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I figli dell'aria

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– Che siamo aspettati? – chiese Rokoff.

– Non so – rispose Fedoro, il quale era diventato pallido.

Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi.

Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento.

Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell’urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche:

– Fan-kwei-weilo! Weilo!

Fedoro aveva mandato un grido d’orrore.

In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s’appoggiava ad una larga scimitarra.

Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

I FIGLI DELL’ARIA

La benda era caduta dinanzi agli occhi dei due europei: la doppiezza e l’astuzia della razza mongola ancora una volta avevano vinto.

Le promesse e le gentilezze del magistrato, non avevano avuto che uno scopo solo: quello di addormentare gli europei, cullandoli in una fallace speranza di libertà.

Condannati a morte dai mandarini, onde evitare che potessero in qualche modo informare l’ambasciata, il miserabile magistrato li aveva indegnamente ingannati, affinché la giustizia potesse avere il suo corso senza sorprese inaspettate.

Per maggior precauzione, quantunque camuffati da cinesi, quel briccone li aveva tratti lontani dalla capitale, per impedire che nessun europeo potesse intervenire.

Se una tale esecuzione poteva suscitare dei sospetti a Pechino, a Tong non doveva trovare ostacoli.

Il colpo, abilmente preparato, come si vede era riuscito pienamente e fra pochi minuti le teste del cosacco e del russo dovevano, al pari dei deliquenti cinesi, cadere sotto un buon colpo di scimitarra, per venire poi esposte in qualche gabbia appesa su una pubblica piazza.

Rokoff, comprendendo che la sua esistenza stava per finire, era stato preso da un tale eccesso di furore, da temere che demolisse la gabbia e si scagliasse, come una belva feroce, contro la folla urlante. Il cosacco, sapendosi innocente, non voleva morire senza lotta, né invendicato.

Spezzato, con uno sforzo supremo, un bambù della gabbia, aveva allungato un braccio tra le traverse, tempestando le zucche pelate del popolaccio che si accalcava intorno al carro.

Erano legnate tremende, che facevano risuonare i crani come tam-tam e che strappavano urla di dolore ai colpiti. Fortunatamente la scorta, occupata ad aprirsi il passo, non aveva tempo d’impedirgli quella manovra pericolosa.

– Cani dannati! – urlava il cosacco, scrollando la gabbia e cacciando il bambù negli occhi dei più vicini. – Prendete! A te zucca fessa! Non avrai più bisogno degli occhiali! Ci volete assassinare! Per le steppe del Don! Non siamo ancora morti.

Anche Fedoro, che una bella collera bianca aveva reso furioso, non stava inoperoso.

Era già riuscito a strappare un paio di code e a spaccare il muso a un gran diavolo di mongolo, tirandogli addosso una scarpa.

Il carro però procedeva rapido verso il palco, urtando la folla e rovesciando i più accaniti. Il conduttore, temendo che i due prigionieri non giungessero vivi fino al palco, tanta era l’esasperazione del popolaccio, non badava a storpiare uomini e ragazzi.

Anche i cavalieri manciù non risparmiavano le piattonate e le puntate, pur di farsi largo e di sgombrare il passo. Sagravano come turchi, facevano impennare i cavalli e minacciavano di far uso dei moschetti.

Con tutto ciò, ci vollero non meno di venti minuti prima che il carro potesse giungere presso il palco, il quale era guardato da un doppio cordone di fantaccini. In un batter d’occhio la gabbia fu levata e venti braccia la spinsero fino sulla piattaforma, dove il carnefice, sempre impassibile, attendeva il momento di far uso della sua scimitarra.

Il coperchio fu subito levato e i due europei, nonostante la loro disperata resistenza, furono trascinati fuori fra le urla di gioia del popolaccio. Mentre alcuni soldati tenevano fermi Rokoff e Fedoro, stringendoli brutalmente per la gola, altri legavano ai due disgraziati le mani dietro il dorso e le gambe.

