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I misteri della jungla nera

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XI. Il secondo colpo dello strangolatore

Kammamuri cominciava a diventare inquieto. Il sole calava rapidamente all’orizzonte ed i due cacciatori non erano ancora tornati, anzi nessun colpo di fucile erasi udito rombare nella jungla.

Egli non sapeva capacitarsi di quella prolungata assenza e di quell’assoluto silenzio. Entrava ed usciva dalla capanna, interrogava attentamente l’orizzonte, sperando di vederli spuntare fra la sterminata piantagione di bambù, costringeva Punthy ad abbaiare, ma senza alcun frutto.

Più volte si spinse, assieme alla tigre, fino ai primi bambù e porse l’orecchio ai rumori del largo; più volte fe’ rimbombare l’hulok sospeso alla porta della capanna e più volte bruciò una carica di polvere. Il silenzio che regnava nelle pianure del sud non fu rotto.

Scoraggiato, si sedette sul limitare della capanna, attendendo ansiosamente il loro ritorno. Vi era da pochi minuti, quando la tigre balzò in piedi facendo udire un sordo miagolio a cui fecero eco i festosi abbaiamenti di Punthy.

Kammamuri si alzò, credendo che arrivassero i cacciatori, ma non vide alcuno. Si volse ed appoggiato allo stipite della porta, scorse Tremal-Naik.

– Tu, padrone! – esclamò egli con stupore. – Tu!…

– Sì, Kammamuri, – rispose Tremal-Naik, con un amaro sorriso.

– Quale imprudenza!… Sei ancora convalescente e…

– Taci, sono forte, più forte di quello che credi,– rispose il cacciatore di serpenti quasi con rabbia. – Ho sofferto troppo in quell’amaca, è ora che la sia finita.

Egli fece alcuni passi innanzi senza barcollare, senza dimostrare fatica e sedette fra le erbe, prendendosi la testa fra le mani e guardando fisso il sole che tramontava all’occidente.

– Padrone, – disse Kammamuri, dopo alcuni istanti di silenzio.

– Cosa vuoi?

– I cacciatori non sono ancora tornati. Temo che sia accaduta qualche disgrazia.

– Chi te lo dice?

– Nessuno, ma lo sospetto. Nella jungla possono aggirarsi quegli uomini che assassinarono Hurti e pugnalarono te.

La faccia di Tremal-Naik divenne cupa.

– Sono forse qui? – chiese egli.

– Forse.

– Presto, Kammamuri, sarò guarito, ritorneremo in quell’isola maledetta e li stermineremo tutti, tutti!

– Che?… – esclamò Kammamuri, con ispavento. Noi ritornare in quell’isola?… Padrone, cosa dici?

– Hai paura tu?

– No, ma ritornare laggiù, in quei luoghi, è una follia.

– Follia!… Follia tu dici?… Non sai tu adunque chi ho lasciato laggiù, nelle mani di quegli uomini?

– Chi mai?

– La vergine della pagoda.

– Chi è questa donna?

– Una creatura bella, Kammamuri, che io amo alla pazzia, e per la quale metterei l’India in fiamme.

– Hai lasciato una donna laggiù?

– Sì, Kammamuri, quella stessa che io mirava al tramontare del sole nella mia jungla. Ada! Ada! Quanto m’hai fatto soffrire!

– È la visione adunque?

– Sì, la visione.

– Ma come si trova a Raimangal?

– Una condanna pesa sulla disgraziata fanciulla, Kammamuri. Quei mostri la tengono in loro mano, non so il come, né il perché. Io l’ho veduta nella pagoda a versare dei profumi ai piedi d’un mostro di bronzo.

– D’un mostro!… Quella donna sarà forse al pari degli altri.

– Non ripetere quest’insulto, Kammamuri, – esclamò Tremal-Naik, con accento minaccioso. – Son gli uomini che l’han condannata, che le fanno adorare quel mostro di bronzo! Lei feroce!… Lei!… povera fanciulla!…

– Perdono, padrone – balbettò il maharatto.

