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Attraverso l’Atlantico in pallone

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Capitolo 17. Un dramma fra le onde

L’atto generoso ma irriflessivo del bravo irlandese, un vero atto da pazzo, poteva avere conseguenze incalcolabili tanto per gli uomini quanto per l’aerostato e compromettere gravemente quell’audace traversata.

Se l’irlandese avesse pensato, in quel supremo istante, che il Washington, scaricato di quel doppio peso, si sarebbe rapidamente innalzato a grande altezza, abbandonandoli tutt’e due in mezzo all’immenso oceano e rendendo assolutamente impossibile qualunque soccorso da parte dell’ingegnere, forse si sarebbe arrestato, abbandonando il povero negro alla sua sorte, ma era ormai troppo tardi per porvi rimedio.

Quei due uomini, a meno di un miracolo, erano condannati a morire. Presto o tardi, l’Atlantico li avrebbe inghiottiti e trascinati nei suoi immensi baratri. Piombato tra i flutti, trascinato a fondo dal proprio peso e quantunque stordito da quella caduta di oltre trenta metri, O’Donnell con un vigoroso colpo di tallone risalì in superficie. Guardò in aria, non vide che le stelle brillare sul fondo cupo del cielo. Del pallone nessuna traccia!

“Temo di aver commesso una grave pazzia, che forse mi costerà la pelle” mormorò sospirando. “Bah! Infine ero votato alla morte…! Consolato da questa riflessione, si mise a nuotare vigorosamente, girando lo sguardo. A pochi metri scorse qualche cosa di nero che si dibatteva a fior d’acqua.

“Simone!” gridò.

Una risata gli giunse alle orecchie.

“Il bagno non gli ha fatto bene.” disse O’Donnell. “Cerchiamo di salvarlo, poi accadrà quello che dovrà accadere”

Si diresse da quella parte e raggiunse il negro, che si dibatteva come il diavolo nella pila dell’acqua benedetta. L’istinto della conservazione sopravviveva nel pazzo? Bisognava crederlo, poiché quel giovanotto lottava contro l’acqua che cercava di affogarlo. L’irlandese con poche bracciate lo raggiunse e lo afferrò per le ascelle, dicendogli: “Non commettere delle imprudenze, se non vuoi che l’oceano ti inghiotta. Appoggiati alle mie spalle, amico mio: sono robusto e un forte nuotatore, e per qualche tempo potremo reggerci.”

Il pazzo, invece di obbedire, gli sfuggì, si volse rapidamente e lo afferrò per il collo, stringendolo in modo da togliergli il respiro, mentre gli rinserrava le gambe fra le proprie.

“Per mille corna di Belzebù, giù le zampe!” gridò l’irlandese, cercando di sottrarsi a quella terribile stretta. “Vuoi affogarmi?”

Il negro proruppe in uno scroscio di risa, e invece di abbandonarlo, gli si aggrappò addosso con suprema energia: era invaso da quella paura che più non ragiona e che invade le persone prossime ad affogare, o voleva trascinare il suo salvatore negli abissi marini? L’irlandese atterrito, pallido per l’emozione, cominciava a pentirsi di essersi precipitato in mare per salvare un pazzo. Cercò di liberarsi da quelle mani che lo strangolavano e da quelle gambe che paralizzavano i suoi movimenti, facendolo affondare, ma pareva che il negro possedesse, in quel momento, una forza straordinaria.

“Giù le zampe, Simone!” urlò con voce strozzata. “Giù, o…” La frase gli fu troncata da un’onda che lo coperse, riempiendogli la bocca d’acqua amara e salata. Sprofondò, ma con uno sforzo disperato riuscì a liberare le gambe e a rimontare alla superficie, trascinando seco il pazzo, che non voleva abbandonarlo.

“Lasciami!” rantolò.

Il negro continuò a stringere, facendo balzi disordinati per trascinarlo sott’acqua. Alzò il pugno e percosse quel disgraziato sul viso, ma inutilmente: quelle mani non lo abbandonavano, anzi gli conficcavano le unghie nel collo.

“Ah! Non vuoi lasciarmi?” disse l’irlandese. “Ebbene, muori tu solo!”

Allora, fra quell’oscurità, in mezzo a quelle onde che a volta a volta coprivano i due uomini, s’impegnò una lotta suprema. Il negro resisteva con disperata energia e faceva udire, di tratto in tratto, i suoi scoppi di risa; l’irlandese cercava di liberarsi da quelle strette mortali e lo tempestava di pugni per stordirlo, emettendo grida sempre più rauche, più strozzate. Scendevano, risalivano a galla, si rotolavano fra le onde, si mordevano, urlavano.