Il cosacco però aveva ancora avuto il tempo di mordere crudelmente il braccio ad uno degli aguzzini, strappandogli ad un tempo un pezzo di stoffa e di carne.

– Assassini! Miserabili! – vociava. – Siamo innocenti! Vili! Ma la Russia ci vendicherà!

Furono spinti in mezzo al palco, e dopo averli costretti ad inginocchiarsi, vennero lasciati soli col carnefice, il quale stava provando il filo della scimitarra.

– Fedoro… è finita – disse Rokoff. – Fra pochi secondi ci rivedremo in cielo. Mostriamo a questi miserabili come sanno morire gli europei.

– Addio Rokoff – disse il russo con voce commossa. – Perdonami di averti perduto.

– Taci… non parlare di ciò… la colpa è di queste canaglie… Ehi, carnefice, fa il tuo dovere e…

La sua voce era stata improvvisamente soffocata da un immenso urlo che non era più di gioia. Pareva che un terrore inesprimibile si fosse manifestato fra il popolo che si accalcava attorno al palco.

Anche il carnefice aveva abbassato la scimitarra, facendo un gesto di spavento.

Tutti guardavano in aria agitando pazzamente le braccia, col terrore negli occhi, senza essere quasi più capaci di gridare. Che cosa avveniva in alto, lassù nel cielo?

Fedoro e Rokoff, stupiti da quell’improvviso silenzio e dall’atteggiamento pauroso di tutta quella gente, avevano pure alzato il capo.

Un grido sfuggì dai loro petti.

Un uccello di dimensioni gigantesche, di forme strane, che scintillava ai raggi del sole come se le sue penne fossero cosparse di polvere d’argento, piombava sul palco con velocità fulminea.

Che cos’era? Un’aquila di nuova specie od un mostro caduto da qualche astro?

Vedendolo ingrandire a vista d’occhio e precipitarsi sulla piazza, i cinesi, pazzi di terrore, si erano rovesciati verso Tong, urlando spaventosamente, urtandosi, atterrandosi e calpestandosi.

Anche i soldati dopo una breve esitazione, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi gettando via perfino i fucili per correre più presto e il carnefice li aveva seguiti, balzando come un’antilope.

– Fedoro!

– Rokoff!

– Un mostro!

– Ma no… non è possibile.

– Un drago!

– Vedo degli uomini!…

– Siamo salvi! Una macchina volante… un pallone… Odi?

Una voce che scendeva dall’alto, una voce energica, imperiosa, aveva gridato prima in francese, poi inglese:

– Non temete… vi salviamo… spezzate i legami… Pronto! Gettala!

Una scala di seta era caduta, svolgendosi rapidamente e toccando con una delle estremità il palco.

Un uomo, vestito di flanella bianca, era sceso rapidamente balzando verso i due europei, che erano rimasti immobili, come se lo stupore li avesse paralizzati. Con pochi colpi di coltello tagliò le loro corde, poi, alzandoli, disse in francese:

– Presto! Salite! I cinesi tornano!

Rokoff ebbe appena il tempo di mormorare un «grazie».

Si precipitò verso la scala, scavalcò un parapetto e cadde fra le braccia di un altro uomo. Udì confusamente un fischio acuto che pareva mandato da qualche macchina a vapore, poi dei colpi di fucile, delle urla lontane, poi vide due immense ali sbattere vivamente e rimpicciolirsi rapidamente il palco, la piazza e la folla… poi più nulla…

. . . . . . . . . . . . . . .

Quando Rokoff tornò in sé, si trovò sdraiato su un soffice materasso, a fianco di Fedoro, sotto un tendaletto che lo riparava dai raggi del sole.

Un profondo silenzio regnava attorno a lui: le grida della folla e i colpi di fucile erano cessati. Sentiva solamente delle leggere scosse e una forte corrente d’aria che gli procurava un dolce benessere.

Per un momento credette davvero di essere stato decapitato dal gigantesco carnefice e di viaggiare in un altro mondo. Se era vero, la morte, dopo tutto, non doveva essere spiacevole, né così paurosa come si credeva. Si portò le mani alla testa, con un moto rapido… e… con sua sorpresa la trovò a posto.

