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Il Corsaro Nero

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CAPITOLO XXVIII. I SUCCHIATORI DI SANGUE

La notte fu tranquilla, tanto tranquilla che i filibustieri poterono dormire placidamente alcune ore, sdraiati sulla biforcazione degli enormi rami del summameira.

Non vi fu che un allarme causato dal passaggio d’una piccola banda di Arawaki, componenti forse la retroguardia della tribú; però nemmeno costoro s’accorsero della presenza dei filibustieri e passarono oltre, proseguendo la loro marcia verso il nord.

Appena il sole spuntò, il Corsaro, dopo d’aver ascoltato a lungo, rassicurato dal profondo silenzio che regnava nella foresta, dava il comando di scendere per riprendere la marcia.

Primo pensiero di Carmaux appena fu a terra fu quello di mettersi in cerca del maracaya, che gli aveva fatto passare un cosí brutto quarto d’ora fra i rami dell’albero gigante, e lo trovò presso un cespuglio tutto fracassato dalla caduta e col capo spaccato dal calcio del fucile di Moko.

Era un animale che aveva il pelame somigliante a quello dei giaguari ed anche le forme, con la testa assai piú piccola, la coda piuttosto corta ed il corpo lungo appena ottanta centimetri.

– Canaglia!… – esclamò, afferrandolo per la coda e gettandoselo sulle spalle. – Se avessi saputo prima che era cosí piccolo, gli allungavo un tal calcio da farlo saltare in aria. Ma bah!… Mi vendicherò mettendolo arrosto e mangiandolo.

– Affrettiamoci, – disse il Corsaro. – Abbiamo perduto troppo tempo con quei selvaggi.

Il catalano consultò la bussola datagli da Wan Stiller, poi si mise in cammino aprendosi il passo fra le liane, le radici ed i cespugli.

La foresta era sempre fitta, composta per la maggior parte di palme miriti dai tronchi enormi, irti di spine acute che laceravano gli abiti ai filibustieri, e di cecropia, ossia di piante candelabri.

Di tratto in tratto si vedeva anche qualche splendida jupati, altra specie di palma con le foglie piumate, cosí immense, da raggiungere l’incredibile lunghezza di quindici metri, mentre il tronco è cosí corto che appena si innalza di qualche metro!…

Oppure si vedeva qualche gruppo di bussú, chiamato anche manicaria, dalle foglie rigide come se fossero di zinco, ed anche queste lunghe dieci, perfino undici metri, serrate, diritte e dentellate a mo’ di sega, e di pupunha, specie di palme che producono dei grappoli di frutta eccellenti.

Scarseggiavano invece gli uccelli e mancavano assolutamente le scimmie. Era molto se si vedeva qualche coppia di pappagalli dalle penne variopinte, e qualche solitario tucano dal becco rosso e giallo, ed il petto coperto da una fine lanuggine d’un rosso fuoco, o si udiva echeggiare il grido stridulo di qualche tanagra, bell’uccello dalle penne azzurre ed il ventre arancio-rossastro.

Dopo tre ore di marcia forzata, senza aver incontrato nessuna traccia d’uomo, i filibustieri s’accorsero che la foresta accennava a cambiare. Le palme si diradavano per lasciare posto alle iriartree panciute, le piante amanti dell’acqua; a boschetti di legno cannone; a bombax, alberi dal legno poroso, molle e bianco che sembra un formaggio e perciò chiamati anche formaggieri; a gruppi di mangli che producono delle frutta succose, che sanno di terebentina; ad ammassi di orchidee, di passiflore, di felci epifite e di aroidee, le cui radici aeree pendevano perpendicolarmente, ed a macchioni di splendide bromelie dai ricchi rami carichi di fiori scarlatti.

Il terreno, fino allora asciutto, s’impregnava rapidamente d’acqua, mentre l’aria diventava satura d’umidità. La foresta secca si tramutava in foresta umida, ben piú pericolosa della prima, perché sotto quelle piante si cela la febbre dei boschi, quella febbre che è fatale anche agli indiani già acclimatizzati.

Un silenzio profondo regnava sotto quei vegetali, come se quella esuberanza di umidità avesse fatto fuggire uccelli ed animali. Non un grido di scimmia, non il canto di un volatile qualsiasi, non il ruggito d’un coguaro od il miagolio d’un giaguaro.

