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I misteri della jungla nera

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– È ancora lontano Manciadi, – diss’egli. – Tutto va bene.

Entrò nella capanna s’armò di pistole e d’un coltellaccio, poi uscì guardando attentamente verso il fiume e verso la jungla.

– Darma, seguimi diss’egli.

La tigre con un salto lo raggiunse e tutti e due si slanciarono a rompicollo verso il sud, nascosti da una piccola piantagione di mussenda e di indaco. In meno di cinque minuti raggiunsero i bambù e s’imboscarono a sette od otto passi da Tremal-Naik.

Un terzo squillo di tromba, ma più vicino, ruppe il profondo silenzio che regnava nelle Sunderbunds.

– Buono, – mormorò Kammamuri, impugnando una delle due pistole. – Il miserabile ci sta vicino.

Guardò il padrone. Pareva un vero cadavere: era coricato su di un fianco, colla testa nascosta sotto un braccio. Avrebbe ingannato anche un marabù, anche uno sciacallo.

D’un tratto un magnifico pavone si alzò fra i bambù, volando via rapidamente. Kammamuri passò una mano sulla tigre che fiutava l’aria ed agitava la coda a mo’ dei gatti.

– Non muoverti, Darma, – le sussurrò.

Un secondo pavone s’alzò emettendo un grido di spavento.

Manciadi si avvicinava strisciando come un serpe, senza produrre il più piccolo rumore. Forse temeva di cadere in un’imboscata e s’avanzava con mille cautele.

Kammamuri s’alzò sulle ginocchia, tendendo la mano armata di pistola.

Là, di faccia, scorse i bambù a muoversi impercettibilmente, poi uscirono due mani ed infine una testa d’un giallo lucente.

Kammamuri sentì la fronte imperlarsi d’un freddo sudore.

Quella testa era di Manciadi, l’assassino del povero Aghur.

– Darma, – mormorò.

La tigre si era alzata raccogliendosi su se stessa; non aspettava che il comando per avventarsi.

Manciadi guardò Tremal-Naik con due occhi che mandavano cupi lampi e diede in un orribile scroscio di risa. Il cacciatore di serpenti non si mosse.

L’indiano allora uscì dai bambù, col laccio in mano, e fece alcuni passi verso il finto cadavere.

– Darma, afferralo! – esclamò Kammamuri, saltando in piedi.

La tigre fece un balzo di quindici passi e piombò come un fulmine sull’assassino, che fu violentemente atterrato.

Tremal-Naik rialzandosi si scagliò su di lui e con un formidabile pugno lo stordì.

– Tieni saldo padrone! – gridò il maharatto, accorrendo. – Fracassagli una gamba per impedirgli di muoversi.

– È inutile, Kammamuri, – disse Tremal-Naik, trattenendo la tigre.– L’ho mezzo accoppato.

Infatti l’indiano, colpito in fronte dal pugno d’acciaio del cacciatore di serpenti, non dava più segno di vita.

– Là, così va bene, – disse Kammamuri. – Ora lo faremo parlare. Non uscirà vivo dalle nostre mani, te lo giuro, padrone, e Aghur sarà vendicato.

– Non parlare così forte, Kammamuri, – mormorò Tremal-Naik, tornando ad allontanare la tigre che voleva sbranare il prigioniero.

– Credi che vi sieno degli altri indiani nei dintorni?

– Potrebbero esservi. Orsù, il cielo si oscura rapidamente e minaccia un uragano. Portiamolo nella capanna.

Kammamuri prese per le gambe Manciadi, Tremal-Naik lo afferrò pei polsi e partirono correndo, nel mentre che giganteschi nuvoloni neri s’alzavano con rapidità vertiginosa, dal sud.

Pochi minuti dopo giungevano alla capanna sbarrando la porta dietro di loro.

XIII. La tortura

Il più era fatto. Non restava ora che a far parlare il prigioniero, cosa non tanto facile essendo gl’indiani più cocciuti delle pelli-rosse dell’America. Però, i due cacciatori di serpenti possedevano dei mezzi potenti per far sciogliere la lingua anche ad un muto.

Disteso il prigioniero in mezzo alla capanna, accesero a poca distanza dai suoi piedi un gran fuoco, ed attesero pazientemente che ritornasse in sé, per cominciare la prova.

Non corse molto tempo che l’indiano diede segno d’essere ancora vivo.

Il petto gli si sollevò impetuosamente dilatandosi, agitò le membra, si scosse e finalmente aprì gli occhi fissandoli sul cacciatore di serpenti che stavagli curvato sopra.