– Che mi abbiano invece fucilato? – si chiese.

S’alzò di scatto guardandosi le vesti e non vide alcuna macchia di sangue. Nemmeno Fedoro aveva la casacca lorda.

– Che io sogni? – si domandò.

Un lungo sibilo, che pareva uscisse da qualche macchina, lo fece sobbalzare.

Un’ombra umana si delineava dinanzi a lui. La guardò con paura.

Non era un’ombra, era un uomo, un bell’uomo anzi, di statura alta e di forme eleganti, colla pelle leggermente abbronzata, con due occhi nerissimi e pieni di splendore, con una barba pure nera pettinata con gran cura.

Era vestito tutto di bianco, con una larga fascia rossa che gli stringeva i fianchi, e calzava alti stivali di pelle nera.

Anche quell’uomo lo guardava, ma sorridendo.

– Dove sono io? – chiese Rokoff.

– A bordo del mio «Sparviero» – rispose lo sconosciuto nell’egual lingua. – Siete sorpreso, è vero? Ciò non mi stupisce.

Poi, con una certa meraviglia, chiese:

– Voi non siete un cinese, quantunque ne indossiate il costume, è vero?

Invece di rispondere a quella domanda, Rokoff aveva chiesto:

– Ditemi, signore: sono vivo o sono morto?

– Mi pare che siate vivo – rispose lo sconosciuto, ridendo. – Però se avessi tardato solamente qualche minuto, non so se la vostra testa si troverebbe ancora sulle vostre spalle.

Il cosacco aveva mandato un grido. La memoria gli era prontamente ritornata.

Rivide tutto d’un colpo la piazza affollata dal popolaccio furioso, il palco, il carnefice, poi quel mostro scendere precipitosamente e rapirlo fra i colpi di fucile dei soldati cinesi. Ci volle però qualche minuto prima che le sue idee si riordinassero.

 

Balzò innanzi e porse la mano allo sconosciuto, dicendogli con voce commossa:

– M’avete salvato… grazie signore… vi devo la vita…

– Bah! Un altro, al mio posto, avrebbe fatto altrettanto! Siete russi?

– Sì, signore, e voi?

Il comandante dello «Sparviero» lo guardò senza rispondere. Una profonda ruga gli si era disegnata sulla sua ampia fronte, mentre nei suoi occhi era balenato uno strano lampo.

– Vi avevo creduto cinesi – disse poi con voce lenta, misurata. – Tuttavia sono lieto di aver strappato due europei alla morte, quantunque ignori ancora il motivo per cui eravate stati condannati alla decapitazione.

– Ah! Signore! Anche voi dubitate della nostra innocenza! – esclamò Rokoff. – Credete voi che un onorato ufficiale dei cosacchi del Don, che ha due medaglie al valore guadagnate sotto Plewna e che uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale abbiano potuto assassinare un cinese per derubarlo?

– Io non so a quale delitto volete alludere – disse lo sconosciuto, con tono però meno duro, – e non dubito affatto che voi siate due galantuomini.

– Siamo due vittime dell’odio secolare dei cinesi contro gli uomini di razza bianca.

– Non metto in dubbio ciò che mi dite e per darvene una prova ecco la mia mano signor…

– Dimitri Rokoff… del 12° Reggimento dei cosacchi del Don.

Si strinsero la mano, poi il comandante dello «Sparviero» disse:

– Venite: voi non avete ancora veduto la mia macchina.

– Ed il mio amico?

– Lasciatelo riposare. L’emozione provata deve averlo abbattuto. È il negoziante di tè costui?

– Sì, signor…

– Chiamatemi semplicemente «il capitano».

– Un capitano russo, perché parlate la nostra lingua come foste nato sulle rive della Neva o del Volga.

Un sorriso enigmatico si delineò sulle sottili labbra del capitano.