Quel silenzio aveva qualche cosa di triste, di pauroso, che faceva un’impressione strana anche sui forti animi dei filibustieri della Tortue.

– Per mille pescicani!… – esclamò Carmaux. – Pare di attraversare un immenso cimitero.

– Ma un cimitero allagato – aggiunse Wan Stiller. – Sento che questa umidità mi penetra nelle ossa.

– Che sia il principio di un attacco di febbre paludosa?

– Non ci mancherebbe altro, – disse il catalano. – Chi viene colpito, non uscirà vivo da questa brutta foresta.

– Bah!… Ho la pelle dura, – rispose l’amburghese. – Le paludi dell’Yucatan mi hanno corazzato e tu sai che quelle producono il vomito prieto (la febbre gialla). Non sono le febbri che mi fanno paura, bensí la mancanza di selvaggina.

– Specialmente ora che siamo cosí a corto di viveri, – aggiunse l’africano.

– Ehi, compare sacco di carbone!… – esclamò Carmaux. – Hai dimenticato il mio gatto?… Eppure è abbastanza visibile.

– Durerà poco, compare, – rispose il negro. – Se non lo mangiamo oggi, domani quest’umidità calda lo avrà ridotto in tale stato di putrefazione, da doverlo gettare via.

– Bah!… Troveremo qualche cosa d’altro da porre sotto i denti.

– Tu non conosci queste foreste umide.

– Abbatteremo degli uccelli.

– Non ve ne sono.

– Dei quadrupedi.

– Nemmeno.

– Cercheremo delle frutta.

– Sono tutte piante infruttifere.

– Troveremo almeno qualche caimano.

– Non vi sono savane. Non vedrai che dei serpenti.

– Mangeremo quelli.

– Ah!… compare!…

– Per mille pescicani… In mancanza d’altro metteremo quelli ad arrosto e li faremo passare per anguille.

– Puah!…

– Oh!… Il negro schizzinoso!… – esclamò Carmaux. – Ti vedremo quando avrai fame.

Cosí chiacchierando continuavano a marciare di buon passo attraverso quei terreni umidissimi, sopra i quali ondeggiava di frequente una nebbiola carica di miasmi pericolosi.

Il caldo era intenso anche sotto le piante, un caldo snervante che faceva sudare prodigiosamente i filibustieri. Il sudore zampillava da tutti i pori, inzuppando le loro vesti e guastando perfino le loro armi, tanto che Carmaux non osava piú contare sulla carica del suo fucile.

Larghi stagni di quando in quando tagliavano la via, ripieni di un’acqua nera e puzzolente ed ingombri di piante acquatiche, dei veri agoa redonda, come li chiamavano i coloni spagnuoli; talvolta invece erano costretti a fermarsi dinanzi a qualche igarapé, ossia ad un canale naturale, comunicante con qualche corso d’acqua, perdendo molto tempo per cercare un guado non fidandosi di quelle sabbie traditrici che potevano inghiottirli.

Su quelle rive mancavano gli uccelli acquatici e abbondavano invece i rettili, in attesa della notte per dare la caccia ai ranocchi ed ai rospi. Si vedevano aggomitolati sotto i cespugli o distesi in mezzo alle foglie a scaldarsi al sole, i velenosissimi jararacà dalla piccola testa depressa; i piccoli cobra cipo; i caniana, quei voraci bevitori di latte che per procurarselo usano introdursi nelle capanne per succhiare le poppe delle indiane lattanti, e non pochi serpenti coralli che producono una morte quasi fulminante e contro il cui morso non vi è rimedio, trovandosi impotente perfino l’infusione del calupo diavolo, che generalmente è un rimedio efficace contro il veleno degli altri rettili.

I filibustieri, che provavano una ripugnanza invincibile per quei brutti rettili, non escluso Carmaux, si guardavano bene dal disturbarli e facevano attenzione dove posavano i piedi, per evitare qualche morso mortale.

A mezzodí, affranti da quella lunga marcia, si arrestavano senza aver scoperto le tracce di Wan Guld e della sua scorta.

