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Capitan Tempesta

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I superstiti si erano affrettati a volgere le spalle, fuggendo a gran corsa verso il campo turco, fra i fischi e le risate dei loro compagni, che non approvavano quell’intervento improvviso.

– Ecco la lezione che vi meritavate disse il Leone di Damasco, mentre il suo scudiero lo sorreggeva.

Le artiglierie turche non avevano risposto ai due colpi di colubrina dei cristiani.

Capitan Tempesta, che aveva ancora la spada in mano, risoluto a vendere cara la vita, fece a Muley-el-Kadel un cenno d’addio con la sinistra, rimontò sul suo cavallo e s’allontanò verso Famagosta, mentre i guerrieri cristiani lo salutavano con un vero uragano d’applausi.

Nel momento in cui si allontanava, il polacco che non era morto, sollevò lentamente la testa e lo seguì collo sguardo, mormorando:

– Spero che ci rivedremo, fanciulla.

A Muley-el-Kadel non era sfuggita quella mossa.

– Costui non è morto disse al suo scudiero, – Ha l’anima incavigliata dunque, l’Orso della Polonia?

– Devo finirlo? chiese lo scudiero.

– Conducimi presso di lui.

Appoggiandosi al soldato e comprimendosi con una mano la ferita che sanguinava abbondantemente, s’appressò al capitano.

– Volete finirmi? chiese Laczinki con voce rantolante. – Ormai sono vostro correligionario… perchè ho rinnegato la croce. Uccidereste un mussulmano.

– Vi farò curare rispose il Leone di Damasco.

– È quello che volevo mormorò fra sè l’avventuriero. – Ah! Capitan Tempesta, me la pagherai!

CAPITOLO IV. La ferocia di Mustafà

Dopo quella sfida cavalleresca che aveva accresciuta la fama già ben salda di Capitan Tempesta, riconosciuta ormai da tutti come la prima lama di Famagosta, l’assedio della disgraziata città era stato ripreso da parte delle orde turche, ma con molto meno slancio di quello che i cristiani s’aspettavano.

Pareva che, dopo la sconfitta del Leone di Damasco, un profondo scoraggiamento si fosse impadronito degli assedianti. Il fatto era che non spingevano più gli attacchi coll’accanimento primiero e che il bombardamento languiva.

Il comandante supremo delle orde barbare, Mustafà, non si vedeva più, come nel passato, ispezionare ogni mattina, dopo la preghiera, le colonne d’assalto, nè mostrarsi fra le compagnie degli artiglieri per incoraggiarli colla sua presenza.

Perfino i clamori selvaggi, che finivano sempre in un ululato spaventoso, che suonava «morte e sterminio ai nemici della Mezzaluna» non echeggiavano più nell’immenso campo. Che più? Perfino le trombe rimanevano mute ed i timballi della cavalleria non facevano udire i loro rulli.

Pareva che qualcuno avesse imposto a quello sterminato esercito il silenzio più assoluto.

Invano i capitani cristiani cercavano di spiegare quel mistero. Eppure non era quella l’epoca del Ramadan, della quaresima turca, durante la quale gli adoratori del Profeta sospendono perfino le operazioni di guerra, per pregare ed imporsi lunghi digiuni.

Come non era possibile che il Gran vizir avesse comandato il silenzio, per non turbare la guarigione del giovane Leone di Damasco, che infine non era altro che il figlio d’un pascià.

Capitan Tempesta e il suo tenente aspettavano la spiegazione di questo fatto assolutamente straordinario da El-Kadur, l’unico forse che avrebbe potuto dire qualche cosa, ma l’arabo, dopo il colloquio di quella notte, non era più rientrato in Famagosta.

L’improvvisa inattività dei nemici non incoraggiava affatto gli assediati, pel motivo che i viveri scemavano tutti i giorni e che la fame si faceva sentire sempre più aspra, specialmente per gli abitanti i quali vedevano diminuire ogni giorno le loro provviste d’olio e di cuoio, l’unico loro nutrimento già da parecchie settimane.