– Parlo il russo come il francese, l’italiano, il tedesco, l’inglese e anche il cinese. Vedete dunque che la mia nazionalità è molto difficile da indovinare. Ma che importa ciò? Sono un europeo come voi e ciò basta, o meglio sono un uomo di razza bianca. Venite, signor Rokoff, ah! Soffrite le vertigini?

– No, capitano.

– Meglio per voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo sopra Pechino. Macchinista!

– Signore – rispose una voce.

– Rallenta un po’. Voglio godermi questo meraviglioso panorama.

Stavano per uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento atterrito:

– La mia testa! La mia testa!

Il cosacco si era precipitato verso l’amico, frenando a malapena una risata.

– L’hai ancora a posto, Fedoro! – esclamò. – Quei bricconi non hanno avuto il tempo di tagliartela.

Il russo si era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello «Sparviero».

– Rokoff! – esclamò. – Dove siamo noi?

– Al sicuro dai cinesi, amico mio.

– E quel signore? Ah! Mi ricordo! L’uccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete il nostro salvatore!

– Io non sono che il capitano dello «Sparviero» – rispose il comandante, tendendogli la mano. – Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite: vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave. Macchinista! Preparaci intanto la colazione.

UNA MACCHINA MERAVIGLIOSA

«La mia meravigliosa aeronave» aveva detto il comandante. Ah! Era ben meravigliosa quella macchina volante che aveva rapito, sotto gli occhi stupiti dei cinesi, i due prigionieri condannati a morte. Rokoff e Fedoro, appena usciti dalla tenda, si erano arrestati mandando un duplice grido di sorpresa e di ammirazione. Quale splendido congegno aveva ideato quello sconosciuto che si faceva chiamare «il capitano!» Era lo scioglimento dell’arduo problema della navigazione aerea, che da tanti anni turbava la mente degli scienziati, e quale scioglimento! Una perfezione inaudita, assolutamente sbalorditiva.

Dapprima Rokoff e Fedoro avevano creduto di trovarsi dinanzi ad uno dei soliti palloni, dotato di qualche motore, ma si erano subito disingannati. Non era un aerostato, era una vera macchina volante, una specie di uccellaccio mostruoso, che solcava placidamente l’aria coll’arditezza e la sicurezza dei condor delle Ande o delle aquile.

Un uccello veramente non lo si poteva chiamare, quantunque nelle ali e nel corpo ne rammentasse la forma.

Consisteva in un fuso lungo dieci metri, con una circonferenza di tre nella parte centrale, costruito in un metallo argenteo, probabilmente alluminio, nel cui centro si vedeva un motore che non doveva però essere mosso né dal carbone, né dal petrolio, né da alcun olio o essenza minerale, perché non si vedeva fumo né si sentiva alcun odore.

Ai suoi fianchi, mosse da quella macchina misteriosa, agivano due immense ali, simili a quelle dei pipistrelli, con armatura d’acciaio o d’alluminio e la membrana composta da una spessa seta o da qualche altro tessuto che le rassomigliava.

Un po’ al disotto del fuso, che serviva di ponte e anche di abitazione, si estendevano a destra ed a sinistra, tre piani orizzontali, lunghi ciascuno una decina di metri, pure con armatura di ferro, ricoperti di stoffa, lontani l’uno dall’altro quasi un metro, vuoti nel mezzo, che dovevano, presumibilmente, agire come gli aquiloni e mantenere l’intero apparecchio sollevato.

Non era però tutto. Sulla punta estrema del fuso, un’elica immensa, che girava vorticosamente, con velocità straordinaria, pareva che dovesse aiutare il movimento delle ali, mentre a poppa si vedevano due piccole alette che dovevano certamente servire per dare all’aerotreno la direzione voluta.

Fedoro e Rokoff erano rimasti immobili, colla bocca aperta, impotenti ad esprimere la loro ammirazione. Il capitano, appoggiato alla balaustrata che correva intorno al fuso metallico per impedire delle cadute pericolose, li guardava sorridendo silenziosamente.

– Che cosa ne dite di questo treno aereo? – chiese finalmente al russo ed al cosacco.