– Non sapevi nulla e ti perdono. Ma quegli uomini che l’han condannata, che la fanno morire di pianto, quegli uomini che le straziano il cuore e mi fan barriera onde non la salvi dai loro artigli, li esterminerò tutti, Kammamuri, tutti! Ho qui nel petto ancor le traccie del loro pugnale, e mi faranno ricordare in ogni tempo la vendetta! Non rimarrai no, nelle loro mani, o infelice Ada, perché Tremal-Naik, dovesse pagare colla sua vita la tua libertà, ti toglierà da quegli orribili luoghi per quanto sieno ben guardati e irti di ostacoli. Tremino allora coloro che t’avranno tormentata, coloro che hanno avvelenato la tua giovane esistenza. Darma ed io c’incaricheremo di ucciderli tutti, nelle loro spaventevoli caverne!

– Mi fai paura, padrone. E se ti uccidessero?

– Morrò per colei che amo! – esclamò con trasporto appassionato Tremal-Naik.

– E quando partiremo?

– Appena avrò la forza d’alzare la carabina. Son già forte, ma non tanto da pugnare contro tutti loro.

In quell’istante, al sud, rimbombò una fucilata seguita tosto da due altre detonazioni. Darma fece un salto, mugolando.

Il maharatto e Tremal-Naik scattarono in piedi, trattenendo Punthy che abbaiava furiosamente.

– Cosa succede? – chiese il maharatto, strappandosi dalla cintola il coltellaccio.

– Kammamuri!… Kammamuri!…, – gridò una voce.

– Chi chiama? – chiese Tremal-Naik.

– Grande Brahma!… Manciadi! – esclamò il maharatto.

Infatti il bengalese, con rapidità grandissima attraversava la jungla, sfondando la fitta cortina di bambù ed agitando come un pazzo la carabina. Pareva in preda ad un vivo terrore.

– Kammamuri!… Kammamuri! – ripeté egli con voce strozzata.

– Corri, Manciadi, corri! – gridò il maharatto. Che sia inseguito? Attenta, Darma!

La tigre si raccolse su se stessa cogli artigli aperti, e aprì la bocca mostrando una doppia fila di denti aguzzi.

Il bengalese, che correva molto rapidamente, in pochi minuti giunse alla capanna. Il miserabile aveva la faccia insanguinata per una ferita che s’era fatta sulla fronte per meglio colorire il tradimento ed aveva la tunica pure macchiata.

– Padrone!… Kammamuri! – esclamò egli, piangendo disperatamente.

– Cosa ti è accaduto? – chiese Tremal-Naik con angoscia.

– Hanno ferito a morte Aghur!… Povero me… non ne ho colpa, padrone… ci sono balzati addosso… Aghur! povero Aghur!

– L’hanno ferito! – esclamò Tremal-Naik con furore. – Chi? Chi?

– I nemici… gl’indiani dai lacci…

– Maledizione!… Parla, narra, di’ su, voglio saper tutto!

– Eravamo seduti in un bosco di giacchieri, disse il miserabile, continuando a singhiozzare.

– Ci sono balzati addosso prima che potessimo prendere le armi ed Aghur è caduto. Io ho avuto paura e sono fuggito.

– Quanti erano?

– Dieci, dodici, non ricordo bene quanti. Sono fuggito per miracolo.

– È morto Aghur?

– No, padrone, non può esser morto. L’hanno pugnalato, poi sono scomparsi. Fuggendo, udii il ferito gridare, ma non ebbi il coraggio di ritornare presso di lui.

– Sei un vigliacco, Manciadi!

– Padrone, se fossi ritornato mi avrebbero ucciso, – singhiozzò il bengalese.

– Quando la finiranno adunque? – gridò Tremal-Naik. – Kammamuri, forse Aghur non è morto; bisogna andarlo a trovare e portarlo qui.

– E se mi assaltano? – chiese Kammamuri, terrorizzato.

– Prenderai con te Darma e Punthy. Con questi animali puoi tenere testa a cento uomini.

– Ma chi mi guiderà?

– Manciadi.

– E tu vuoi rimanere nella capanna solo?

– Basto io solo per difendermi. Va’ e non perdere tempo, se vuoi salvare il povero Aghur. Manciadi, guida quest’uomo al bosco.

– Padrone ho paura.