Erano trascorsi così parecchi giorni, collo scambio di qualche raro colpo di colubrina da una parte e dall’altra, quando una notte che Capitan Tempesta e Perpignano erano di guardia sul bastione di San Marco, videro un’ombra arrampicarsi, coll’agilità d’un quadrumane, su per la scarpa semidiroccata dalle mine dei turchi.

– Sei tu, El-Kadur? chiese Capitan Tempesta, afferrando, per precauzione, un archibugio che stava appoggiato al parapetto e che aveva la miccia accesa.

– Sì, padrone rispose l’arabo. – Non fate fuoco.

Con un ultimo slancio s’aggrappò ad un merlo e balzò agilmente sul parapetto, cadendo dinanzi a Capitan Tempesta.

– Eravate inquieto della mia prolungata assenza, è vero, padrone? – chiese l’arabo.

– Temevo che ti avessero scoperto e ucciso, – rispose Capitan Tempesta.

– Non hanno alcun dubbio su di me, rassicuratevi, padrone, – disse l’arabo – quantunque il giorno in cui voi vi misuraste col Leone di Damasco m’avessero veduto armare le pistole per ucciderlo, nel caso che vi avesse ferita.

– Migliora?

– Muley-el-Kadel deve avere la pelle ben dura, padrone. Egli è già convalescente e fra un paio di giorni rimonterà a cavallo. Ah! Ho anche un’altra notizia importante da darvi e che vi stupirà assai.

– Quale?

– Che anche il polacco migliora rapidamente.

– Laczinki! esclamarono ad una voce il capitano ed il suo tenente.

– Sì, lui.

– Non è stato ucciso da quel colpo di scimitarra?

– No, padrone. Sembra che gli orsi delle foreste polacche abbiano le ossa solide.

– E non l’hanno finito?

– No, perchè ha rinnegata la croce abbracciando la fede del Profeta rispose El-Kadur. – Quell’avventuriero ha l’animo molto largo, a quanto pare, e adora tanto la Croce quanto la Mezzaluna.

– È un miserabile! – esclamò Perpignano, con indignazione. – Combattere contro di noi, i suoi fratelli d’arme!

– E appena guarito sarà nominato capitano dell’esercito turco aggiunse l’arabo. – Uno dei pascià gli ha promesso quel grado.

– Quell’uomo deve odiarmi mortalmente, senza che io gli abbia fatto mai nulla di male, se invece non mi…

– Che cosa, capitano? chiese il veneziano, vedendolo interrompersi bruscamente.

Capitan Tempesta, invece di rispondere, chiese all’arabo:

– Ancora nulla?

– Nulla, padrone, – rispose El-Kadur, facendo un gesto desolato. – Non so il perchè si mantiene ostinatamente il segreto sul luogo ove fu condotto il signore Le Hussière.

– Eppure è impossibile che tutti lo ignorino, – disse Capitan Tempesta, con un sospiro. – Che l’abbiano ucciso? Dio mio! Quale sospetto!

– No, padrona, sono certo che egli vive. Io credo che sia stato relegato in qualche castello della costa, colla speranza d’indurlo ad abbracciare la religione islamita.

Egli è un gran valoroso ed i turchi accolgono volentieri fra le loro file i valenti, di cui hanno molto bisogno per guidare le loro orde innumerevoli sì, ma indisciplinate.

Capitan Tempesta si era lasciato cadere su un mucchio di macerie, come se fosse stato colto da una improvvisa debolezza.

Perpignano e l’arabo lo guardavano, entrambi profondamente commossi.

– Che io non possa sapere più mai che cosa è avvenuto di lui? mormorò la giovane duchessa con un sordo singhiozzo.

– Non disperate, padrone disse l’arabo. – Non rinuncerò alle mie gite notturne, finchè non mi avranno detto dove lo hanno condotto. Saper che egli è vivo è già molto.

– Tu non ne hai le prove, mio buon El-Kadur.

– È vero, ma se l’avessero ucciso, al campo lo si saprebbe di certo.

– E perchè sono tanto riluttanti a dire dove si trova prigioniero?

– Questo non lo so, padrone.

Capitan Tempesta si era alzato.

– Sì, forse ho torto a disperare, – disse.