Tosto una profonda meraviglia si dipinse sul suo volto e subito dopo i suoi lineamenti si alterarono dimostrando dispetto, terrore e rabbia.

Le sue dita si contrassero rigando colle unghie il terreno e un sogghigno feroce sfiorò le sue labbra, mostrando due file di denti aguzzi come quelli di una tigre.

– Dove sono? – chiese egli con voce sorda. Tremal-Naik avvicinò il volto a quello di lui.

– Mi riconosci? – gli chiese, frenando a gran pena l’ira che bollivagli nel petto. – Mi riconosci?

– Se non m’inganno, tu sei l’uomo che dovevo strozzare, – disse.– Che stupido che fui, a lasciarmi prendere.

– Non ti sembra che l’agguato sia riuscito bene?

– Non lo nego. Doveva aspettarmelo.

– Tremi dinanzi a me?

– Io tremare! – esclamò lo strangolatore, sorridendo. – Manciadi non ha paura che di Kâlì.

– Kâlì! Chi è questa Kâlì? Io l’ho udito ancora questo nome.

– Sì, l’hai udito la notte che cadesti sotto il pugnale di Suyodhana. Ah!… ah!.. che bel colpo fu quello!…

– Tanto bello che sono ancora vivo.

– È una disgrazia che tu sia vivo.

– È vero, – disse Tremal-Naik, con ironia. – Se fossi sceso sotto terra, non ritornerei a Raimangal a sterminare gli assassini.

Un sogghigno contorse le labbra dello strangolatore.

– Tu non conosci Suyodhana, – diss’egli.

– Lo conoscerò, Manciadi, te lo prometto e forse prima di domani a sera.

– Devo crederti?

– Devi credermi; Tremal-Naik è un uomo di parola.

– Ah! ah! – fe’ Manciadi. Non farai un passo verso le coste di Raimangal, che avrai cento lacci al collo.

– Lasciamo Suyodhana ed i lacci, ora, parliamo di cose più importanti.

– Come vuoi.

– Bada però, Manciadi, che se non dici la verità, ti faccio soffrire mille torture.

– Manciadi è forte.

– Lo dirai più tardi. Ascoltami e rispondi e tu Kammamuri riattizza il fuoco che forse ne avremo bisogno.

Un fremito passò sul volto giallognolo di Manciadi, egli fissò angosciosamente le vampe che s’alzavano e s’abbassavano, illuminando bizzarramente le affumicate pareti della capanna.

– Manciadi, – proseguì Tremal-Naik, – chi è questa divinità che tu chiami Kâlì e che esige tante vittime?

– Non parlerò.

– Cominci male, Manciadi. Mi costringerai a torturarti.

– Manciadi è forte.

– Passiamo ad altro. A me occorre sapere quanti uomini si trovano a Raimangal.

– Lo ignoro io stesso. So che sono molti e che obbediscono tutti a Suyodhana, nostro capo.

– Manciadi, conosci tu la vergine della pagoda sacra?

– E chi non la conosce?

– Bene, parlami di Ada Corishant.

– Un lampo di gioia feroce guizzò negli occhi di Manciadi.

– Parlarti di Ada Corishant! – esclamò egli, ghignando. – Giammai!

– Manciadi! – disse Tremal-Naik, furente. – Bada che ti farò soffrire mille torture se ti ostini a tacere. Dove trovasi Ada Corishant?

– Chissà! Forse a Raimangal, forse al nord del Bengala, forse in mare. Forse è ancora viva e forse è agonizzante.

Tremal-Naik emise un grido di rabbia.

– Forse agonizzante! – esclamò, mordendosi le mani. – Tu sai qualche cosa. Oh! parlerai, sì parlerai, dovessi abbruciarti le gambe.

– Abbruciami anche le braccia fino alle spalle, Manciadi non parlerà. Lo giuro sulla mia dea.

– Ma, miserabile, non hai mai amato tu, adunque?

– Non ho amato che la mia dea e il mio fedele laccio.

– Odimi, Manciadi! – gridò Tremal-Naik fuori di sé. – Io ti libererò, io ti darò fino all’ultima rupia che posseggo, ti darò tutte le mie armi, diventerò se vuoi tuo schiavo, ma dimmi dove si trova la povera Ada, se è viva o morta, dimmi, se v’è speranza di salvarla. Ho sofferto atrocemente, Manciadi, non farmi soffrire di più, non uccidermi. Parla, o ti faccio a brani coi miei denti!