Non possedendo che poche libbre di biscotti, si decisero ad arrostire il maracaya e, quantunque fosse assai coriaceo e puzzasse di selvatico, bene o male lo fecero passare. Carmaux però si ostinò a dichiararlo eccellente, contro il parere di tutti e ne fece una scorpacciata.

Alle tre, essendo un po’ cessato il calore infernale che regnava sotto quella foresta, riprendevano le mosse attraverso le paludi infestate di miriadi di zanzare, le quali si gettavano contro i filibustieri con vero furore, facendo sagrare Carmaux e Wan Stiller.

In mezzo a quelle acque stagnanti, ingombre di piante acquatiche, dalle foglie giallastre che si corrompevano sotto i raggi infuocati del sole esalando odori sgradevoli, si vedeva talvolta sorgere la testa di qualche serpente di acqua o apparire, ma per subito tuffarsi, qualche testuggine careto dalla corazza bruno oscura, chiazzata di macchie rossastre irregolari.

Mancavano invece sempre i volatili acquatici, come se non avessero potuto sopportare quelle esalazioni pericolose.

Affondando talvolta in terreni pantanosi, o passando sopra alberi atterrati, o aprendosi il passo attraverso i boschetti di legno cannone che servivano di rifugio a nubi di zanzare, i filibustieri, guidati dall’infaticabile catalano, procedevano sempre, spinti da un vivo desiderio di lasciare presto quella triste foresta.

Di frequente s’arrestavano per tendere gli orecchi, sperando sempre di raccogliere qualche rumore che indicasse la vicinanza di Wan Guld e della sua scorta, ma sempre con esito negativo. Un silenzio profondo regnava sotto quegli alberi ed in mezzo ai boschetti.

Verso sera, però, fecero una scoperta, che se da una parte li rattristò, d’altro canto li rese soddisfatti, essendo quella una prova che si trovavano ancora sulle tracce dei fuggiaschi.

Stavano cercando un posto adatto per accamparsi, quando videro l’africano, che si era un po’ allontanato con la speranza di trovare qualche pianta fruttifera, ritornare frettolosamente con gli occhi smarriti e la pelle del viso cinerea, ossia pallida.

– Che cos’hai, compare sacco di carbone? – chiese Carmaux, armando frettolosamente il fucile. – Sei inseguito da qualche giaguaro?

 

– No… là!… là!… un morto… un bianco! – rispose il negro.

– Un bianco!… – esclamò il Corsaro. – Uno spagnuolo vuoi dire?…

– Sí, padrone. Ci sono caduto addosso e l’ho sentito freddo come un serpente.

– Che sia quella canaglia di Wan Guld? – disse Carmaux.

– Andiamo a vedere, – disse il Corsaro. – Guidaci, Moko.

L’africano si cacciò in mezzo ad una macchia di calalupo, piante che producono delle frutta che tagliate a pezzi danno una bevanda rinfrescante e dopo venti o trenta passi s’arrestava alla base d’un simaruba, il quale si ergeva solitario col suo carico di fiori.

Colà i filibustieri videro, non senza un fremito d’orrore, un uomo disteso sul dorso, con le braccia strette sul petto, le gambe seminude ed i piedi già spolpati o da qualche serpente o dalle formiche termiti.

Aveva il viso giallo cereo imbrattato di sangue, uscitogli da una piccola piaga che si scorgeva presso la tempia destra, la barba lunga ed arruffata e le labbra contratte che mettevano a nudo i denti. Gli occhi erano già scomparsi e al loro posto non si vedevano che due buchi sanguinanti

Non vi era da ingannarsi sul suo vero essere, poiché indossava una corazza di pelle di Cordova ad arabeschi, calzoni corti a righe gialle e nere come usavano gli spagnuoli, e poco discosti stavano un mezzo elmetto d’acciaio adorno di una piuma bianca ed una lunga spada.

Il catalano, che pareva in preda ad una viva emozione, si era curvato su quel disgraziato, poi s’era risollevato prontamente, esclamando:

– Pedro Herrera!… Pover’uomo!… In quale stato lo ritrovo!…

– Era uno di coloro che seguivano Wan Guld? – chiese il Corsaro

– Sí, signore, un valoroso soldato ed un bravo camerata.