In quel momento un baccano spaventevole ruppe improvvisamente il silenzio della notte.

Nel campo turco si udivano squillare le trombe e rullare i timballi della cavalleria ed un vociare furioso e scoppi d’armi da fuoco.

Migliaia e migliaia di torce si erano accese come per incanto e correvano per la vasta pianura, raggruppandosi verso il centro del campo, dove giganteggiava la tenda del gran vizir, il comandante supremo delle orde.

Capitan Tempesta, Perpignano ed El-Kadur si erano accostati rapidamente al parapetto del bastione, mentre le trombe delle sentinelle cristiane suonavano a tutto fiato l’allarme ed i guerrieri veneti, che riposavano nelle casematte, afferravano le armi accorrendo sulle mura.

– Si preparano all’assalto generale, – disse Capitan Tempesta.

– No, padrone disse l’arabo, con voce tranquilla. – È una rivolta che scoppia nel campo turco e che era già preparata fino da stamane.

– Contro chi?

– Contro il gran vizir, Mustafà.

– Per quale motivo? – chiese Perpignano.

– Per costringerlo a riprendere vigorosamente l’assedio della città. Sono otto giorni che le truppe rimangono quasi inoperose e che rumoreggiano.

– Infatti tutti lo abbiamo notato, – disse Perpignano. – Forse che il Gran vizir è ammalato?

– Sembra anzi che stia benissimo. È il suo cuore che è incatenato.

– Che cosa vuoi dire, El-Kadur? – chiese Capitan Tempesta.

– Che una fanciulla cristiana della Canea, lo ha affascinato. Il vizir è innamorato e forse, dietro consiglio di quella beltà, vi ha accordato una lunga tregua.

– Possibile che gli occhi d’una donna possano esercitare tanta influenza su quel crudele capitano? – disse il tenente.

– Si dice che sia d’una bellezza meravigliosa. Tuttavia io non vorrei trovarmi al suo posto, perchè l’esercito intero reclama la sua morte considerandola come l’unico ostacolo alle operazioni di guerra.

– E credi tu che il vizir cederà dinanzi alla volontà dei suoi soldati? – chiese Capitan Tempesta.

– Vedrete che non oserà resistere rispose l’arabo. – Il sultano tiene delle spie al campo e, se venisse informato del malumore che regna fra i suoi guerrieri, non indugerebbe a regalare al comandante supremo un laccio di seta, e voi sapete che cosa significhi un simile dono: o appiccarsi o venire impalato.

 

– Povera fanciulla! – esclamò Capitan Tempesta, con voce commossa. – E dopo?

– Quando quell’adorabile candiotta non esisterà più, potete aspettarvi un assalto furibondo. Le orde islamite sono stanche della lunghezza di questo assedio e si rovesceranno su Famagosta, come un mare in tempesta e spazzeranno via ogni cosa.

– Saremo pronti a riceverle come si meritano, – disse Perpignano. – Le nostre spade e le nostre corazze sono solide ed i nostri cuori non tremano.

L’arabo scosse il capo, guardando con angoscia la duchessa, poi disse con un sospiro:

– Sono troppi.

– A meno che non prendano la città per sorpresa.

– Ci sarò sempre io per avvertirvi in tempo. Devo tornare al campo turco, padrone?

Capitan Tempesta non rispose.

Appoggiato al parapetto, ascoltava le vociferazioni spaventevoli degli assedianti e seguiva con uno sguardo inquieto le miriadi di torce che s’agitavano burrascosamente intorno all’alta tenda del gran vizir.

In mezzo a quel baccano assordante, che pareva il muggito d’un mare sconvolto dai venti, s’udivano ad intervalli migliaia di voci che urlavano:

– Morte alla schiava! Vogliamo la sua testa!

Poi i timballi, le trombe e gli spari coprivano quelle grida feroci e tutte quelle urla, che sfuggivano da centomila petti, si fondevano in un ruggito spaventevole, come se il campo degli infedeli fosse stato improvvisamente invaso da legioni e legioni di belve feroci, sbucate dai deserti africani ed asiatici.

– Debbo tornare, padrone? – tornò a chiedere l’arabo.