– Meraviglioso!

– Sorprendente!

– Magnifico!

– Sì un capolavoro – rispose il capitano con vivacità. – Ecco risolto finalmente il problema della navigazione aerea.

– Ma… signore… – disse Fedoro.

– So che cosa volete chiedermi – disse il capitano. – A più tardi le spiegazioni, dopo la colazione. Date invece uno sguardo a questo superbo panorama. Pechino si estende dinanzi a noi e fra poco ci libreremo sopra la città imperiale. Ora ci troviamo nel parco dei Mari del Sud, guardatelo, signori, una cosa veramente splendida!

Lo «Sparviero», il quale si avanzava con velocità moderata, certo per volere del suo comandante, filava sopra il famoso Nanhai-tze, uno dei più splendidi parchi del mondo, che si estende al sud della capitale cinese, da cui si trova separato da una piccola pianura paludosa.

È un immenso giardino, vasto tre volte più di Pechino, perché ha una superficie di circa duecento chilometri quadrati, con una periferia di sessantacinque, difeso da massicce muraglie che si connettono coi baluardi eretti a difesa degli approcci della capitale.

Villaggi, campi coltivati, boschi, costruzioni strane, attendamenti delle colonie militari, sfilavano dinanzi agli sguardi meravigliati di Rokoff e di Fedoro, mentre più al nord pareva che s’avanzasse correndo, l’enorme massa di Pechino, colle sue torri, coi suoi templi, colle sue muraglie, colle sue migliaia e migliaia di guglie di antenne, coi suoi tetti di porcellane azzurre, verdi e giallo dorate.

– Che spettacolo! – esclamava Fedoro.

– Superbo, magnifico! – ripeteva Rokoff con entusiasmo. – Ora comprendo la passione degli aeronauti! Essi soli possono contemplare simili meraviglie perché hanno la mobilità. Ecco la gigantesca città che pare si precipiti contro di noi! Pechino a volo d’uccello! Chi l’ha mai veduta?

– E come procediamo bene, senza scosse, senza soprassalti! Che macchina perfetta, Rokoff!

– Meravigliosa, Fedoro.

– Ecco le prime muraglie!

– E laggiù i tetti gialli della città imperiale.

– Guarda, Rokoff, ammira!

– Non ho occhi bastanti per vedere tutto! Vorrei averne una dozzina invece di due.

Lo «Sparviero», attraversato il parco dei Mari del Sud, si avanzava sopra Pechino, tenendosi ad un’altezza di quattrocento metri.

L’immensa città si svolgeva tutta intera sotto gli occhi dei quattro aeronauti.

La capitale del più potente impero del mondo, o meglio del più popoloso, sorge su una vasta pianura parte sabbiosa e parte fangosa, occupando una estensione immensa, perché nuove borgate continuano ad aggrupparsi intorno alle sue mura.

Come quasi tutte le città mongole, forma un quadrato più o meno perfetto, la cui superficie è stata valutata in seimila ettari e si divide in due città ben distinte, ognuna delle quali ha un nome particolare: Nuich’ Eng ossia «città entro le mura» o tartara e Cheng-wai o «fuori mura».

Entrambe però sono cintate e difese da torri massicce di forma quadrata e da bastioni merlati alti da quindici a sedici metri, non certo però capaci di resistere a lungo al tiro delle artiglierie moderne, quantunque sembrino a prima vista poderosi, essendo lastricati di marmo.

La città fuori mura è quella commerciale, un caos di vie e di viuzze sfondate e polverose, di case di tutte le forme e dimensioni, di negozi e di baracche, dove brulicano milioni di celestiali.

Quella tartara invece è destinata alla corte imperiale ed è la meglio difesa, avendo mura più alte e massicce e le porte che sono quattro, sormontate da torrioni d’aspetto imponente.

Se la Cheng-wai presenta gravi sintomi di decadenza, l’altra invece si mantiene ancora superba e sempre meravigliosa.