O’Donnell, già strozzato per tre quarti, si sentiva venir meno le forze, i suoi occhi non scorgevano più l’avversario se non attraverso una nebbia, e si sentiva trascinare negli abissi misteriosi dell’Atlantico, aperti sotto di lui. Con un supremo sforzo trascinò ancora il negro alla superficie, poi si lasciò andare nuovamente a picco. A un tratto si sentì urtare bruscamente e quasi strappare l’epidermide da un corpo ruvido, e gli parve di udire, fra le onde che lo inghiottivano, un grido orribile. Quasi subito sentì allentarsi la stretta e si trovò libero. Senza perdere tempo rimontò a galla, girando all’intorno uno sguardo smarrito. A tre passi vide sorgere bruscamente una forma nera, girare su se stessa un istante, poi sparire. Mandò un grido d’orrore: quella forma nera era un tronco umano, che pareva fosse stato tagliato a metà da una gigantesca forbice.

Allora si ricordò dell’urto, dello sfregamento e del grido udito sotto le onde e comprese tutto. Uno squalo aveva tagliato in due il disgraziato Simone.

L’irlandese era coraggioso: lo si è già visto alla prova, ma nel ritrovarsi da solo in mezzo all’oceano, forse spiato dai pesce-cani con dinanzi agli occhi l’orribile fine del negro, credette di impazzire per lo spavento. Rimase parecchi istanti immobile, come istupidito, livido, agghiacciato dal terrore, non osando fare il più lieve movimento per paura di attirare gli squali e raggrinzando le gambe, per timore di sentirsele mozzare da un istante all’altro. Una lontana detonazione, che pareva scendesse dal cielo, lo strappò da quell’immobilità, che a poco a poco lo trascinava sotto le onde. “Mister Kelly…” mormorò.

“Ah! Se sapesse in quale situazione mi trovo…!” Alzò gli occhi e guardò in aria, ma non riuscì a scorgere l’aerostato. Attese alcuni minuti in preda a una tremenda ansietà, poi verso il sud, a una distanza di due miglia vide brillare a grande altezza una striscia luminosa, poi udì un’altra lontana detonazione. “Vi comprendo,” disse, “mi segnalate la vostra direzione, ma non posso rispondervi e nemmeno raggiungervi. A quale altezza si troverà il Washington? Questo doppio capitombolo lo pagheremo forse caro.”

Abbassò gli occhi sul mare, e gli sembrò di vedere qualche cosa di nero agitarsi in mezzo alla spuma di un’onda. “Che cosa può essere?” si chiese. “Che Mister Kelly, nel momento che il pallone si alzava, ci abbia gettato degli oggetti galleggianti? Ho veduto dei salvagente fra le casse della scialuppa. Orsù, non debbo rimanere qui in eterno: se i pesce-cani mi spiano, possono tagliarmi in due anche qui.”

Rabbrividì a quel pensiero, pure si fece animo e si diresse, procurando di non far rumore, verso quell’oggetto che le onde trastullavano. In pochi istanti lo raggiunse e lo ghermì strettamente. “Non mi ero ingannato!” mormorò, respirando più liberamente. “Grazie, Mister Kelly, di aver pensato a me ! “

L’oggetto che aveva afferrato era uno di quei grandi cerchi di sughero, avvolti in tela grossa e robusta e che le navi usano portare attaccati alle murate, per gettarli ai marinai o ai passeggeri che cadono accidentalmente in mare. Sorreggono comodamente una persona per quanto sia pesante, mantenendola a galla anche in mezzo alle più grandi ondate. Ma se l’ingegnere aveva pensato a dare un punto d’appoggio ai due naufraghi, non aveva dimenticato di fornirli di mezzi di difesa contro i formidabili assalti dei mostri marini. Infatti, O’Donnell trovò appesi al salvagente due lunghi e affilati coltelli, due di quei bowie-knives usati dagli americani del Nord.

“Se gli squali vorranno mangiarmi, avranno un osso duro da rodere.” disse l’irlandese, passandosi le armi nella cintola. “Orsù, in viaggio, e cerchiamo di seguire il pallone.” Si passò il salvagente sotto le ascelle e, meravigliosamente sorretto da quell’anello di sughero, si spinse verso il sud, gettando però degli sguardi inquieti sulle acque circostanti e fermandosi di tratto in tratto ad ascoltare se qualche mostro lo seguiva.