Capitan Tempesta si scosse e rispose:

– Sì, va, mio buon El-Kadur. Approfitta di questo istante di tregua e non stancarti nelle tue ricerche se vuoi vedermi felice.

Negli occhi del figlio del deserto passò come un’ombra d’infinita tristezza, poi disse, con accento rassegnato:

– Farò quello che vorrete, padrone, pur di veder le vostre belle labbra a sorridere e la vostra fronte serena.

Capitan Tempesta fece cenno al suo tenente di rimanere, poi accompagnò l’arabo verso il parapetto del bastione.

– Tu mi hai detto che il capitano Laczinki è ancora vivo, – disse.

– È vero, signora, nè pare che per ora abbia alcuna voglia di morire.

– Veglia su di lui.

– Che cosa temete, padrona, da quel rinnegato? – chiese l’arabo levandosi minaccioso in tutta la sua altezza.

– Sento in lui un nemico.

– Per quale motivo dovrebbe odiarvi?

– Egli ha scoperto che io sono una donna invece d’un uomo.

– Che vi ami invece? – chiese El-Kadur, mentre il suo volto si trasfigurava sotto un improvviso scoppio d’ira terribile.

– Chi lo sa, – rispose la duchessa. – Potrebbe odiarmi perchè la donna ha abbattuto il Leone di Damasco e potrebbe anche segretamente amarmi. Non è facile comprendere il cuore umano.

– Il visconte Le Hussière sì, ma quel polacco, no! – disse l’arabo con voce fremente.

– Supporresti che io amassi quell’avventuriero?

– Non lo crederei mai, signora, ma se così fosse… El-Kadur ha un jatagan nella cintura e lo immergerà tutto nel petto di quel rinnegato.

Si leggeva in quel momento sul viso del selvaggio figlio dell’Arabia una tale espressione di collera, che Capitan Tempesta ne fu impressionato. Vi era una disperazione intensa, terribile.

– Non temere, mio povero El-Kadur, – disse la duchessa. – O le Hussière o nessuno. Amo troppo quel valoroso.

L’arabo si portò una mano sul cuore, conficcandosi le unghie nella carne, come se avesse voluto soffocarne i battiti e chinò il capo, nascondendo il viso nell’alto colletto del suo mantello.

– Addio, signora, – disse dopo qualche istante. – Veglierò su quell’uomo nel quale sento anch’io un nemico della vostra felicità, ma veglierò come il leone spia la preda che agogna. Quando lo comanderete il povero schiavo ucciderà.

Poi, senza attendere la risposta della duchessa, balzò sul parapetto e si lasciò scivolare giù dalla scarpa, scomparendo rapidamente fra le tenebre.

La giovane duchessa era rimasta immobile, cercando di discernere attraverso le ombre della notte il taub del suo fedele schiavo.

– Come deve sanguinare il suo cuore! – mormorò. – Povero El-Kadur. Sarebbe stato meglio per te che mio padre non ti avesse liberato dal tuo crudele padrone.

Perpignano, vedendola sola, s’era fatto innanzi.

– Pare che i turchi si siano calmati, – le disse. – Che abbiano assassinata la cristiana? Quelle canaglie sono capaci di tutto: quando la collera li prende non rispettano nè donne, nè fanciulli.

– Purtroppo, – sospirò la duchessa.

Infatti le grida erano cessate nel campo turco e non si udivano più nè i timballi della cavalleria, nè gli squilli delle trombe. Si scorgevano invece sempre quelle miriadi di fiaccole radunarsi or qua ed or là, ed ora disperdersi per l’immenso campo in lunghissime file che formavano delle capricciose linee di fuoco, spiccanti vivamente fra la profonda oscurità della notte piovigginosa.

I capitani cristiani, accortisi che almeno per quel momento gli infedeli non avevano alcuna intenzione di muovere all’attacco della città, avevano rimandate le loro compagnie nelle casematte, non lasciando che delle forti guardie sui bastioni principali, specialmente intorno alle colubrine.

La notte, come già El-Kadur aveva predetto, passò senza allarmi e gli assediati poterono riposarsi tranquillamente.