Secoli e secoli sono passati sui suoi giardini incantati, sulle sue splendide gallerie, sui suoi grandiosi palazzi, sui suoi tetti di porcellana gialla, sulle sue cupole meravigliose, ma pare che non l’abbiano affatto invecchiata, anzi tutt’altro.

Lo «Sparviero», dopo essersi librato sulla Cheng-wai, dove si vedevano radunarsi nelle piazze e sulle vie miriadi di cinesi attratti da quell’immenso uccello che dovevano prendere per qualche drago mostruoso, si era lentamente diretto verso la città imperiale, le cui mura rosse spiccavano vivamente fra il verde dei giardini.

Prima però di prendere la corsa verso i tetti gialli, scintillanti sotto i raggi del sole, lo «Sparviero» con un largo giro aveva raggiunto il tempio del cielo, uno dei più grandiosi che sorgano nella capitale, librandosi per alcuni minuti su di esso.

Come quello dell’Agricoltura, è difeso da una cinta ombreggiata da filari d’alberi, lauri e pini e si erge sopra una terrazza a gradini di marmo, lanciando ben alti i suoi tetti sovrapposti e la sua larga rotonda adorna di maioliche verniciate e di pilastri azzurri, rossi, scarlatti e gialli con foglioline d’oro.

– Ammirabile! Stupendo! – esclamava Rokoff.

– Ed immenso – disse Fedoro.

– E quello che sorge laggiù è più bello ancora – disse il capitano, che si era collocato presso di loro.

– È il tempio dell’Agricoltura, è vero capitano?

– Sì – rispose l’aeronauta. – Vedete anche il piccolo campo sacro, dove una volta l’Imperatore e i principi si recavano, all’epoca dei lavori di primavera, a guidare l’aratro d’avorio e d’oro, invocando le benedizioni del cielo e della terra.

– Ora non si fa più quella cerimonia? – chiese Rokoff.

– No, e ciò dopo l’entrata delle truppe franco-inglesi nella capitale, ossia dal 1860. Guardate, il tempio è superbo, degno di questo gran popolo.

Con una rapida volata lo «Sparviero» lo aveva raggiunto, descrivendo un vasto giro intorno alla colossale costruzione la quale lanciava verso il cielo i suoi tre tetti sovrapposti, coperti di tegole gialle ed azzurre.

Si tenne qualche istante quasi immobile, onde gli aeronauti potessero meglio contemplare i marmorei scaloni e la selva di pilastri variopinti e coperti di sculture, poi, innalzatosi di duecento metri mosse dritto verso la città imperiale, fugando colla sua presenza le guardie che vegliavano sui bastioni.

Dalle vie e dalle piazze della Cheng-wai salivano, di quando in quando, dei clamori assordanti mescolati allo strepito di migliaia di gong e di tam-tam e di conche marine e si vedeva la folla precipitarsi verso le muraglie della città tartara.

– Che abbiano paura che noi andiamo a uccidere l’Imperatore? – chiese Rokoff.

– Siamo sopra la città inviolabile e hanno ragione di inquietarsi – rispose il capitano.

 

– Che ci prendano per mostri?

– Crederanno lo «Sparviero» un drago sceso dalla luna.

– Che ci sparino addosso? – chiese Fedoro.

– Non credo, avendo troppa paura dei draghi – disse il capitano sorridendo. – D’altronde ci è facile metterci fuori di portata, potendo il mio «Sparviero» raggiungere delle altezze incredibili, dove certo non arrivano le palle dei più potenti cannoni. Finché si accontentano di urlare e di battere i loro gong, lasciamoli fare. Ecco i palazzi imperiali. Che cosa ne dite di tanta magnificenza?

La città tartara od imperiale, è divisa pure in due città ben distinte, da muraglie altissime, tinte di rosso e difese da bastioni e da torri.

Nella prima abitano i funzionari e i soldati; nella seconda l’imperatore e i principi del sangue, ciambellani, e così via, i quali, tutti insieme, raggiungono la popolazione di una città di terz’ordine.

Ha quattro porte che corrispondono coi quattro punti cardinali e che nessuno può varcare senza speciale permesso ed è chiamata la città gialla ossia santa.