– Che sia stato ucciso dagli indiani?…

– Ferito sí, poiché vedo sul fianco destro un buco che mette ancora qualche goccia di sangue, ma il suo assassino è stato un pipistrello.

– Che cosa vuoi dire?…

– Che questo povero soldato è stato dissanguato da un vorace vampiro. Non vedete questo piccolo segno che ha presso la tempia e che ha dato tanto sangue?

– Sí, lo vedo.

– Forse Herrera era stato abbandonato dai compagni, a causa della ferita che gli impediva di seguirli nella loro precipitosa fuga, ed un vampiro, approfittando della sua stanchezza o del suo svenimento, l’ha dissanguato.

– Allora Wan Guld è passato di qui?

– Eccone la prova.

– Da quanto tempo credi che questo soldato sia morto?

– Forse da stamane. Se fosse morto da ieri sera, le formiche termiti l’avrebbero a quest’ora completamente spolpato.

– Ah!… Ci sono vicini!… – esclamò il Corsaro, con voce cupa. – A mezzanotte ripartiremo e domani tu avrai restituito a Wan Guld le venticinque legnate ed io avrò purgato la terra da quell’infame traditore e vendicato i miei fratelli.

– Lo spero, signore.

– Cercate di riposare meglio che potete, perché non ci arresteremo, se non quando avremo raggiunto Wan Guld.

– Diavolo! – mormorò Carmaux. – Il comandante ci farà trottare come cavalli.

– Ha fretta di vendicarsi, amico, – disse Wan Stiller.

– E di rivedere le sua Folgore.

– E la sua giovane duchessa?

– È probabile, Wan Stiller.

– Dormiamo, Carmaux.

– Dormire!… Non hai udito il catalano parlare di uccelli che dissanguano?… Fulmini!… Se a mezzanotte ci trovassimo tutti insanguinati?… Con questa idea non potrò dormire tranquillo.

– Il catalano ha voluto burlarsi di noi, Carmaux.

– No, Wan Stiller. Ho udito anch’io parlare di vampiri.

– E che cosa sono?…

– Dei brutti uccellacci, pare. Ehi, catalano, vedi nulla in aria?…

– Sí, le stelle, – rispose lo spagnuolo.

– Ti domando se vedi dei vampiri.

– È troppo presto. Lasciano i loro nascondigli solo quando gli uomini e gli animali russano sonoramente.

– Che bestie sono? – chiese Wan Stiller.

– Dei grossi pipistrelli dal muso lungo e sporgente, con gli orecchi grandi, di pelame morbido, rosso-bruno sul dorso e giallo-bruno sul ventre e con delle ali che misurano quaranta e piú centimetri.

– E dici che succhiano il sangue?

– Sí, e lo fanno cosí delicatamente, che non ve ne accorgereste, possedendo una tromba cosí sottile da rompere la pelle senza produrre alcun dolore. – Che ve ne siano qui?…

– È probabile.

– E se uno piombasse su di noi?…

– Bah!… Una sola notte non basta per dissanguarmi e tutto si limiterebbe ad una cavata di sangue, piú utile che dannosa, in questi climi. È bensí vero che le ferite che producono sono lunghe a guarire.

– Però il tuo amico con quella cavata di sangue è andato all’altro mondo, – disse Carmaux.

– Chissà quanto ne aveva perduto prima dalla ferita. Buonanotte, caballeros, alla mezzanotte si riparte.

Carmaux si lasciò cadere in mezzo alle erbe, ma prima di chiudere gli occhi guardò a lungo fra i rami del simaruba, per accertarsi che non vi si nascondesse qualche avido succhiatore di sangue.

CAPITOLO XXIX. LA FUGA DEL TRADITORE

La luna era appena sorta sopra le alte foreste, che già il Corsaro era in piedi, pronto a riprendere quell’ostinata caccia contro Wan Guld e la sua scorta.

Scosse il catalano, il negro ed i due filibustieri, e si ripose in marcia senza aver pronunciato una parola, ma con passo cosí lesto che i suoi compagni stentavano a seguirlo.

Pareva che fosse proprio deciso a non sostare senza aver raggiunto il suo mortale nemico; però ben presto nuovi ostacoli lo costrinsero non solo a rallentare quella marcia indiavolata, ma anche ad arrestarsi.