Appena l’aurora comparve, fugando le ultime stelle, quattro cavalieri turchi che portavano sulle alabarde dei drappi di seta bianca e che erano preceduti da un trombettiere, si presentarono sotto il bastione di San Marco sulla cui piattaforma si radunavano ordinariamente i capitani cristiani, chiedendo ad alta voce un breve armistizio, onde farli assistere ad uno spettacolo straordinario, che, assicuravano, avrebbe dovuto influire assai sulle sorti della guerra.

Credendo che si trattasse di qualche nuova sfida, come succedeva di frequente, i comandanti veneti, che non volevano d’altronde irritare troppo quei barbari, che tenevano ormai nelle loro mani le sorti della disgraziata città, dopo un breve consiglio, acconsentirono, promettendo che non avrebbero aperto il fuoco prima del mezzodì.

Dieci minuti dopo che i cavalieri erano tornati al campo, gli assediati che si erano radunati sulle mura e sui bastioni, non fidandosi delle promesse di quei barbari, videro spiegarsi nella pianura le innumerevoli orde nemiche, sfilando per battaglioni, come in una grande rivista.

S’avanzavano prima gli artiglieri dalle vesti variopinte e gli ampi calzoni, seguiti da duecento colubrine trainate da superbi cavalli arabi impennacchiati e infioccati e con ricche gualdrappe rosse; poi s’avanzavano le compagnie dei giannizzeri, quei terribili guerrieri che formavano il nerbo dell’esercito turco, uomini che non avevano paura della morte e che una volta lanciati, nè spade, nè colubrine, nè moschetti potevano arrestare.

Poi si avanzavano gli albanesi, coi loro sfarzosi costumi, le sottanine bianche ed ampie ed i ricchi e vasti turbanti e le fasce riboccanti di pistoloni e di jatagan; gli irregolari dell’Asia Minore, armati di archibugi, di alabarde e perfino di balestre usate cent’anni prima, coperti di cotte d’acciaio scintillanti e forniti di ampi scudi che forse datavano dal tempo delle crociate ed infine immense colonne di cavalieri arabi ed egiziani, avvolti nei loro mantelli bianchi, abbelliti all’estremità da larghe righe rosse ed infioccati.

Al suono delle trombe ed al fragore dei timballi, lo sterminato esercito si schierò su varie colonne nella vasta pianura, formando un immenso semicerchio, i cui margini si perdevano all’orizzonte.

– Che vogliano spaventarci mostrando la potenza dei loro reggimenti? – chiese Perpignano a Capitan Tempesta, che guardava, non senza un fremito di terrore, sfilare quelle masse enormi.

– Non lo so rispose la giovane duchessa. – Qualche cosa però deve succedere.

Aveva appena pronunciate quelle parole, quando le trombe cessarono bruscamente di echeggiare ed i timballi diventarono muti.

Le colonne si aprirono dinanzi al bastione di San Marco e gli assediati videro avanzarsi il Gran vizir Mustafà, tutto coperto di ferro brunito, con un ampio turbante sormontato da un gran pennacchio, che scintillava come se fosse cosparso di diamanti.

Montava un cavallo arabo dal pelo bianco, dalla criniera lunghissima, bardato con lusso inaudito. Aveva un enorme ciuffo di magnifiche penne di struzzo fissato sulla testa, briglie larghe come usano oggidì i marocchini e i berberi, intagliate e dorate, una grande gualdrappa di velluto cremisi con frange d’oro che gli scendeva fino al garrese e le fonde delle pistole di velluto azzurro con due grandi mezzelune d’argento.

Lo seguiva un araldo con una lunga tromba ed uno stendardo di seta verde, poi veniva su una giumenta bianca una fanciulla, tutta avvolta in un lungo velo candidissimo, adorno di piccole stelle d’oro che impediva di poterla vedere in viso, quindi pascià e capitani, tutti risplendenti nelle loro corazze argentate e cavalieri superbamente vestiti, con turbanti giganteschi e sorreggenti delle aste sormontate dalla mezzaluna con sotto delle code di cavallo.

