchè Tremal-Naik, appena ebbe lanciato uno sguardo all’ingiro, non potè trattenersi dall’esclamare: – Ieri sera non ve n’erano tanti intorno a noi.

Yanez stava per chiedergli qualche cosa, quando un secondo colpo di cannone si udì rimbombare in lontananza, ripercuotendosi contro le cinte del kampong.

– Questo rombo viene dal sud! – esclamò il portoghese. – Sono i cannoni da caccia della Marianna che tirano. I dayaki hanno assalito i miei uomini.

– Sì, – confermò l’indiano, – viene dalla parte del Kabatuan. Credi che possano respingere il nemico, coi pezzi che hanno a loro disposizione?

– Bisognerebbe conoscere il numero degli assalitori. Di quali forze dispone quel maledetto pellegrino?

– Ha fanatizzato quattro tribù e ognuna deve avergli fornito non meno di centocinquanta guerrieri.

– E armati di fucili?

– Sì, Yanez. Quell’uomo misterioso ha portato con sè un vero arsenale e perfino dei lilà e dei mirim. Toh! Un altro colpo!

– E queste sono le spingarde! – esclamò Yanez, facendo un gesto di rabbia.

Dalla parte dell’immensa foresta che si estendeva verso il sud, giungevano ad intervalli delle detonazioni più leggere e più secche che dovevano essere prodotte da pezzi a canna lunga.

Poi gli spari aumentarono rapidamente d’intensità, formando un rimbombo incessante, come se molti pezzi d’artiglieria e molte spingarde sparassero insieme.

Yanez era diventato pallido e nervosissimo. Passeggiava intorno alla piattaforma come un leone in gabbia, interrogando ansiosamente cogli sguardi tutti i punti dell’orizzonte. Anche l’indiano era in preda ad una sovraeccitazione vivissima.

I colpi si succedevano intanto ai colpi. Una battaglia furiosa, terribile, doveva essersi impegnata sul fiume fra il poco numeroso equipaggio della Marianna e le grosse forze del misterioso pellegrino.

– E non cessa! – esclamava Yanez, che non si tratteneva più. – Se fossi là io!

– Sambigliong è un valoroso che non si arrenderà, – rispose Tremal-Naik. – È una vecchia tigre che la sa lunga e che sa difendersi.

– Non vi sono che sedici uomini validi a bordo, mentre i dayaki possono essere tre o quattrocento e forniti anche essi d’artiglieria.

– Dunque tu dubiti che la Marianna possa resistere? – chiese Tremal-Naik con angoscia. – Se la prendessero sarebbe finita anche per noi. E mia figlia?

– Adagio, amico, – rispose Yanez. – I dayaki troveranno qui un osso ben duro da rodere. Ho osservato attentamente il tuo kampong e mi sembra assai robusto. Tu sai che i selvaggi generalmente si trovano imbarazzati dinanzi ad un ostacolo che frena il loro slancio. Per Giove! Ed il cannone non cessa! Si massacrano laggiù. Quanti uomini hai?

– Una ventina.

– Tutti malesi?

– Fra malesi e giavanesi, – rispose Tremal-Naik.

– Quaranta uomini, chiusi da una cinta così solida, possono dare del filo da torcere a quei furfanti. Sei ben provvisto?

– Ho viveri e munizioni in abbondanza.

– Signor Yanez! Buon giorno! – disse in quel momento una giovane, comparendo sulla piattaforma.

Il portoghese aveva mandato un grido:

– Darma!

Una bellissima fanciulla di forse quindici anni, dal corpo flessuoso come una palma, con lunghi capelli neri, un po’ inanellati, la pelle del viso leggermente abbronzata e vellutata come quella delle donne indiane, ma assai più chiara, i lineamenti perfetti che sembravano più caucasici che indù, si era fermata dinanzi al portoghese, fissandolo coi suoi occhi neri e scintillanti come carbonchi.

Indossava un costume mezzo europeo e mezzo indiano, che le dava una grazia unica, composta d’un busticino di broccatello, con ricami d’oro, d’un’ampia fascia di cascemir che le cadeva sulle anche ben arrotondate e d’una sottanina piuttosto corta che lasciava vedere i calzoncini di seta bianca che le scendevano fino sulle scarpettine di pelle rossa, a punta rialzata.

– Ben felice di rivedervi, signor Yanez, – riprese la fanciulla, tendendogli una manina da fata. – Sono due anni che vi abbiamo lasciato.

– Abbiamo sempre da fare laggiù, a Mompracem.