Bacini d’acqua che raccoglievano tutti gli scoli della foresta, terreni pantanosi, brughiere fittissime e corsi d’acqua s’incontravano a ogni tratto, obbligandoli a cercare dei passaggi o a descrivere dei lunghi giri, o a trovare dei guadi, o ad abbattere delle piante per improvvisare dei ponti.

I suoi uomini facevano sforzi sovrumani per aiutarlo, nondimeno cominciavano ad essere esausti da quelle lunghe marce che duravano già da quasi dieci giorni, dalle notti insonni ed anche in causa dello scarso nutrimento.

All’alba non ne potevano piú e furono costretti a pregarlo di accordare loro un po’ di riposo, non potendo piú reggersi in piedi ed essendo anche affamati, giacché i biscotti erano stati consumati ed il gatto di Carmaux era stato digerito da quindici ore.

Si misero in cerca di selvaggina e di alberi fruttiferi; quella foresta paludosa però sembrava che non potesse offrire né l’una né l’altra. Non s’udivano né cicalecci di pappagalli, né grida di scimmie, né si vedeva alcuna pianta che portasse qualche frutto mangiabile.

Tuttavia il catalano, che si era diretto verso una vicina palude assieme a Moko, fu ancora tanto fortunato da poter prendere colle mani, non senza però aver riportato dei morsi crudeli, una praira, pesce che abbonda nelle acque morte, colla bocca armata di acuti denti e dal groppone nero, mentre il suo compagno riusciva ad afferrare un cascudo, altro pesce lungo un piede, dalle squame durissime, nere sopra e rossicce sotto.

Quel magro pasto, assolutamente insufficiente per saziare tutti, fu presto divorato, poi, dopo qualche ora di riposo, si rimisero in caccia attraverso quella triste foresta, che pareva non dovesse finire mai.

Cercavano di mantenere la direzione sud-est, per avvicinarsi all’estremità del lago di Maracaybo trovandosi colà la forte cittadella di Gibraltar; erano però sempre costretti a deviare, in causa di quelle continue paludi e dei terreni fangosi.

Quella seconda corsa la prolungarono fino a mezzodí, senza aver scoperto le tracce dei fuggiaschi e senza aver udito alcun grido, né alcuna detonazione.

Verso le quattro pomeridiane, dopo un riposo d’un paio d’ore, scoprivano sulle rive d’un fiumiciattolo gli avanzi d’un fuoco le cui ceneri erano ancora calde.

Era stato acceso da qualche cacciatore indiano o dai fuggiaschi? Era impossibile saperlo, non avendo potuto trovare alcuna traccia di piedi, essendo colà il terreno asciutto e coperto di foglie, nondimeno quella scoperta li rianimò tutti, essendo convinti che in quel luogo si fosse arrestato Wan Guld.

La notte li sorprese senza che null’altro avessero trovato. Sentivano però per istinto che i fuggiaschi non dovevano essere lontani

Quella sera quei poveri diavoli si videro costretti a coricarsi senza cena, non avendo trovato assolutamente nulla.

– Ventre di pesce-cane! – esclamò Carmaux, che cercava di ingannare la fame masticando alcune foglie d’un sapore zuccherino. – Se la continua cosí, giungeremo a Gibraltar in tale stato da farci mettere subito in un ospedale.

La notte fu la piú cattiva di tutte quelle passate in mezzo ai boschi del lago di Maracaybo. Oltre le sofferenze della fame, si aggiunsero le torture loro inflitte da sciami immensi di zanzare ferocissime, le quali non permisero a quei disgraziati di chiudere gli occhi un solo istante.

Quando verso il mezzodí dell’indomani si rimisero in cammino erano piú stanchi della sera innanzi. Carmaux dichiarava che non avrebbe potuto resistere due ore ancora, se non trovava per lo meno un gatto selvatico da mettere ad arrostire o una mezza dozzina di rospi. Wan Stiller avrebbe preferito una schidionata di pappagalli o una scimmia, ma non si vedevano né gli uni né le altre in quella selva maledetta.

Camminavano, o meglio si trascinavano da quattro ore, seguendo il Corsaro che procedeva sempre lesto, come se possedesse un vigore sovrumano, quando a breve distanza udirono echeggiare uno sparo.