Quivi palazzi grandiosi del più puro stile cinese, gallerie immense sostenute da colonne dorate, tetti a punte arcuate con tegole di porcellana, cortili immensi lastricati di marmo bianco e adorni di mostruosi draghi e di chimere di bronzo, giardini meravigliosi, viali ricchi d’ombre, chioschi e padiglioni che sembrano formati di merletti, ponti, canali e laghetti dove si cullano barchette scolturate e ricche di dorature.

Nel centro sorgono due colline, erette dalla mano dell’uomo, dalle cui cime il possente imperatore può dominare tutta la immensa città che lo circonda. La più alta, chiamata Meician, o Montagna del Carbone, e se si deve credere ad una leggenda popolare, poserebbe su colossali depositi di carbone, accumulati nell’eventualità d’un lungo assedio.

Anche intorno ai palazzi imperiali e nei giardini, regnava una confusione straordinaria, suscitata dall’improvvisa comparsa del mostruoso uccello. Guardie imperiali, armate di fucili, accorrevano da tutte le parti urlando e facendo muggire le conche di guerra e sulle terrazze e nelle gallerie si vedevano raggrupparsi donne manifestando il loro spavento con gesti disperati. Forse anche l’Imperatore si era degnato di lasciare i suoi appartamenti per vedere quell’uccellaccio di nuova specie, che osava volteggiare sopra i tetti e gli alberi della città inviolabile.

– Capitano – disse ad un tratto Rokoff, indicandogli un bastione sul quale si erano aggruppati parecchi soldati. – Si preparano a far fuoco contro di noi. Stanno puntando un pezzo d’artiglieria.

– Sono a milleduecento metri – rispose l’aeronauta con voce tranquilla. – Spareranno male di certo, tuttavia prendiamo le nostre precauzioni. Avete veduto abbastanza la città gialla? Allora possiamo andarcene. Ehi, macchinista?

– Signore!

– Saliamo e aumentiamo.

– Subito, capitano.

In quell’istante sul bastione si vide una nube di fumo attraversata da un getto di fuoco, poi si udì una detonazione.

Un sibilo acuto, che aumentava rapidamente, giunse agli orecchi degli aeronauti, poi si perdette in lontananza.

– Troppo bassa – disse il capitano, senza perdere un atomo della sua calma. – Ero certo che ci avrebbero sbagliati.

Lo «Sparviero» s’innalzava sbattendo vivamente le sue ali, le quali provocavano una forte corrente d’aria.

Salì fino a seicento metri, descrivendo una spirale, poi si slanciò innanzi colla rapidità d’una rondine e passò sopra gli opposti bastioni, dirigendosi verso il nord.

– Dove andiamo, signore? – chiese Rokoff, vedendo che lo «Sparviero» si allontanava dalla capitale.

– A far colazione per ora – rispose il capitano. – La pianura di Pechino non ha nulla d’interessante per trattenerci qui. Più tardi vi sarà qualche cosa da vedere, prima di andarcene verso la grande muraglia.

– Ma la vostra direzione quale sarebbe? – insistette Rokoff.

– Il nord – rispose asciuttamente il capitano. – Macchinista è pronta la colazione?

– Sì, signore.

– Venite – disse il comandante volgendosi verso Rokoff e Fedoro. – Suppongo che avrete fame.

– Come lupi a digiuno da una settimana – rispose il cosacco. – Le razioni dei carcerati non sono abbondanti nelle prigioni cinesi.

– Lo so, anzi si corre sovente il pericolo di morire molto spesso di fame – disse l’aeronauta. – Si fa molto economia là dentro.

Il macchinista, legata la piccola ruota del timone che serviva a far agire le alette di poppa, in pochi istanti aveva apparecchiata la tavola situata dietro la macchina, al riparo d’una tenda.

Tovaglia di Fiandra finissima, piatti e posate d’alluminio, bicchieri di cristallo di Boemia, poi tondi contenenti dell’arrosto freddo, delle costolette, dei salumi, delle frutta: ricchezza, buon gusto ed abbondanza insieme.