– Guida quest’uomo al bosco; se esiti, ti faccio sbranare dalla tigre.

Tremal-Naik aveva pronunciato quelle parole con tale tono, da far comprendere a Manciadi che non era uno scherzo. Affettando il massimo terrore, si unì al maharatto che si era armato della carabina e d’un paio di pistole.

– Padrone, – disse Kammamuri, – se fra due o tre ore non ritorniamo, vorrà dire che siamo stati assassinati. Il canotto è arenato sulla riva; penserai a metterti in salvo.

– Mai! – esclamò Tremal-Naik. – Ti vendicherò a Raimangal; taci e parti.

Il maharatto e Manciadi, preceduti dal cane e dalla tigre, si slanciarono di corsa in mezzo alla jungla.

Il sole era di già scomparso sotto l’orizzonte, ma la luna sorgeva, spandendo una luce azzurrognola, d’una infinita dolcezza, sufficiente per guidare i due indiani attraverso la massa dei bambù.

– Camminiamo con precauzione e in silenzio, disse Kammamuri a Manciadi. – Non bisogna attirare l’attenzione dei nemici, che forse si tengono nascosti a poca distanza da noi.

– Hai paura, Kammamuri? – chiese il bengalese, che non tremava più.

– Credo di sì. Per fortuna, con noi abbiamo Darma, una valorosa bestia che non teme cinquanta uomini armati.

– Ti avverto, Kammamuri, che io non entrerò nel bosco.

– Mi aspetterai dove meglio ti piacerà, e se vuoi ti lascierò Punthy, un bravo cane che sa strozzare una mezza dozzina di persone. Avanti e silenzio.

Manciadi, che aveva già tracciato il suo piano, condusse il maharatto sul sentiero che aveva percorso al mattino e lo seguì per tre quarti d’ora. S’arrestò sul margine del bosco di giacchieri.

– È qui? – chiese Kammamuri, guardando con ansietà sotto gli alberi.

– Sì, qui, – rispose Manciadi, con fare misterioso. – Segui questo sentieruzzo che s’addentra nel bosco e giungerai allo stagno, sulle cui rive è caduto Aghur. Io qui t’aspetto, nascosto in quella fitta macchia.

– Vuoi il cane?

– Amo meglio esser solo. Gl’indiani non mi scopriranno, ne sono certo.

– Fra mezz’ora io sono di ritorno. Darma, sta’ attenta e pronta a piombare sul primo uomo che si presenta dinanzi a noi, e tu, Punthy, preparati pure a strozzare qualcuno.

La tigre fece udire un basso ruggito e si mise dinanzi al maharatto colle corte orecchie alzate ed il cane gli si mise dietro mostrando i denti.

– Benone, – disse Kammamuri, quando vide il bengalese nascosto nella macchia. – Nessuno ardirà avvicinarsi senza il permesso di queste care bestie.

 

Entrarono nel bosco sotto il quale regnava una profonda oscurità ed un silenzio funebre e s’avanzarono sul sentiero, senza produrre rumore di sorta. Kammamuri più volte si fermò sperando di udire qualche lamento o qualche chiamata che segnalasse la presenza di Aghur, ma nulla giungeva al suo orecchio.

– È strano, – mormorava, tergendosi il sudore che colavagli in gran copia dalla fronte. – Se fosse ancora vivo, si udirebbe qualche lamento, ma qui regna un silenzio perfetto. Che sia morto?

Aveva percorso da trecento a quattrocento passi, quando udì qualcuno che zuffolava un’arietta malinconica.

Era la medesima arietta che Manciadi aveva zuffolato prima d’assassinare Aghur. La tigre si mise a brontolare volgendo la testa all’indietro e il cane diè segni d’inquietudine, ringhiando.

– Attenti, piccini, – disse Kammamuri, che sentivasi gelare il sangue. – State vicini a me e lasciate che quell’uomo zuffoli a suo piacimento. Credo che per Aghur sia finita.

Una nube oscurò la luna e le tenebre divennero più fitte sotto il bosco.

Kammamuri si arrestò, indeciso se dovesse avanzare o tornare indietro, poi tirò innanzi colle pistole montate.

– Kammamuri! – gridò una voce.