Il gran vizir, che procedeva al passo, trattenendo con mano ferma il suo ardente destriero, mentre teneva l’altra posata fieramente sull’anca, s’inoltrò fino a trecento metri dal bastione di San Marco, guardando fissi i capitani cristiani, affollati sugli spalti, poi snudò la sua scimitarra e si volse verso i suoi guerrieri, gridando con voce tuonante:

– Ecco come il vostro vizir spezza le sue catene!…

Con una improvvisa speronata fece fare al suo arabo un gran salto che lo portò presso la giumenta, si rizzò sulle corte e larghe staffe e con un terribile colpo della sua arma tagliò netto il collo della fanciulla, facendo volare lontano il capo, senza dubbio bellissimo.

Il corpo della decapitata si mantenne per alcuni secondi ritto sulla sella mentre i bianchi veli si coprivano di sangue, poi stramazzò al suolo, mentre un grand’urlo di raccapriccio s’alzava fra i cristiani.

Il gran vizir asciugò sulla gualdrappa del proprio cavallo la scimitarra, la ringuainò freddamente, poi tendendo il pugno chiuso verso Famagosta, gridò con voce terribile che parve uno scoppio di tuono:

– Ed ora, giaurri, pagherete pel sangue che ho sparso! Ci rivedremo questa notte!

CAPITOLO V. L’assalto di Famagosta

La minaccia del gran vizir dei turchi aveva prodotto un profondo effetto sui capitani cristiani, i quali conoscevano l’audacia e la fermezza di quel formidabile guerriero, cui fino allora aveva sempre arriso la vittoria, nonostante l’estremo valore dei soldati veneti.

Certi di dover subire nella notte un assalto furioso, più tremendo di quanti ne avevano provati fino allora e conoscendo la loro debolezza, dopo che le mine avevano sconquassati i bastioni e le cinte, dietro consiglio del governatore avevano subito preso le disposizioni necessarie per far fronte al terribile pericolo che li minacciava.

I posti di guardia furono raddoppiati, soprattutto sulle torri a difesa dei profondi fossati, quantunque ormai questi fossero così ingombri di macerie da non poter più servire da ostacolo, e le colubrine furono piazzate nei punti più elevati onde battere e coprire di mitraglia gli assalitori.

Gli abitanti, già avvertiti, malgrado la loro estrema debolezza causata dai lunghi digiuni, non ignorando che se i turchi fossero riusciti a varcare le cinte, non sarebbero sfuggiti alle loro scimitarre, erano prontamente accorsi a rinforzare i bastioni più maltrattati colle macerie levate dalle loro abitazioni, già quasi tutte demolite da quel lungo assedio.

Una profonda angoscia si era impadronita di tutti. Sentivano per istinto che la fine di Famagosta era prossima e che una orribile strage stava per succedere.

L’esercito turco, venti volte superiore agli assediati, sicuro della sua strapotente forza, e della immensa superiorità delle sue artiglierie, stanco di quel lunghissimo assedio che lo stremava da mesi e mesi, doveva tentare uno di quei formidabili sforzi a cui nessuno può resistere: nè la saldezza dei cuori meglio corazzati contro la paura, nè il valore disperato, nè la fede incrollabile.

Durante la giornata, gli assedianti si mantennero tranquilli, limitandosi a sparare solo, di quando in quando, qualche colpo di colubrina, più per rettificare il tiro dei loro pezzi, che per danneggiare le opere di difesa degli assediati; però si vedeva nel loro campo un movimento insolito.

Gruppi di cavalieri partivano ad ogni istante dalle tende del Gran vizir e dei pascià, recandosi alle estreme ali dell’esercito per portare ordini e si scorgevano gli artiglieri trascinare i loro pezzi verso le trincee, mentre bande di minatori si disperdevano per la pianura strisciando come serpenti per non farsi mitragliare.

 

I capitani cristiani, Bragadino, Martinengo, Tiepolo e l’albanese Manoli Spilotto, dopo aver tenuto consiglio col governatore della piazza, Astorre Baglione, avevano deciso di prevenire l’assalto dei turchi con un furioso bombardamento, onde tener lontani i minatori ed impedire alle artiglierie turche di piazzarsi indisturbate nei punti migliori.