Manciadi rimase muto, guardandolo cupamente.

– Ma parla, mostruosa creatura, parla! – urlò Tremal-Naik.

– No!… – esclamò l’indiano con incrollabile fermezza. – Non uscirà una parola dalla mia bocca.

– Ma hai un cuore di ferro, tu?

– Sì, di ferro e ricolmo d’odio.

–Per l’ultima volta, parla, Manciadi!

– Giammai! giammai!

Tremal-Naik gli torse i polsi. – Miserabile! – gli urlò agli orecchi.

– Ti uccido.

– Uccidimi, ma non parlerò.

– Kammamuri, a me!

Afferrò il prigioniero per le braccia e lo scagliò violentemente a terra. Il maharatto prese i piedi e li avvicinò alla fiamma. La dura pelle delle piante s’annerì al contatto dei carboni ardenti e scoppiettò. Un nauseante odor di bruciaticcio si sparse per la capanna.

Manciadi trabalzò mugolando come una tigre ed i suoi occhi si iniettarono di sangue

– Tieni fermo, Kammamuri, – disse Tremal-Naik.

Un urlo straziante irruppe dal petto del torturato.

– Basta… basta, – ripeté egli con voce strozzata.

– Parlerai? – gli chiese Tremal-Naik.

Manciadi digrignò i denti poi si morse le labbra e ferocemente negò, quantunque il fuoco continuasse a mordergli e calcinargli le carni.

Passarono ancora due o tre secondi. Un secondo urlo, ancor più straziante del primo, gli uscì dalle labbra.

– Basta!… – rantolò. – È troppo!…

– Parlerai ora?

– Sì… parlerò… basta… Aiuto!…

Tremal-Naik con una violenta strappata lo allontanò dal braciere.

– Parla, miserabile! – gli gridò.

Manciadi lo guardò in volto con due occhi che facevano paura. Con uno sforzo disperato s’alzò a sedere, ma ricadde mandando un rauco gemito e rimase immobile colla faccia orribilmente sconvolta per lo spasimo e la bocca contorta.

– È morto? – chiese Kammamuri spaventato.

– No, non è che svenuto, rispose Tremal-Naik.

 

– Bisogna andar cauti, padrone. Se ci muore prima che abbia confessato, è una grande disgrazia.

– Non morrà così presto, te l’assicuro.

– Parlerà?

– Bisogna che parli. Hai udito tu, che Ada è forse agonizzante? Bisogna che sappia tutto, dovessi estrargli tutto il sangue dalle sue vene a goccia, a goccia.

– Non credere, padrone. Il miserabile può avere mentito.

– Siva voglia che sia così. Se la mia Ada muore, sento che non le sopravviverò Guarda che destino crudele! Amarla, essere riamato e non poterla far mia. Oh! ma lo sarà, lo giuro su tutte le divinità dell’India.

– Calma, padrone. Ecco che il nostro uomo comincia a dar segno di vita.

Lo strangolatore ritornava in sé. Un fremito scosse le sue membra che sembravano irrigidite, alzò lentamente la testa rigata da grosse goccie di sudore, i suoi lineamenti poco prima orribilmente alterati si ricomposero e finalmente aprì gli occhi fissandoli sul cacciatore di serpenti. Aprì la bocca come se volesse parlare, ma la lingua non emise suono alcuno; solamente un sordo brontolìo, una specie di gemito soffocato, gli risuonò in fondo alla gola.

– Manciadi, parla! – disse Tremal-Naik.

Il torturato non rispose.

– Vedi quel fuoco? Se tu non sciogli la lingua, ricomincio le torture

– Parlare? – ruggì Manciadi. – Mi hai… rovinato… non potrò più camminare… Uccidimi se vuoi… ma non parlerò.

– Manciadi non irritarmi, perché non avrò pietà alcuna.

– Ti odio… ma la tua Ada… la donna che tu ami… morrà!… Quale gioia, al pensare… che proverà i miei stessi tormenti… Mi pare di udire le sue urla… guardala là… legata sulla fiammeggiante pira… Suyodhana sogghigna… i thugs le danzano intorno… Kâlì sorride… Ecco le fiamme che l’avvolgono… Ah! ah! ah!…

Il miserabile proruppe in un satanico scroscio di risa, a cui fece eco il primo tuonar della folgore, che scosse la capanna fino alle fondamenta.

Tremal-Naik si gettò, come un forsennato, sull’indiano.

– Tu menti, – urlò. – Non è possibile! non è possibile!