– Kammamuri! – ripeté una seconda voce.

– Kammamuri!– riprese una terza.

La tigre si mise a ruggire sferzandosi i fianchi colla coda e saltando come se fosse su di un braciere. Cercò due o tre volte di slanciarsi a destra del sentiero, ma il maharatto, con un fischio, la richiamava al posto.

– Calma, piccina, calma, – diss’egli. – Lasciate che chiamino. Non sono spiriti, ma uomini che si divertono a spaventarmi. Se ritorno alla capanna, posso ringraziare Visnù d’avermi protetto.

Allungò il passo con una pistola puntata a destra del sentiero e l’altra a sinistra e poco dopo giungeva in vista dello stagno.

Un fascio di luce lunare piombò in quel luogo, illuminandolo come in pieno giorno.

Kammamuri, con indicibile spavento, scorse a terra un corpo umano su cui si agitava un gruppo di marabù.

Punthy si slanciò verso quel cadavere urlando lamentosamente e mettendo in fuga i voraci volatili.

– Aghur! – esclamò Kammamuri, singhiozzando.

Corse come un pazzo allo stagno e si gettò sul corpo dell’infelice suo compagno.

Aveva ancora il laccio attorno al collo ed il corpo era stato straziato dai marabù.

– Aghur! Mio povero Aghur! – ripeté Kammamuri, abbracciando il cadavere. – Ah! miserabili!

D’un tratto emise un urlo terribile e i suoi occhi si fissarono su di una pietra, contro la quale era appoggiata la testa di Aghur.

Ai pallidi raggi della luna, aveva letto, fremendo, le seguenti parole scritte a lettere di sangue:

«Kammamuri, Manciadi mi ha assass…».

Il maharatto balzò in piedi. Comprese tutto il tradimento del bengalese e il pericolo che correva il padrone.

– Darma! Punthy! – gridò egli con voce strozzata.– Alla capanna!… Alla capanna!… Si uccide il padrone.

E si slanciò attraverso la foresta preceduto dalla tigre e seguito dal cane, che abbaiava con furore!

Nel mentre Kammamuri correva come un daino sotto le cupe volte di verzura, il bengalese non perdeva il suo tempo.

Rimasto solo, erasi subito slanciato fuori della macchia correndo precipitosamente verso la capanna, risoluto a strangolare la seconda vittima.

Sapeva di avere un vantaggio di un buon quarto d’ora sul maharatto, nondimeno divorava la via colla velocità di una palla di cannone, paventando di venire colto sul fatto dalla tigre e dal cane, dai quali animali aveva tutto da temere.

Attraversò la jungla impiegando meno di mezz’ora e si fermò sul margine della piantagione, dopo di avere preparato un secondo laccio.

– Il padrone deve tenersi in guardia, – mormorò egli. – Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell’uomo non ischerza.

Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano.

– Ah! – esclamò il miserabile. – Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti.

Ripigliò la corsa verso l’est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po’ d’astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore.

Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo.

Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s’accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna.

Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra.

– È mio, – mormorò con un filo di voce. – Kâlì mi protegge.

Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno.

Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto.

Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi.

Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio.

– Kammamuri! – gridò il disgraziato, afferrando coll’altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia.

– Muori! muori! – urlò l’assassino, trascinandolo sul suolo.

Tremal-Naik mandò un secondo grido.

– Kammamuri! aiuto!

– Eccomi – tuonò una voce.

Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy.

Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s’avventò all’impazzata verso la riva vicina.

Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

XII. L’agguato

Tremal-Naik, quantunque mezzo strangolato e confuso, appena sentì il laccio allentarsi, s’alzò e raccolta la carabina si slanciò risolutamente verso il fiume, sperando di far scoppiare la testa del traditore. Quando però giunse sulla riva, Manciadi era scomparso.

S’inoltrò nell’acqua ma nessuna persona appariva alla superficie del fiume. Forse la corrente aveva trascinato seco l’assassino, stato senza dubbio colpito dalla carabina o dalla pistola del maharatto.

– Ah! miserabile! – esclamò Tremal-Naik furente.

– Padrone! – gridò Kammamuri, accorrendo in compagnia della tigre e del cane.– Dov’è il brigante?