Il Corsaro si era subito arrestato, mandando un grido.

– Finalmente! – aveva esclamato, snudando la spada con gesto risoluto.

– Tuoni d’Amburgo! – gridò Wan Stiller. – Pare che questa volta ci siamo vicini.

– Speriamo che non ci scappino piú, – rispose Carmaux. – Li legheremo come salami, onde impedire loro di farci correre un’altra intera settimana.

– Questo colpo di fucile non è stato sparato che a mezzo miglio da noi, – disse il catalano.

– Sí, – rispose il Corsaro. – Fra un quarto d’ora spero di aver nelle mani l’assassino dei miei fratelli.

– Volete un consiglio, signore? – disse il catalano.

– Parla.

– Cerchiamo di tendere loro un agguato.

– Ossia?…

– Di aspettarli in qualche fitta macchia, per costringerli ad arrendersi senza impegnare una lotta sanguinosa. Devono essere sette od otto, mentre noi non siamo che cinque ed esausti di forze.

– Non saranno di certo piú gagliardi di noi, tuttavia accetto il tuo consiglio. Piomberemo loro addosso d’improvviso, in modo da non lasciare il tempo di difendersi. Preparate le armi e seguitemi senza far rumore.

Cambiarono le cariche dei fucili e delle pistole per non mancare ai colpi, nel caso che fossero costretti ad impegnare la lotta; indi si misero a strisciare in mezzo ai cespugli, alle radici e le liane, cercando di non far scrosciare le foglie secche, né di spezzare i rami.

La foresta paludosa pareva che fosse terminata. Ricominciavano gli alberi annosi, bombax, arcaaba, palme d’ogni specie, simaruba, mauritie, jupati, bussú e tante altre splendidissime, adorne di foglie di dimensioni esagerate e cariche di fiori e di frutta, di cui alcune eccellenti a mangiarsi.

Alcuni uccelli si ricominciavano a vedere, pappagalli, arà, canindé, tucani, mentre in distanza si udivano echeggiare le grida formidabili d’una banda di scimmie urlanti, facendo andare in bestia Carmaux, il quale rivedeva l’abbondanza senza poter approfittarne, essendo stato severamente proibito di far fuoco, per non allarmare il governatore e la sua scorta.

– Mi rifarò piú tardi, – brontolava, – ed abbatterò tanta selvaggina da mangiarne per dodici ore di fila.

Il Corsaro pareva che non si fosse accorto di quel cambiamento, tutto occupato nella sua vendetta. Egli strisciava come un serpente o balzava sopra gli ostacoli come una tigre, cogli occhi fissi dinanzi a sé per scoprire il suo mortale nemico.

Non si voltava nemmeno per vedere se i suoi compagni lo seguivano, come se fosse stato convinto d’impegnare e di vincere la lotta, anche da solo, contro l’intera scorta del traditore.

Non produceva il piú minimo rumore. Passava sugli strati delle foglie senza farle crepitare; apriva i rami senza quasi curvarli; sgattaiolava fra i festoni delle liane senza quasi muoverle e strisciava, meglio d’un rettile, fra le radici. Né le lunghe fatiche, né le privazioni avevano esaurito quell’organismo meraviglioso.

Ad un tratto però fu visto arrestarsi, colla sinistra armata di pistola tesa innanzi e la spada in alto, come se si preparasse a scagliarsi avanti con impeto irresistibile.

 

Due voci umane si udivano in mezzo ad un boschetto di calupi.

– Diego, – diceva una voce fioca, come se fosse per spegnersi. – Un sorso d’acqua ancora, uno solo… prima che chiuda gli occhi.

– Non posso, – rispondeva un’altra, rantolosa. – Non lo posso, Pedro.

– Ed essi sono lontani, – rispondeva la prima.

– E per noi è finita… Pedro… Quei cani d’indiani… mi hanno ferito a morte.

– Ed io… ho la febbre… che mi uccide…

– Quando… torneranno… non ci troveranno… piú.

– Il lago è… vicino… e l’indiano… sa dov’è… una barca… ah!… Chi vive?…

Il Corsaro Nero si era slanciato in mezzo alla macchia colla spada alzata, pronto a colpire.