Ed infatti, appena scoccato il mezzodì, tutti i pezzi che guarnivano i bastioni e le torri aprirono tosto un fuoco infernale coprendo la pianura di ferro e di palle di pietra, mentre i più abili archibugieri, nascosti dietro i parapetti ed i merli, gareggiavano fra di loro nel freddare i minatori che s’avanzavano incessantemente, cercando di ripararsi dietro le ineguaglianze del suolo.

Quel rimbombo assordante durò fino al calar del sole, causando agli assedianti non poche perdite e smontando parecchie colubrine; poi, appena le tenebre furono fitte, squillarono le trombe d’allarme per far accorrere l’intera popolazione alla difesa delle cinte.

L’esercito turco si spiegava allora per la tenebrosa pianura, in masse enormi, pronto a tentare un assalto generale.

Suonavano pure le trombe turche e rullavano i timballi della cavalleria. Urla spaventevoli si alzavano di quando in quando, echeggiando sinistramente agli orecchi dei guerrieri veneti e si udivano, nei brevi momenti di silenzio, le grida dei muezzin che incoraggiavano e fanatizzavano i figli dell’Islam.

– Nel nome di Allah! Distruggete! Uccidete! Non vi è Dio fuor di Dio e Maometto è il suo Profeta!

La difesa dei cristiani si era concentrata sul bastione di San Marco, perchè sapevano che lo sforzo maggiore del nemico sarebbe stato volto verso quello, essendo la chiave di Famagosta.

I migliori capitani, fra i quali Tempesta, avevano radunate colà le loro compagnie e piazzate venti colubrine, scelte fra le più grosse.

Il fuoco di quelle numerose bocche, manovrate per lo più da marinai veneti, che godevano allora fama di essere valentissimi, doveva fare dei grandi vuoti fra le colonne turche che muovevano all’attacco, compatte, sfidando serenamente la morte.

Anche dalle torri gli assediati sparavano furiosamente, massacrando specialmente la cavalleria che galoppava in tutti i sensi, per avvolgere completamente la città ed impedire la fuga degli abitanti ormai condannati al macello.

Il fuoco era stato appena ripreso, quando El-Kadur, che aveva lasciato il campo turco prima che gli assedianti si muovessero, scalò il bastione presentandosi a Capitan Tempesta:

– Signora, – disse con un forte tremito nella voce, fissandolo con estrema ansietà. – Ecco, l’ora terribile sta per suonare per Famagosta. A meno d’un miracolo, domani la città sarà nelle mani degli infedeli.

– Siamo tutti pronti a morire, – rispose la duchessa con accento di rassegnazione. – E il signor Le Hussière?

– Lo salverà Iddio.

– Vi è forse ancora tempo per fuggire. Coperta dal mio mantello arabo potresti passare inosservata fra la confusione orribile che succederà fra poco.

– Sono un soldato della Croce, El-Kadur, – rispose la duchessa con fierezza. – Io non priverò Famagosta d’una spada che saprà fare il suo dovere.

– Pensa, signora, che domani forse non sarai più viva, perchè io so che il gran vizir ha ordinato di passare tutti a fil di spada.

– Sapremo morire da forti, – rispose la duchessa, soffocando un sospiro. – Se è scritto che nessuno di noi sopravviverà a questo memorando assedio, si compia il nostro destino.

– Non vuoi venire dunque, signora? – insistette El-Kadur.

– È impossibile: Capitan Tempesta non può disonorarsi dinanzi alla cristianità.

– Ebbene, padrona disse l’arabo con una specie di esaltazione, – Morrò anch’io al tuo fianco.

Poi aggiunse fra sè:

– La morte spegne tutto ed il povero schiavo riposerà tranquillo.

Intanto il cannoneggiamento era diventato terribile. Le duecento colubrine turche, una artiglieria formidabilissima per quei tempi, avevano aperto il fuoco a loro volta, tempestando con violenza inaudita i bastioni e le torri già semi-diroccate da tanti mesi d’assedio.