Le detonazioni erano cessate, ma ormai sapeva che l’aerostato si trovava verso il sud, e ciò gli bastava. Era certo che in quel momento l’ingegnere stava sacrificando il suo gas per discendere verso la superfìcie dell’oceano.

Aveva percorso circa seicento metri, quando vide verso il sud, ma quasi a fior d’acqua, balenare un lampo, e poco dopo intese una debole detonazione. “To’!” esclamò. “Che vi sia una nave laggiù, o che l’ingegnere sia già disceso?”

Si arrestò, guardando attentamente in quella direzione, e gli parve di distinguere, sul fondo azzurro del cielo, che cominciava a tingersi dei primi riflessi dell’aurora, una massa oscura sospesa a breve distanza dalla superficie dell’oceano. “Dev’essere il Washington” mormorò. “Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c’è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel…” S’arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo.

“Qualche pesce-cane?” mormorò battendo i denti. “Che sia destinato anch’io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C’è da impazzire, anche senza essere paurosi.” Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell’oceano.

L’onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall’aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo.

 

Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell’orizzonte, avvicinandosi rapidamente l’alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s’avvicinassero sott’acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un’angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore.

“Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest’oceano?” si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull’orizzonte, inondando l’oceano di raggi abbaglianti. O’Donnell respirò e salutò l’astro con un vero e proprio grido di gioia. “Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali.” disse.

Guardò verso il sud. L’aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l’ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un’inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa.

“Gran Dio!” esclamò. “Ecco il nemico!”

Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L’acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s’immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l’aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana.

O’Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell’oceano.

L’ingegnere aveva calato le guide— ropes, alle cui estremità pendeva l’ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l’abbordaggio con la nave dei morti.

“Coraggio, O’Donnell!” gli gridò Kelly. “Ancora uno sforzo e siete salvo.”

“Vengo, Mister Kelly.” rispose l’irlandese che era esausto.

“Ma dov’è Simone? È morto…?”

“Mor…to.” rispose O’Donnell, rabbrividendo.

“Forse che…”

L’ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

Capitolo 18. L’assalto dei pesce-cani

Udendo quel grido, che tradiva un terrore profondo, uscire dalle labbra di quell’uomo che non era così facile a impressionarsi, O’Donnell comprese subito che un tremendo pericolo lo minacciava.

Senza arrestarsi, volse il capo, e si sentì gelare il sangue e paralizzare le forze nello scorgere, a soli venti metri di distanza, tre enormi squali, lunghi non meno di dodici piedi, i quali muovevano dritto su di lui con potenti colpi di coda, mostrando le loro immense bocche semicircolari, irte di denti triangolari che si agitavano mercé la strana disposizione delle mascelle, come se già pregustassero quella succulenta preda.

I loro occhi, rotondi, con l’iride verde scura, e la pupilla azzurregnola, si erano già fissati sull’irlandese, il quale in quel supremo istante si sentiva come affascinato dalla luce strana che mandavano.

“O’Donnell” gridò l’ingegnere, con voce rotta dall’angoscia. “Fuggite!”

Quel grido strappò l’irlandese dalla sua immobilità. Comprese che un ritardo di pochi secondi era fatale, e, abbandonando l’anello di sughero, ma tenendo fra i denti il bowie-knife, si mise a nuotare con disperata energia verso la guide-rope.

I tre mostri, però, per niente spaventati dall’immensa ombra che i due palloni proiettavano sull’oceano e dalle grida dell’ingegnere, non si erano arrestati. L’irlandese li udiva dietro di sé percuotere furiosamente l’acqua con le loro possenti code, agitare le lunghe pinne triangolari e mandare dei rauchi sospiri che somigliavano al tuono udito ad una grande distanza. Malgrado facesse sforzi disperati, stava per essere raggiunto da quei mostri, che sono dotati di una muscolatura potente e che possiedono uno slancio straordinario.

Fortunatamente l’ingegnere stava per portargli soccorso. Comprendendo che O’Donnell sarebbe stato raggiunto prima di toccare la guide-rope, Kelly si era armato di una carabina a tiro rapido, di un winchester a dodici colpi, ed aveva aperto un fuoco infernale contro gli squali. Il primo, che si trovava a soli quindici metri dall’irlandese, colpito da parecchie palle, fece un balzo immenso, ricadde, dibattendosi furiosamente, poi si rovesciò, mostrando tutta intera la sua enorme bocca, che è situata sotto il muso, e la pelle del ventre, poi calò a picco, formando un piccolo risucchio. Gli altri due, vista la mala parata, s’arrestarono indecisi, poi si tuffarono di comune accordo. L’ingegnere, che li scorgeva benissimo attraverso l’acqua limpidissima, continuò il fuoco per impedir loro di giungere sotto le gambe dell’irlandese.