Una cosa aveva però subito colpito il russo ed il cosacco: vivande e frutta erano coperte da un leggero strato scintillante che pareva ghiaccio.

– Assaggiate questo capretto arrostito – disse il capitano. – Quantunque sia stato cucinato in Giappone, deve essere ancora squisito.

Rokoff e Fedoro si guardarono l’un l’altro con stupore.

– Anche queste costolette, sebbene arrostite a Tahiti, devono essere eccellenti.

– Ma… scherzate? – chiese il cosacco,. il cui stupore era al colmo.

– E questo pasticcio di carne che ho fatto preparare a San Francisco di California? – continuò il comandante, che pareva si divertisse molto della meraviglia dei suoi ospiti. – Ho però di meglio. Ecco una trota preparata a Nuova York, in uno dei principali alberghi. L’hanno messa a friggere quarantadue giorni or sono, pure rispondo della sua freschezza. Assaggiate, signori miei. Se fosse stata pescata ieri sera, non sarebbe più deliziosa.

Rokoff che amava il pesce, quantunque poco persuaso delle parole dette dal capitano, si provò ad assalire quella trota che veniva dalla lontana capitale degli Stati Uniti.

– Che cosa dite? – chiese il comandante, con accento malizioso.

– Squisita… eccellente… solamente la trovo terribilmente fredda… come se fosse stata pescata in qualche fiume gelato della Siberia e lasciata a ghiacciare per un mese. Avete dunque una ghiacciaia a bordo del vostro «Sparviero»?

– Sì, e una ghiacciaia che vi farebbe gelare per sempre in meno di due minuti – rispose il capitano.

– Avete qualche macchina da ghiaccio?

– Ho di meglio, signor Rokoff. A voi queste uova. Provate a spezzarle

– Sono coperte da uno strato di ghiaccio.

– Vi pare ma non sono tali. Rompetele e mangiate.

Il cosacco tentò di aprirle, ma il guscio resistette a tutti i suoi sforzi.

– Vi occorre un martello – disse il capitano. – Il macchinista le ha lasciate gelare troppo. Assaggiate invece questo ananas raccolto alle Marianne.

– Sembra un blocco di ghiaccio.

– Sarà migliore così, perché nulla avrà perduto del suo sapore e del suo profumo. E voi, signor Fedoro, come trovate quel pasticcio di San Francisco?

– Non ne ho mai mangiato uno più gustoso, però mi si gelano i denti.

– Bisognava lasciarlo un po’ più esposto al sole. Non avevo pensato che voi non siete abituati a cibi così freddi. Macchinista, una buona bottiglia di gin e di whisky. Ci riscalderà un po’.

Il capitano, ch’era diventato d’una amabilità straordinaria, servì ai suoi ospiti dell’eccellente whisky, poi offrì delle sigarette e delle pipe.

– Ed ora, – disse – voglio soddisfare la vostra curiosità, perché suppongo che non mi lascerete troppo presto. Se dovessi deporvi qui, i cinesi non tarderebbero ad acciuffarvi ancora e più innanzi non vi converrebbe lasciarmi.

– Ma dove andate? – chiese Rokoff.

– Vi piacerebbe tornare in Europa a bordo del mio «Sparviero»?

– In Europa! – esclamarono il russo ed il cosacco ad una voce.

– Noi faremo la traversata dell’Asia – rispose il capitano.

– Chi rifiuterebbe una simile proposta! – esclamò Rokoff con entusiasmo.

– Non avete paura a seguirmi?

– Oh no, signore! Abbiamo troppa fiducia in voi e nel vostro «Sparviero».

– Voi però potreste supporre di aver salvato due bricconi – disse Fedoro.

– Ho avuto il tempo di apprezzarvi e d’altronde so che voi siete uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale e che il vostro amico è un ufficiale dei cosacchi. Tali persone non possono essere dei banditi.

– Come sapete questo? – esclamò Fedoro.