– Medita sempre spedizioni la Tigre della Malesia? Che uomo terribile, – disse Darma sorridendo. – Ah… il cannone! Non udite?

– È già mezz’ora che rimbomba, figlia mia, – disse Tremal-Naik, – e annunzia forse una grave disgrazia.

– Chi è che fa fuoco, padre?

– Sono le tigri di Mompracem.

– Che difendono la mia nave, – aggiunse Yanez. – Tacete! Mi pare che i colpi rallentino! E non poter vedere nulla!

Si erano tutti curvati sul parapetto della piattaforma, ascoltando ansiosamente.

Non si udivano più che a rari intervalli le secche detonazioni delle spingarde e la cupa voce dei pezzi da caccia.

Ad un tratto si fece un gran silenzio, come se la battaglia fosse bruscamente cessata.

– Hanno vinto o sono stati schiacciati? – si chiese Yanez che si sentiva bagnare la fronte di sudore.

Ad un tratto una formidabile detonazione attraversò gli strati d’aria e si propagò con tale intensità che la torre tremò dalla base alla cima. Yanez aveva mandato un grido, mentre Tremal-Naik e Darma erano diventati pallidissimi.

– Mio Dio, che cosa è successo? – chiese la fanciulla.

– La mia Marianna deve essere saltata in aria, – rispose Yanez con voce rotta. – Poveri i miei uomini!

Un dolore intenso traspariva sul viso del portoghese, mentre qualche cosa di umido brillava nei suoi occhi.

– Yanez, – disse Tremal-Naik, con voce affettuosa, – noi non abbiamo ancora la certezza che la tua nave sia saltata.

– Questo rombo spaventevole non può essere stato prodotto che dallo scoppio della santabarbara, – rispose il portoghese. – Io che ne ho vedute saltare tante delle navi, non mi posso ingannare. Che la Marianna sia calata a fondo non me ne importa, avendo noi a Mompracem velieri in buon numero. Sono i miei uomini che rimpiango.

– Possono avere lasciata la nave prima che scoppiasse. Chissà, forse sono stati essi stessi a dar fuoco alle polveri onde non cadere nelle mani dei dayaki.

– Può essere vero, – rispose Yanez, che aveva riacquistata la sua calma.

– Vi era qualcuno a bordo che sapesse dove si trova il mio kampong?

– Sì, il corriere che ti abbiamo mandato sei mesi fa.

– Quell’uomo allora, se è sfuggito alla morte, potrebbe condurre qui i superstiti.

– E passare attraverso le file dei dayaki! Ecco un’impresa che sarà ben difficile per così pochi uomini. E poi, quand’anche giungessero qui, la nostra situazione non migliorerebbe.

– È vero, – rispose l’indiano. – Come potremo scendere il fiume senza la tua nave?

– Cercheremo dei canotti, padre, – disse Darma.

– Per esporsi ad un fuoco incessante senza alcun riparo? Chi giungerebbe vivo alla foce del fiume?

 

– Guarda i dayaki, – disse in quel momento Yanez.

Gli assedianti, che dovevano aver pure udito quello scoppio formidabile e anche quel vivo cannoneggiamento, avevano abbandonate le loro trincee mobili, ritirandosi verso le foreste che circondavano la pianura, come se avessero l’intenzione di togliere il blocco.

– Se ne vanno, padre! – esclamò Darma. – Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong?

– Yanez, – disse Tremal-Naik, – che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti?

– O che cerchino di trarci in qualche agguato? – chiese invece il portoghese.

– In qual modo?

– Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all’amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti.

– Signor Yanez, – disse Darma. – Venite a prendere un po’ di riposo, intanto, ed a far colazione.

Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all’equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un’abbondante refezione all’inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti.

Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio.

Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall’alto del minareto: – All’armi!

E subito dopo rimbombarono alcuni spari.

Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura.

Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d’uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo.

Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell’indiano:

– Le tigri di Mompracem! Sambigliong!

Poi lanciarono due grida tuonanti:

– Fuoco le spingarde!

– Alzate la saracinesca ai nostri amici!

I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente.

I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta.

Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare.

La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso.

I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro.

– La mia nave? – gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong.

– Saltata, capitano, – rispose il mastro con voce rantolante.

– Da chi?

– Da noi… non potevamo più resistere… erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso… tutti i nostri compagni sono stati uccisi… anche i feriti… ho preferito dar fuoco alle polveri…

– Sei un valoroso, – gli disse Yanez, con voce profondamente commossa.

– Capitano… vengono… sono molti… preparatevi alla resistenza.

– Ah! vengono! – esclamò Yanez con voce terribile. – Vendicheremo i nostri morti!