– È vero… la tua Ada sarà bruciata…

– Dimmi tutto! lo voglio, te lo comando!

– Mai!

Tremal-Naik, pazzo d’ira e di disperazione, tornò ad afferrarlo per trascinarlo accanto al fuoco. Kammamuri intervenne.

– Padrone, – gli disse arrestandolo, – quest’uomo non può subire una seconda tortura e morrà. Il fuoco è insufficiente a farlo parlare, proviamo il ferro.

– Cosa vuoi dire!

– Lascia fare a me; parlerà, lo vedrai.

Il maharatto passò nella stanza attigua e poco dopo ricomparve portando una specie di trapano alla cui estremità aveva applicato due spiragli opposti, d’acciaio temperato, con due punte, lontane l’una dall’altra, un centimetro.

– Cos’è quella roba lì? – chiese Tremal-Naik.

– Un cava stoppacci, – rispose il maharatto. – Ora mi vedrai adoperarlo e ti giuro che nessun uomo, per quanto sia forte e caparbio, può resistere a simile prova. I maharatti se ne intendono.

Afferrò il piede dritto del prigioniero e applicò sul pollice le due punte dello spirale.

– Attento, Manciadi, che incomincio.

Le due spirali si sprofondarono nelle carni. Il maharatto guardò in volto il torturato, tutto coperto di un gelido sudore.

– Debbo continuare? – gli chiese.

Manciadi die’ in un sussulto.

Kammamuri riprese la tortura.

Il torturato, scosso da una terribile commozione, mandò un urlo disperato.

– Confessa o proseguo, – disse il maharatto.

– No… non proseguire… Confesso tutto…

– Lo sapeva io che tu avresti parlato. Spicciati, se non vuoi che ricominci sull’altro piede. Dov’è la vergine della pagoda sacra?

– Nei… sotterranei, – mormorò con voce semi-spenta Manciadi.

– Giurami sulla tua divinità che non c’inganni.

– Lo… giuro… su… Kâlì.

– Avanti ora. Qual pericolo corre? Di’, su, tutto.

– M’avevano ordinato… Ah! cani…

– Tira avanti.

– Una condanna pesa… su Ada… Kâlì l’ha dannata a morire… Il tuo padrone l’ama… essa lo riama… Ebbene, uno dei due… bisogna che muoia. M’avevano qui… mandato per assassinarlo… Ho mancato al colpo…

– Avanti! Avanti! – esclamò Tremal-Naik, che non perdeva una sillaba.

– Non mi vedranno… indovineranno la sorte che… mi è toccata… sapranno che tu… sei ancor vivo… Ebbene, uno dei due… bisogna che muoia… Ada è in loro… mano… morrà… abbruciata… Kâlì l’ha condannata.

– Orrore! Ma io la salverò!…

Un sorriso ironico agitò le labbra del torturato.

– I thugs sono… potenti, – balbettò.

– Ma Tremal-Naik sarà più potente di loro. Odimi, Manciadi. Io so che il banian sacro conduce nei sotterranei; è d’uopo che sappia il segreto per scendere.

– Ho parlato… troppo. Puoi uccidermi, giacché… sono agonizzante… ma non… dirò altro. Lasciami morire…

– Devo ricominciare? – chiese Kammamuri.

– So quanto mi occorre, – disse Tremal-Naik. – Parto!

– Questa istessa notte?

– Non hai udito tu?… Domani potrebbe essere troppo tardi.

– La notte è oscura e tempestosa.

– Tanto meglio; approderò senz’essere veduto.

– Padrone, andare a Raimangal è come andare incontro alla morte.

– In questa notte, Kammamuri, non m’arresteranno nemmeno i fulmini del cielo. Darma!

La tigre. che stava accovacciata nella stanza attigua, s’alzò mugolando e venne a collocarsi vicino al padrone.

– Andiamo al canotto, buona bestia, e prepara i tuoi artigli.

– Ed io, padrone, cosa devo fare? – chiese Kammamuri. Tremal-Naik pensò alcuni istanti, poi disse:

– Quell’uomo è ancora vivo e probabilmente non morrà; veglierai su di lui. Chissà, forse potrebbe esserci ancora utile.

– E vuoi partire senza di me?

– Tu lo vedi, non puoi seguirmi. Se lasciamo solo quell’uomo, domani sarà morto. Ti attendo al canotto.