Due soldati, pallidi, disfatti, coperti di soli cenci, stavano distesi ai piedi d’un grand’albero. Vedendo apparire quell’uomo armato, con uno sforzo supremo si erano alzati sulle ginocchia, cercando di afferrare i loro fucili che tenevano a qualche passo da loro, però erano subito ricaduti, come se le forze loro fossero improvvisamente mancate.

– Chi si muove è uomo morto!… – aveva gridato il Corsaro, con voce minacciosa.

Uno dei due soldati si era risollevato, dicendo con un sorriso forzato:

– Eh, caballero!… Non ucciderete che dei moribondi!

In quel momento il catalano si era pure slanciato in mezzo alla macchia seguito dall’africano e dai due filibustieri. Due grida gli sfuggirono:

– Pedro!… Diego!… Poveri camerati!…

– Il catalano!… – esclamarono i due soldati.

– Sono io, amici e…

– Silenzio, – disse il Corsaro. – Ditemi, dov’è Wan Guld?

– Il Governatore?… – chiese colui che si chiamava Pedro. – È partito da tre ore.

– Solo?

– Con un indiano che ci ha servito di guida e i due ufficiali.

– Sarà lontano?… Parlate se volete che non vi uccida.

– Non devono aver fatta molta strada.

– È aspettato sulle rive del lago?…

– No, però l’indiano sa dove trovare una barca.

– Amici, – disse il Corsaro. – Bisogna ripartire o Wan Guld ci sfuggirà!

– Signore, – disse il catalano, – volete che abbandoni i miei camerati?… Il lago è vicino, la mia missione quindi è finita e per non abbandonare questi disgraziati rinuncio alla mia vendetta.

– Ti comprendo, – rispose il Corsaro. – Sei libero di fare ciò che vorrai, ma credo che il tuo soccorso sarà inutile.

– Forse posso salvarli, signore.

– Lascio a te Moko. Io ed i miei due filibustieri bastiamo per dare la caccia a Wan Guld.

– Ci rivedremo a Gibraltar, signore, ve lo prometto.

– Hanno dei viveri i tuoi camerati?…

– Alcuni biscotti, signore, – risposero i due soldati.

– Bastano, – disse Carmaux.

– E del latte, – aggiunse il catalano che aveva gettato un rapido sguardo sull’albero alla cui base giacevano i due spagnuoli della scorta.

– Non domando di piú pel momento, – rispose Carmaux.

Il catalano colla navaja aveva fatta una profonda incisione sul tronco di quella pianta, che non era veramente un albero del latte ma una massarauduba, una specie quasi simile e che secerne una linfa bianca e densa, molto nutritiva, che ha pure il sapore del latte, della quale però non si deve abusare, producendo sovente dei disturbi qualche volta gravi.

Riempí le fiaschette dei filibustieri, diede loro alcuni biscotti, poi disse:

– Partite, caballeros, o Wan Guld vi sfuggirà ancora. Spero che ci rivedremo a Gibraltar.

– Addio, – rispose il Corsaro, rimettendosi in marcia. – Ti aspetto laggiú.

Wan Stiller e Carmaux che si erano un po’ rinvigoriti, vuotando mezza fiaschetta e divorando frettolosamente alcuni biscotti, si erano lanciati dietro di lui, facendo appello a tutte le loro forze per non rimanere indietro.

Il Corsaro si affrettava per guadagnare le tre ore di vantaggio che avevano i fuggiaschi e per poter giungere sulle rive del lago, prima che calassero le tenebre. Erano già le cinque del pomeriggio, il tempo era quindi brevissimo.

Fortunatamente la foresta si diradava sempre. Gli alberi non erano piú uniti e collegati tra di loro dalle liane, bensí raggruppati in macchioni isolati, sicché i filibustieri potevano procedere speditamente, senza essere obbligati a perdere un tempo prezioso nell’aprirsi il passo fra i vegetali.

La vicinanza del lago già si tradiva. L’aria era diventata piú fresca e satura di emanazioni saline, e degli uccelli acquatici, per lo piú qualche coppia di bernacle, uccelli che si trovano in gran numero sulle rive del Golfo di Maracaybo, si mostravano.

Il Corsaro accelerava sempre, timoroso di giungere troppo tardi addosso ai fuggiaschi. Non marciava piú, correva, mettendo a dura prova le gambe di Carmaux e di Wan Stiller.