– È scomparso, Kammamuri, ma lo ritroveremo.

– Sei ferito?

– Tremal-Naik non si lascia strangolare da quegli uomini.

– Ho il sangue che non mi scorre più, padrone. Temeva di non giungere in tempo per salvarti. Ah! la canaglia! Strangolare il mio padrone!… Traditore! Se mi cade fra le unghie non gli lascio intero un pezzettino grande come una rupia. Ingannare così noi, cacciatori di serpenti! Sai, padrone, che l’hai scampata per miracolo?

– Lo so, Kammamuri. Ed Aghur?… Cosa è successo di Aghur?

Il maharatto ammutolì, lasciandosi cadere lungo il corpo le braccia.

– Kammamuri, parla, – disse Tremal-Naik che già indovinava tutto.

– È morto, padrone, – balbettò Kammamuri.

Tremal-Naik si portò le mani alla testa con gesto disperato.

– Morto?… Morto! – singhiozzò egli. – Tutti muoiono adunque attorno a me? Ma che ho fatto io, Siva, perché debba perdere tutti quelli che io amo? Sono io adunque maledetto dai numi?

Chinò il capo sul petto e qualche cosa di umido rotolò giù per le abbronzate guancie. Kammamuri, nel vedere quell’uomo piangere, si sentì schiantare l’anima.

– Padrone, – mormorò egli.

Tremal-Naik non l’udì. Colla faccia stretta fra le mani, s’era seduto sulla riva del fiume e contemplava con occhio umido la jungla, sulla quale scorreva un lieve soffio di vento, imbalsamato dal profumo dei gelsomini e dei mussenda. Il suo petto d’atleta si sollevava di quando in quanto, sotto i singhiozzi.

– Mio padrone, oh, mio povero padrone! – esclamò Kammamuri. – Non piangere, sii forte; bisogna esserlo.

– Sì, forte, per combattere la fatalità che pesa su di noi, – disse Tremal-Naik con rabbia. – Povero Aghur, così giovane e così intrepido, morire! Sei almeno certo che sia proprio morto?

– Sì, padrone, l’ho veduto coi miei propri occhi e toccato colle mie proprie mani. Era là, disteso accanto ad uno stagno, col laccio al collo e un pugnale nel petto. Il miserabile Manciadi, dopo d’averlo atterrato, lo ha finito con quell’arme.

– Fu adunque Manciadi ad assassinarlo?

– Sì, padrone, lui!

– Ah! sciagurato!

– Ma non assassinerà altri, te lo dico io. La mia palla deve averlo colpito; forse i pesci stanno banchettando colle sue carni.

– Quel mostro adunque, aveva tramato un piano infernale?

– Sì, padrone. Aveva assassinato Aghur per allontanar me e piombare poi su di te. Per fortuna me ne accorsi a tempo e giunsi qui in buon punto.

– Ma non avevi alcun sospetto prima?

– No, padrone, non me ne accorsi, non dubitai nemmeno. Egli ci ingannava molto bene. Quale scopo poteva avere per assassinarci?

– Temo che l’abbiano qui mandato gl’indiani di Raimangal.

– Lo credi, padrone?

– Ne sono certo. Hai veduto il suo petto?

– No, poiché lo teneva sempre coperto, e non so il perché.

– Per nascondere il misterioso tatuaggio.

– Adesso comprendo: deve essere così; ma perché tanto accanimento contro di te?

– Perché amo Ada.

– Non vogliono adunque, quegli uomini, che tu l’ami?

– No, e cercano d’assassinarmi.

– Ma perché?

– Perché sul capo di quella donna pesa una terribile condanna.

– Quale?

– Non lo so, ma un giorno svelerò il mistero.

– E credi tu che quei miserabili tornino alla carica?

– Credo di sì, Kammamuri.

– Io ho paura, padrone. E tu?

Tremal-Naik non rispose. Egli aveva volto lo sguardo al sud e si era improvvisamente alzato.

– Hai veduto qualche cosa? – chiese il maharatto con ansietà.

– Sì, Kammamuri. Mi pare d’aver scorto un chiarore strano balenare in fondo alla jungla e poi spegnersi.