Tremal-Naik s’armò della carabina, delle pistole e del coltellaccio, si munì di un’ampia provvista di polvere e di palle ed uscì a rapidi passi. La tigre gli si mise dietro balzando a destra ed a manca, mescendo i suoi ruggiti agli urli del vento e al rombo dei tuoni.

– La notte non è buona, – disse Tremal-Naik, guardando le tempestose nubi, – ma nulla m’arresterà. Ah! potessi giungere in tempo da salvarla. Povera Ada!

D’un tratto una secca detonazione giunse ai suoi orecchi, seguita dall’abbaiar lugubre di Punthy.

– Cos’è? – si chiese Tremal-Naik, sorpreso.

Guardò verso la capanna e scorse Kammamuri che gli veniva incontro correndo. Era armato fino ai denti e sulle spalle portava i remi del canotto.

– Cos’è successo? – chiese il cacciatore di serpenti.

– Kammamuri ha vendicato Aghur, – rispose il maharatto.

– Hai ucciso Manciadi, forse?

– Sì, padrone, con una pistolettata. Quell’uomo ci era d’impiccio; ora almeno potrò seguirti.

– Kammamuri, sai che forse non ritorneremo mai più nella jungla?

– Lo so, padrone.

– Sai che a Raimangal ci attende la morte?

– Lo so, padrone. Tu vai a sfidarla per salvare la donna che tu ami ed io ti seguo. Meglio morire al tuo fianco che solo nella jungla.

– Ebbene, mio prode Kammamuri, seguimi! Punthy veglierà sulla nostra capanna.

XIV. A Raimangal

Come aveva detto il maharatto, la notte era tempestosa. Enormi masse di vapori s’erano alzate dal sud e correvano disordinatamente per la volta celeste, accavallandosi come le onde del mare.

Frequenti colpi di vento si lanciavano attraverso le deserte Sunderbunds, curvando con mille gemiti le immense piantagioni di bambù, strappando le deboli canne che volavano per l’aria assieme a bande di marabù e di pavoni che gettavano grida disperate.

Di quando in quando poi, un lampo livido, abbagliante, rompeva le tenebre, mostrando quel caos di vegetali contorti ed atterrati, seguito poco dopo da un formidabile scroscio che si ripercuoteva fino alle rive del golfo del Bengala.

Non pioveva, ma le cateratte del cielo non dovevano tardare ad aprirsi.

I due indiani e la tigre in pochi minuti guadagnarono la riva del Mangal, le cui acque, ingrossate da qualche acquazzone, scorrevano con maggiore rapidità, trascinando ammassi di bambù strappati probabilmente alle Sunderbunds del settentrione e gran numero di tronchi d’albero.

Stettero alcuni minuti nascosti fra i canneti, aspettando che un lampo rischiarasse la riva opposta, poi, certi di non essere spiati, s’affrettarono a scendere la riva ed a spingere in acqua il canotto.

– Padrone, – disse Kammamuri, mentre Tremal-Naik vi balzava dentro. – Credi tu che incontreremo degli indiani lungo il fiume o nei dintorni di Raimangal?

– Ne sono certo ma cosa importa? Questa notte mi sento tanto forte da cozzare contro un esercito di mille uomini. La passione che m’arde in petto, mi darà la forza necessaria per vincere e superare ogni ostacolo.

– Lo so, padrone, ma bisogna agire con prudenza. Se ci scorgono daranno l’allarme e ci impediranno di sbarcare.

– E come vorresti fare?

– Ingannarli.

– Come?

– Lascia fare a me; passeremo senz’essere veduti.

Il maharatto riguadagnò la riva, abbatté un considerevole numero di bambù lunghi non meno di quindici metri e coprì accuratamente il canotto, in modo da farlo sembrare un ammasso di canne in balìa della corrente.

– Fa oscuro, – diss’egli nascondendovisi sotto con Tremal-Naik e Darma. – Gl’indiani non sospetteranno che sotto le canne v’è un canotto e che il canotto porta due uomini ed una belva.

– Presto, Kammamuri, spingiamoci al largo, – disse Tremal-Naik che fremeva d’impazienza. – Ogni minuto che scorre, è per me un colpo di pugnale al cuore ed io tremo tutto pensando al gran pericolo che corre Ada. Credi tu, maharatto, che noi arriveremo a salvarla?

– Lo credo, padrone, – rispose Kammamuri, spingendo il canotto in mezzo alla corrente. – Forse quegli uomini sperano che il miserabile abbia compiuto il delitto.

– E se noi arrivassimo tardi?… Grande Siva, qual terribile colpo! Io non sopravviverei, lo sento, alla catastrofe.