Alle sette, nel momento in cui il sole stava per tramontare, vedendo che i suoi compagni rimanevano indietro, accordò loro un riposo d’un quarto d ora, durante il quale vuotarono le loro fiaschette, mandando giú un paio di biscotti.

Il Corsaro però non stette fermo. Mentre Wan Stiller e Carmaux riposavano, frugò i dintorni, sperando di trovare le tracce dei fuggiaschi, e s’allontanò verso il sud credendo forse di udire, in quella direzione, qualche sparo o qualche rumore che indicassero la vicinanza del traditore

– Partiamo, amici, un ultimo sforzo ancora e Wan Guld cadrà finalmente nelle mie mani, – disse, appena fu tornato. – Domani potrete riposare a vostro agio.

– Andiamo, – disse Carmaux, alzandosi con grande fatica. – Le rive del lago devono essere vicine.

Ripresero le mosse, ricacciandosi in mezzo ai macchioni. Le tenebre cominciavano allora a calare e qualche urlo di belva si faceva udire nelle parti piú folte della foresta.

Marciavano da venti minuti, ansando e sbuffando, essendo tutti esausti, quando udirono dinanzi a loro dei cupi muggiti, che parevano prodotti da onde che si frangevano sulla riva. Quasi nel medesimo istante, fra gli alberi videro brillare una luce.

– Il golfo!… – esclamò Carmaux.

– E quel fuoco indica l’accampamento dei fuggiaschi, – urlò il Corsaro. – Le armi in mano, uomini del mare!… L’assassino dei miei fratelli è mio!…

Si erano messi a correre verso quel fuoco, che pareva ardesse sul margine della foresta. In pochi salti il Corsaro, che precedeva i due filibustieri, superò la distanza e piombò in mezzo allo spazio illuminato, colla formidabile spada in pugno, pronto ad uccidere, ma invece fu veduto arrestarsi, mentre un urlo di furore gli irrompeva dalle labbra.

Attorno a quel fuoco non vi era nessuno. Si vedevano bensí le tracce d’una recente fermata, gli avanzi di una scimmia arrostita, dei pezzi di biscotto ed una fiaschetta spezzata, però coloro che si erano colà accampati erano già partiti.

– Fulmini dell’inferno!… Troppo tardi!… – urlò il Corsaro con voce terribile.

– No, signore!… gridò Carmaux che lo aveva raggiunto. – Forse sono ancora a portata delle nostre palle!… Là!… Là!… Sulla spiaggia!…

Il Corsaro aveva volto gli sguardi da quella parte. A duecento metri la foresta cessava bruscamente e si estendeva una spiaggia bassa, sulla quale rotolavano, gorgogliando, le onde del lago.

Agli ultimi bagliori del crepuscolo, Carmaux aveva scorto un canotto indiano prendere frettolosamente il largo, piegando verso il sud, ossia in direzione di Gibraltar.

I tre filibustieri si erano precipitati sulla spiaggia, armando rapidamente i fucili.

– Wan Guld!… – urlò il Corsaro. – Fermati o sei un vile!…

Uno dei quattro uomini che montavano il canotto s’alzò ed un lampo balenò dinanzi a lui. Il Corsaro udí il fischio di una palla che si perdeva fra i rami dei vicini alberi.

– Ah!… Traditore!… – urlò il Corsaro, al colmo della rabbia. – Fuoco su coloro!…

Wan Stiller e Carmaux si erano inginocchiati sulla sabbia puntando i fucili. Un istante dopo due detonazioni rimbombavano.

Al largo si udí echeggiare un grido e si vide qualcuno cadere; pure il canotto, invece di arrestarsi, s’allontanò con maggior rapidità, dirigendosi verso le sponde meridionali del lago e confondendosi fra le tenebre, che allora scendevano con quella rapidità fulminea particolare delle regioni equatoriali.

Il Corsaro, ebbro di furore, stava per slanciarsi lungo la spiaggia con la speranza di trovare qualche canotto, quando Carmaux lo arrestò, dicendogli: – Guardate, capitano!

– Che cosa vuoi? – chiese il Corsaro.

– Vi è un’altra scialuppa arenata sulla sabbia.