– Andiamo alla capanna, padrone. Qui non siamo sicuri.

Tremal-Naik guardò un’ultima volta la jungla ed il fiume e si diresse a lenti passi verso la capanna, sulla cui soglia si arrestò.

– Guarda, Kammamuri – diss’egli con tristezza. Questa capanna altre volte sì gaia, sì ridente, mi sembra che abbia l’aspetto funebre d’un sepolcro. Povero Aghur!

Soffocò un singhiozzo e si sdraiò sull’amaca, nascondendo il viso fra le mani. Kammamuri s’appoggiò allo stipite della porta, cogli occhi fissi sulla jungla, mormorando a più riprese:

– Povero padrone!

Passarono tre lunghe ore senza che il maharatto si muovesse. Il suono acuto del ramsinga lo strappò dalla sua immobilità.

– Funebre tromba! – mormorò egli con rabbia, – ancora una disgrazia adunque? Fai bene ad avvertirmi.

Fece più volte il giro della capanna guardando attentamente in mezzo alle erbe, ma non scorse nulla di nuovo. Rientrò traendosi dietro Darma e Punthy, barricò la porta e vi si stese di dietro, in maniera da essere svegliato al menomo urto.

Passarono parecchie ore senza che nulla accadesse. Kammamuri, sempre più inquieto, non chiudeva gli occhi e di frequente s’alzava per affacciarsi, con grande precauzione, alle finestrine.

Verso la mezzanotte la luna tramontò lasciando la jungla nella più perfetta oscurità. Proprio allora Punthy abbaiò tre volte.

– Qualcuno s’avvicina, – mormorò Kammamuri. – Punthy l’ha udito.

Entrò nella stanza di Tremal-Naik. Questi dormiva profondamente e in sogno parlava dell’infelice Ada.

Punthy fece udire tre altre volte un sordo ringhio e si slanciò verso la porta mostrando i denti. Anche la tigre udì qualche cosa, poiché fece udire un sordo brontolio.

Kammamuri, dopo di essersi munito di un paio di pistole, andò a spiare a tutte le finestrine ma senza essere capace di veder nulla, né di udire nulla. Ebbe per un istante l’idea di sparare una pistolettata per ispaventare colui o coloro che ardivano avvicinarsi alla capanna, ma per non svegliare Tremal-Naik e per la tema che questi volesse slanciarsi all’aperto, si trattenne.

 

Qualche ora dopo, mentre passava dinanzi ad un pertugio, gli sembrò di vedere, al sud, una striscia di fuoco e di udire un leggiero sibilo, seguito da una sorda detonazione, ma non ne seppe di più.

– Quale mistero, – mormorò egli, tremando di terrore. – Se questa notte non succedono malanni, è segno che Siva e Brahma ci proteggono.

Rimase sveglio parecchie ore, poi cedendo alla fatica ed al sonno s’addormentò. Né il cane né la tigre diedero alcun altro segnale durante il resto della notte.

Al mattino, ansioso di sapere qualche cosa, si affrettò ad uscire. Ciò che prima colpì i suoi sguardi, fu un pugnale infisso per terra, a pochi passi dalla capanna, e che tratteneva una carta azzurrina.

– Oh! – esclamò egli, indietreggiando. – Qualcuno adunque ha osato spingersi qui?…

S’avvicinò con precauzione e quasi con ripugnanza a quelli oggetti e tremando li raccolse. Il pugnale era di acciaio brunito, d’un metallo che lasciava vedere le venature, d’una forma particolare e con delle strane incisioni sulla lama.

Aprì la carta e vi scorse disegnato un serpente colla testa di donna I’emblema misterioso degli indiani di Raimangal, e sotto alcune righe d’una scrittura rossa.

– Cosa significano queste righe? – si chiese il maharatto. – Qui sotto c’è un mistero, che il padrone svelerà.

Fece accovacciare Darma e Punthy e corse da Tremal-Naik. Lo trovò seduto dinanzi ad una delle finestre, colla testa fra le mani e lo sguardo triste, volto verso i nebbiosi orizzonti del sud.

– Padrone, – disse il maharatto.