– Calma, padrone. Chissà, forse Manciadi ha esagerato.

– Possa essere vero. Mia povera Ada, potessi ancora rivederti.

– Zitto, padrone; parlare è imprudente.

– È vero, Kammamuri: silenzio.

Tremal-Naik si sdraiò a prua a fianco della tigre e Kammamuri a poppa, col remo in mano, cercando di dirigere il canotto.

L’uragano allora raddoppiava di violenza e alla notte oscura era successa una notte di fuoco.

Il vento ruggiva tremendamente nella jungla, curvando con mille gemiti e mille scricchiolii i giganteschi vegetali e torcendo in mille guise i cento tronchi dei banian, i rami dei palmizi tara, dei latania, dei pipal e dei giacchieri, e fra le nubi scrosciava incessantemente la folgore che veniva giù, descrivendo abbaglianti zig-zag.

Il canotto trascinato dal vento e dalla corrente straordinariamente gonfia, filava come una freccia, dondolandosi spaventosamente fra i gorghi, cozzando e tornando a cozzare contro le molteplici isolette e contro la moltitudine d’alberi che andavano disordinatamente alla deriva.

Kammamuri si sforzava, ma invano, di mantenerlo sulla buona via e Tremal-Naik cercava di calmare la tigre, la quale, spaventata da tutti quei fragori e da quell’abbagliante chiarore, ruggiva ferocemente, lanciandosi dall’uno all’altro bordo della imbarcazione con grande pericolo di rovesciarla.

Alle dieci di sera Kammamuri segnalò un gran fuoco che ardeva sulla riva del fiume a meno di trecento passi dalla prua del canotto. Non aveva ancora terminato di parlare, che si udì il ramsinga suonare tre volte e su tre diversi toni.

– Allerta, padrone! – gridò, dominando colla voce tutti quei formidabili fragori.

– Scorgi nessuno? – chiese Tremal-Naik, tenendo stretta pel collo la tigre colla mano sinistra e impugnando colla destra una pistola.

– No, padrone, ma il fuoco fu certamente acceso per vedere chi va o viene. Stiamo in guardia; il ramsinga ha segnalato qualche cosa.

– Prendi la carabina. Forse daremo battaglia.

Il canotto s’avvicinava rapidamente al fuoco, il quale bruciava un ammasso di bambù secchi, rischiarando come in pieno giorno le due rive del fiume.

– Padrone, guarda! – disse d’un tratto Kammamuri.

– Zitto! – bisbigliò Tremal-Naik, serrando la bocca alla tigre.

Due indiani si erano improvvisamente lanciati fuori da un cespuglio di mussenda.

Portavano il laccio attorno al corpo e tenevano una carabina in mano.

Sui loro petti, si scorgeva distintamente il serpente azzurro colla testa di donna.

 

– Guarda laggiù! – gridò uno di essi. – Vedi?

– Sì, – rispose l’altro. – È un ammasso di canne che va alla deriva.

– Lo credi?

– E perché no?

– Temo che nasconda qualche cosa.

– Non vedo nulla sotto.

– Taci!… To’. Mi sembrò di avere udito…

– Un ruggito, vuoi dire?

– Precisamente. Che ci sia una tigre là in mezzo?

– Buon viaggio.

– Adagio, Huka. L’uomo che Manciadi deve strangolare ha una tigre.

– Questo non lo sapeva. E vuoi tu, che là sotto ci sia il nostro uomo colla sua bestia?

– Potrebbe darsi. Quell’uomo è astuto ed audace.

– Cosa conti di fare?

– Scovarlo con un colpo di carabina. Mira molto basso.

Kammamuri e Tremal-Naik avevano udito distintamente il dialogo.

Vedendo i due indiani alzare le carabine, si gettarono prontamente nel fondo del canotto.

– Non rispondere, padrone, – disse il maharatto, o siamo perduti.

Due colpi di carabina rintronarono forando i bambù. La tigre fece un salto emettendo un furioso miagolìo.

– Ferma, Darma! – disse Tremal-Naik, rovesciandola.

– Che la dea mi fulmini! – gridò uno dei due indiani. – È lui.

– Da’ il segnale, Huka! – comandò l’altro. – Ah! miserabile!

Qualche cosa di lampeggiante brillò al disopra del canotto seguito da uno scroscio formidabile che soffocò l’acuta nota del ramsinga. Tremal-Naik e Kammamuri, che si erano alzati, furono violentemente atterrati mentre la tigre gettava un secondo miagolìo ancor più furioso del primo.