Palle di ferro e palle di pietra cadevano in gran numero sulle opere di difesa, facendo strage dei difensori, e scariche di moschetteria si succedevano senza posa. La tenebrosa pianura pareva un mare di fuoco ed il rimbombo era così spaventevole che i bastioni tremavano e si sgretolavano, rovinando nei fossati sottostanti.

I guerrieri veneti, quantunque oppressi da quella grandine micidialissima, non si scoraggiavano e aspettavano a pié fermo l’urto immane delle sterminate orde, che muovevano all’assalto con un vociare che pareva l’ululato di miriadi e miriadi di lupi famelici, bramosi di carne umana.

Tutti gli abitanti che potevano ancora reggere un’arme, erano accorsi sui bastioni armati di picche e di alabarde, di spadoni e di mazze, invasi da un pazzo furore, mentre le loro donne ed i fanciulli si rifugiavano, urlando e piangendo, nella chiesa principale, sotto una pioggia incessante di bombe che diroccavano le ultime case, come se là dentro fosse bastato il ruggito del morente Leone della Repubblica Veneta a trattenere gli adoratori della Mezzaluna e di Maometto.

Un frastuono orrendo copriva Famagosta, Le torri, smantellate dalle artiglierie nemiche, crollavano con immenso fragore, e le cinte si sfasciavano travolgendovi gli sfortunati difensori, mentre le schegge delle enormi palle di pietra volavano dovunque, mutilando guerrieri, donne e fanciulli.

Astorre Baglione, governatore generale, assisteva impassibile a quella strage, appoggiato alla sua spada, aspettando, col cuore stretto però da un’angoscia inesprimibile, l’urto supremo.

Ritto in mezzo ai suoi capitani, impartiva con voce tranquilla gli ordini, già rassegnato da lunga pezza al suo destino e pronto a sfidare la morte.

Sapeva che il vizir non lo avrebbe risparmiato, se fosse uscito vivo da quella lotta formidabile e guardava serenamente il pericolo che lo minacciava da tutte le parti, esempio ammirabile di gran capitano.

Le masse turche intanto, spalleggiate dalla formidabile artiglieria che batteva fieramente le cadenti mura di Famagosta, s’avanzavano sempre imperterrite, aizzate senza posa dalle urla dei muezzin.

– Uccidete! Sterminate! Il Profeta e Allah ve lo comandano!

I giannizzeri si erano messi alla testa e quei terribili soldati si spiegavano sempre più nella pianura, trascinando all’assalto gli albanesi e gli irregolari dell’Arabia e dell’Asia Minore.

I minatori che li precedevano, non perdevano il loro tempo. Approfittando della confusione e dell’oscurità, si spingevano con pazza temerità sotto i bastioni e sotto le torri e, non badando a saltare in aria, facevano scoppiare barili di polvere per aprire delle brecce che permettessero alla fanteria di spingersi all’assalto.

Era specialmente contro il bastione di San Marco che s’accanivano maggiormente, minandolo da tutte le parti. Spaventevoli detonazioni si succedevano senza tregua, sconquassando la rivestitura esterna e facendo crollare le merlature.

Ciononostante i pochi figli delle lagune venete e delle scogliere dalmate non cessavano il fuoco, decimando crudelmente le colonne degli infedeli, i quali seminavano la pianura di morti e di feriti.

Impavidi fra la pioggia di macigni, scaraventati in aria da quelle esplosioni e fra quel rovinio di pietre, le quali sfuggivano sotto i loro piedi ad ogni scossa, e fra quel tempestar continuo di frammenti di ferro e di proiettili, di fionde e di frecce incendiarie, scagliate dai balestrieri dell’Asia Minore, aspettavano sempre l’impeto delle scimitarre infedeli, dietro i loro scudi.

Il frastuono orrendo aumentava di minuto in minuto. Alle urla feroci dei mussulmani rispondevano in lontananza i pianti e le preghiere delle donne e le grida dei fanciulli. Nell’aria satura di fumo e di polvere risuonavano, fra il fragor dei bronzi tuonanti, le campane che chiamavano a raccolta gli abitanti, se ancora ve n’erano entro le case già fiammeggianti.