– Cosa vuoi? – chiese l’indiano con voce sorda.

– Lascia i pensieri e guarda questi oggetti. Vi è un mistero da decifrare.

Tremal-Naik si volse come a gran fatica. Una contrazione nervosa alterò i tratti del suo volto, nel mirare il pugnale che Kammamuri gli mostrava.

– Cos’è? – chiese egli, rabbrividendo. – Chi ti ha dato quell’arma?

– L’ho trovata dinanzi alla capanna. Leggi questa lettera, padrone.

Tremal-Naik gliela strappò vivamente di mano, gettandovi sopra un avido sguardo. Ecco quanto lesse:

Tremal-Naik

La misteriosa divinità che impera tremenda su tutta quanta l’India, t’invia il pugnale della morte. Basta una scalfittura della sua punta avvelenata, perché tu scenda nella tomba.

Tremal-Naik, tu devi scomparire dalla superficie della terra: la divinità lo vuole. Solo a questo prezzo puoi arrestare la folgore che sta per piombare sul capo di colei che fu condannata. Questa sera, al calar del sole, Manciadi attende il tuo cadavere.

Suyodhana.

Tremal-Naik nel leggere la lettera era diventato pallido.

– Che?… – esclamò egli. – La mia vita!… La mia vita per arrestare la folgore che sta per piombare sul capo di colei che fu condannata!… Cosa significa questa minaccia? Morire? Io!

– Padrone, – mormorò Kammamuri, che tremava in tutte le fibre.-

Corriamo un gran pericolo, lo sento. – Non aver paura, Kammamuri, – disse Tremal-Naik.– I miserabili cercano di spaventarci, ma io sfido la misteriosa divinità che impera tremenda su tutta l’India. Ah! Essi vogliono la mia vita? La loro divinità mi comanda di scendere nella tomba e m’invia il pugnale! Tremal-Naik non sarà così stupido da servirsene, né…

S’arrestò di botto. Un pensiero terribile gli era balenato nella mente.

Tornò a guardare la lettera. Uno stupore doloroso si dipinse sul suo volto.

– Grande Siva! – esclamò con voce soffocata. – Una folgore sta per piombare su colei che fu condannata!… Kammamuri!

– Padrone?

– Una donna fu condannata… Se fosse…

– Chi? padrone, chi?…

– L’hanno in loro mano…

– Ma chi?…

– Ada! – esclamò con accento straziante l’indiano.– Oh! mia povera Ada!… Kammamuri!… Kammamuri!…

Tremal-Naik si slanciò come un pazzo fuori della capanna e rientrò orribilmente trasfigurato.

– Padrone, è impossibile che l’uccidano, – disse Kammamuri.

– E se fosse vero? E se quei mostri la uccidessero? Orrore! orrore!… Siva, oh mio dio, veglia su di lei! Veglia sulla mia povera Ada!

– Un singhiozzo lacerò il petto del cacciatore di serpenti.

– Cosa fare? – balbettò egli fuori di sé. – Sì, lo sento, i mostri l’hanno condannata… non vogliono che ella ami alcun mortale… uno di noi bisogna che muoia. Ma no, non voglio che ella muoia, così giovane, così bella!… E dovrò io adunque morire? Mai, mai, è impossibile, l’amo troppo per scendere nella tomba senza averla prima veduta un’ultima volta, senza dirle che io muoio per lei.

Tremal-Naik si contorse come un serpe, afferrandosi il capo fra le mani. D’improvviso scattò in piedi come una tigre che sta per avventarsi sulla preda. Un sinistro lampo guizzava nei suoi occhi.

– L’ora della vendetta è suonata! – diss’egli con intraducibile accento.– Ada, io vengo!… A me, Darma!

La tigre d’un balzo fu alla porta della capanna, facendo udire il suo formidabile mugolìo. Tremal-Naik, strappata da un chiodo una carabina, stava per uscire, quando Kammamuri l’arrestò.

– Dove vai, padrone? – gli chiese egli, abbrancandolo a mezzo corpo.

– A Raimangal per salvarla prima che me la uccidano.