– Padrone! – esclamò Kammamuri. – La folgore!

Tremal-Naik, ancora istupidito dall’influenza della scarica elettrica s’alzò ginocchioni. Un grido di rabbia gli sfuggì.

– Maledizione!… Abbruciamo!

Infatti i bambù, percossi dalla folgore, avevano preso fuoco e abbruciavano rapidamente.

– Siamo perduti! – esclamò Kammamuri. – Nel fiume! Nel fiume!

– Non muoverti, se ti è cara la vita.

Tremal-Naik prese fra le braccia l’ammasso di canne e con uno sforzo disperato le gettò nel fiume.

– È lui! – gridò una voce.– Fuoco! Huka!…

Due altre detonazioni rimbombarono. Tremal-Naik udì le palle fischiare ai suoi orecchi.

– Da’ il segnale, Huka!

– Siamo perduti, padrone! – gridò Kammamuri.

– Non muoverti, – disse Tremal-Naik. – Afferra la tigre.

Si slanciò a poppa e mirò l’indiano Huka che accostava alle labbra il ramsinga.

Lo scoppio della carabina fu accompagnato da un tonfo e da un grido.

Huka, colpito in fronte dall’infallibile palla del cacciatore di serpenti, era precipitato nel fiume.

Il suo compagno esitò un momento, poi fuggì a rompicollo attraverso la jungla, suonando furiosamente il ramsinga che aveva raccolto da terra.

Tremal-Naik gli sparò dietro una pistolettata, ma senza riuscire a colpirlo.

– Fallito! – gridò egli, gettando con collera l’arma. – Siamo scoperti!

– Cosa facciamo, padrone? – chiese Kammamuri. – Mi pare che ogni speranza di approdare a Raimangal sia perduta; il ramsinga metterà in allarme tutti gl’indiani. Maledetta folgore!…

– Andiamo innanzi lo stesso, Kammamuri. Questa notte non ci arresteranno tutti gl’indiani delle Sunderbunds. Da’ mano ai remi ed arranca con quanta forza hai; forse arriveremo prima che i miserabili possano prepararsi a riceverci. Io terrò d’occhio le due rive del fiume e abbatterò quanti si mostrano a portata della mia carabina.

Avanti!

Kammamuri voleva aggiungere qualche parola, forse qualche consiglio, ma Tremal-Naik non gliene lasciò il tempo.

– Se hai paura, sbarca, – gli disse. – Io e la tigre andremo innanzi.

– Ti seguo, padrone, e Siva ci protegga.

Afferrò i remi, si sedette a mezza barca e si mise a remigare con tutte le sue forze. Il canotto, sotto quella potente spinta, discese la fiumana con rapidità vertiginosa, balzando sulle onde.

Tremal-Naik, caricata la carabina, si mise a poppa cogli occhi fissi sulle due rive. La tigre si era accovacciata ai suoi piedi e brontolava sordamente ad ogni baleno.

Passarono dieci minuti. Le rive, che fuggivano rapidamente dinanzi agli occhi dei due indiani, erano coperte di bambù che tuffavansi nella corrente e da rade palme tara, la maggior parte delle quali abbattute o spezzate dalla furia dell’uragano.

D’un tratto Tremal-Naik, che seguiva attentamente il corso del fiume scorse al sud un razzo elevarsi a grande altezza. Quantunque il vento continuasse a ruggire e la folgore a scrosciare, udì distintamente lo scoppio.

– Un segnale forse? mormorò egli. – Arranca, arranca Kammamuri!

Un secondo razzo si elevò sulla riva opposta descrivendo una lunga parabola.

– Padrone? – interrogò Kammamuri.

– Avanti, mio prode maharatto. – Siamo stati segnalati.

– La mia Ada corre un pericolo: avanti! Attenta, Darma: l’ora della pugna s’avvicina.

Il fiume allora correva più rapido restringendosi a mo’ di collo di bottiglia; Tremal-Naik s’accorse di essere vicino al cimitero galleggiante. Senza sapere il perché, provò un fremito.

– Adagio, Kammamuri. Sento che corriamo un pericolo.

Il maharatto rallentò la battuta delle pagaie. Il canotto continuò a filare ed entrò in mezzo al bacino, coperto dalla fitta volta dei tamarindi e dei manghieri. L’oscurità divenne profonda, tanto che i due indiani non vedevano più lontano di cinque passi.

Il canotto urtò contro la massa dei cadaveri, ed un tonfo, come di un corpo che s’inabissa, rispose al primo urto.