– Ma non sai che laggiù v’è la morte? Non sai che a Raimangal vi sono forse mille di quegli uomini, che bramano il tuo sangue? Tu ti perdi, padrone, e forse uccidi colei che tu ami, credendo di salvarla.

– Io!…

– Ma sì, padrone, tu la uccidi. Al primo tuo apparire, la folgore scoppierà ed abbatterà quella donna.

– Gran dio!

– Calmati, padrone, ascoltami. Lascia fare a me e vedrai che noi sapremo tutto. Chissà, forse quegli uomini hanno voluto solamente spaventarti.

Tremal-Naik lo guardò come trasognato. Forse Kammamuri aveva ragione.

– L’ora non è ancora giunta per recarsi nell’isola maledetta, né tu sei ancora tanto forte per lottare contro di loro, – continuò il maharatto.– Essi vogliono il tuo cadavere, hanno scritto; ebbene, essi lo avranno. ma sarà un cadavere che respirerà ancora e che salterà alla gola dell’assassino del povero Aghur. Lascia che io ti guidi, padrone; i maharatti sono furbi, tu lo sai.

– Cosa vuoi dire? – chiese Tremal-Naik, che a poco a poco si arrendeva.

– Voglio dire che a noi occorre un uomo che confessi ogni cosa, per sapere ciò che si dovrà fare. Se sarà necessario, domani partiremo per Raimangal.

– Ci occorre un uomo?

– Sì, padrone, e quest’uomo sarà Manciadi. Ascoltami con attenzione. Questa sera, al calare del sole, io ti porterò nella jungla e tu fingerai di essere morto. Io e Darma ci imboscheremo a pochi passi da te, onde non ti accada disgrazia. Arriva il brigante che assassinò Aghur; noi ci lanciamo su di lui e lo facciamo prigioniero. M’incarico io di fargli confessare il luogo dove nascondono la donna che tu ami e farlo parlare sul numero e sui mezzi dei nostri nemici.

Tremal-Naik prese le mani del maharatto e le strinse affettuosamente.

– Rimarrai? – chiese Kammamuri, con gioia.

– Sì, rimarrò – disse Tremal-Naik, emettendo un profondo sospiro. – Ma domani, sia pure solo, andrò a Raimangal. Sento che un pericolo minaccia Ada.

– No solo, – disse Kammamuri. – Io e Darma ti accompagneremo. Ora calma ed occhi bene aperti: questa sera avremo in nostra mano Manciadi.

Kammamuri lasciò il padrone che si era seduto sulla soglia della porta, in preda a mille angoscie ed a tetri pensieri, e si recò al fiume ad armare il canotto.

Durante la giornata nulla accadde di nuovo. Kammamuri si recò parecchie volte nella jungla, armato sino ai denti, sperando di scorgere qualcuno, forse lo stesso Manciadi, ma non vide anima viva, né udì alcun segnale o rumore.

Alle sette il sole radeva l’orizzonte occidentale. Era il momento d’agire.

– Padrone, – disse il maharatto, che si stropicciava allegramente le mani, – non perdiamo tempo.

Proprio in quel momento, al sud, echeggiò il ramsinga.

– La canaglia si avvicina, – disse Kammamuri. – Animo, padrone, io ti porto nella jungla. Non una parola, non il più piccolo movimento se non vuoi mandare a male l’imboscata. Appena l’assassino compare, la tigre lo atterrerà.

Afferrò il padrone, se lo caricò sulle spalle dopo di avergli cacciato sotto l’ampia fascia un paio di pistole e si diresse, barcollando, verso la jungla.

Il sole spariva dietro le gigantesche piantagioni dell’occidente, quando giunse ai primi bambù. Depose Tremal-Naik, che conservava l’immobilità di un cadavere, fra le erbe, poi curvandosi su di lui:

– Padrone, non un movimento, – gli disse. – Appena la tigre si slancierà su Manciadi, sorgi e tura la bocca al miserabile. Forse vi sono degli altri indiani nei dintorni.

– Lascia fare a me, – bisbigliò Tremal-Naik. Tutto passerà liscio. Kammamuri s’allontanò, colla testa china sul petto, come un uomo addolorato. Quando giunse alla capanna un secondo squillo di tromba echeggiava fra i bambù spinosi della jungla.