– Padrone, hai udito? – chiese Kammamuri.

– Sì, qualcuno si è gettato in acqua.

Tremal-Naik si curvò sul fiume per vedere se qualcuno s’avvicinava al canotto, ma nulla scorse.

Il canotto per la seconda volta urtò.

– Qualcuno passa, – disse una voce che giunse fino ai due indiani.

– Che sieno loro?

– Oppure dei nostri? L’appuntamento è per la mezzanotte.

Tremal-Naik a quella parola «mezzanotte» provò un colpo al cuore.

– Mezzanotte! – mormorò, con voce tremante. – L’appuntamento per la mezzanotte! Quale sospetto!

– Olà! – gridò una di quelle voci. – Chi passa?

– Non rispondere, padrone, s’affrettò a dire Kammamuri.

– Al contrario, risponderò. Bisogna che sappia tutto.

– Ti perdi.

– Chi parla? – chiese Tremal-Naik.

– Chi passa? – domandò invece la voce.

– Indiani di Raimangal.

– Affrettate, che la mezzanotte non è lontana.

– Cosa si farà a mezzanotte?

– La vergine della sacra pagoda sale sul rogo.

Tremal-Naik soffocò un urlo che stava per sfuggirgli dalle labbra.

– Siva, Siva, abbi pietà di lei! mormorò.

Poi, dominando la sua commozione, chiese:

– Non è morto, adunque, Tremal-Naik?

– No, fratello, poiché Manciadi non è ancora tornato.

– E la Vergine verrà abbruciata?

– Sì, alla mezzanotte. Il rogo è pronto e la fanciulla salirà nel paradiso di Kâlì.

– Grazie, fratello, – rispose con voce soffocata Tremal-Naik.

– Una parola ancora. Hai udito il ramsinga?

– No.

– Hai veduto Huka?

– Sì, accanto al falò.

– Sai dove si brucierà la Vergine?

– Nei sotterranei, mi pare.

– Sì, nella grande pagoda sotterranea. Affrettati che la mezzanotte non deve essere lontana. Addio, fratello.

– Arranca, Kammamuri, arranca! – ruggì Tremal-Naik. – Ada! mia povera Ada!

Un singhiozzo lacerò il suo petto e soffocò la sua voce.

Kammamuri afferrò i remi e si mise ad arrancare con disperata energia.

Il canotto sfondò violentemente la massa dei cadaveri ed uscì dalla parte opposta.

– Presto!… presto! – disse Tremal-Naik, fuori di sé. – A mezzanotte salirà il rogo… Arranca, Kammamuri!

Il maharatto non aveva bisogno di essere eccitato. Arrancava così furiosamente, che i muscoli minacciavano di fargli scoppiare la pelle.

Il canotto attraversò il bacino ed entrò rapido come un dardo nel fiume. Tosto apparve l’estrema punta di Raimangal col suo gigantesco banian i cui smisurati rami si contorcevano in mille guise sotto i possenti soffi della burrasca.

Un lampo ruppe le tenebre mostrando la riva completamente deserta.

– Siva è con noi! – esclamò Kammamuri.

– Avanti, maharatto, avanti! – disse Tremal-Naik, che s’era gettato a prora.

Il canotto spinto innanzi a tutta velocità s’arenò sulla sponda, uscendo d’un buon terzo dall’acqua.

Tremal-Naik, caricatosi in furia delle munizioni, Kammamuri e la tigre si slanciarono a terra, raggiungendo il tronco principale del banian sacro.

– Odi nulla? – chiese Tremal-Naik.

– Nulla, – disse Kammamuri. – Gl’indiani sono tutti nel sotterraneo.

– Hai paura a seguirmi?

– No, padrone, rispose con ferma voce il maharatto.

– Quando è così, scendiamo anche noi. La mia Ada o la morte!

S’aggrapparono ai colonnati e raggiunsero i rami superiori, avvicinandosi alla smezzata sommità del tronco. La tigre con un salto solo li raggiunse.

Tremal-Naik guardò giù nella cavità. Al chiarore dei lampi scorse delle tacche, che permettevano di discendere.

– Andiamo, mio prode maharatto. Io ti precedo.

E si lasciò calare nel tronco, scendendo silenziosamente. Il maharatto e Darma lo seguirono da vicino.

Cinque minuti dopo i due indiani e la tigre si trovavano nel sotterraneo, in una specie di pozzo semi-circolare scavato nella viva roccia, sei metri sotto il livello delle Sunderbunds.