“In guardia, O’Donnell!” gridò, vedendo i due mostri nuotare verso l’irlandese.

“Sono salvo!” gridò il bravo giovanotto. “Presto. Mister Kelly, rovesciate i coni.”

Con un ultimo slancio, egli si era aggrappato alla guide-rope e con un ultimo sforzo si era issato sull’ancorotto, mettendosi a cavalcioni delle patte. Sfinito come era dalla fatica e per le terribili emozioni provate, non si sentiva, almeno per il momento, in grado di salire fino alla scialuppa. L’ingegnere, che vedeva avvicinarsi i due squali con fulminea velocità e che non ignorava che essi possiedono tale slancio da innalzarsi di parecchi metri sopra le onde, con una spinta rovesciò nell’oceano un sacco di zavorra del peso di sessanta chilogrammi, che aveva collocato sul bordo della scialuppa, poi con due furiose strappate capovolse i coni.

Il Washington, scarico di quel peso, s’innalzò rapidamente, nel momento stesso in cui i due squali giungevano a fior d’acqua, proprio sotto l’ancora. Vedendosi sfuggire la preda, con un potente colpo di coda si slanciarono fuori dai flutti con le bocche spalancate, credendo d’inghiottire d’un sol colpo ancorotto e uomo; ma era troppo tardi.

Il Washington che s’innalzava con estrema rapidità trascinando con sé l’irlandese, che si teneva aggrappato con estrema energia alla guide-rope fece perdere ai due feroci mostri ogni speranza: però rimasero in superficie, seguendo con sguardi ardenti la preda che fuggiva in aria.

Il vascello aereo salì fino a mille metri, nonostante il grande salasso fattogli dall’ingegnere per riguadagnare gli strati inferiori dopo la caduta dell’irlandese e del negro; rimase alcuni minuti immobile, come indeciso sulla via da prendere, poi una corrente lo spinse verso il sud-sud-est con una velocità di dodici miglia all’ora.

O’Donnell non lasciava la guide-rope ma non ardiva ancora risalire. Quell’immenso vuoto che lo circondava e quella spaventevole altezza che s’apriva sotto i suoi piedi fino alla superfìcie dell’oceano, lo atterrivano. Aveva per maggior precauzione chiuso gli occhi, temendo che lo cogliesse una vertigine.

“O’Donnell, mio coraggioso amico,” disse l’ingegnere “tenetevi saldo.”

“Non lascio la fune, Mister Kelly,” balbettò il giovanotto: “vi confesso, però che questo vuoto mi spaventa e che mi pare che la testa mi cominci a girare.”

“Avrete forza abbastanza per salire?”

“Lo spero, ma non ora. Sono sfinito ed ho le membra rattrappite.

“Prendete, amico mio.”

L’ingegnere calò fino a lui una bottiglia di whisky già sturata e una cintola di pelle.

“Bevete e legatevi alla guide-rope” disse.

‘“Grazie, Mister Kelly” riprese l’irlandese.

Si assicurò con la cintola per non cadere nel caso che lo cogliesse un capogiro per il forte liquore.

“Mi pare che le forze ritornino” disse dopo alcuni istanti. “Cercherò di raggiungervi, Mister Kelly.”

“Volete che apra le valvole e che ci abbassiamo?”

“No, Mister Kelly: avete sacrificato già troppo gas per raccogliermi. I nodi non sono lontani e mi riposerò”

“Non guardate l’abisso.”

“Chiuderò gli occhi.” Il coraggioso giovanotto sciolse la cintola, si issò, posando i piedi sulle patte dall’ancorotto, respirò alcuni istanti, poi cominciò quella pericolosa salita, adoperando i piedi, le mani e perfino i denti. Non osava guardarsi intorno, poiché si sentiva già prendere da un principio di vertigine, anche tenendo gli occhi chiusi: quell’immensità che si stendeva sotto di lui, lo attirava, lo affascinava.

L’ingegnere, più pallido forse di O’Donnell, seguiva ansiosamente, col cuore stretto d’angoscia, le mosse di lui e cercava di tener ferma la fune, che l’àncora faceva ondeggiare.

Capitolo 19. Il naufrago

Il Washington pareva aver incontrato una buona corrente aerea. Infatti, la sua velocità, che poche ore prima era di dieci o di dodici chilometri, aumentava di minuto in minuto, allontanandolo da quella pericolosa zona delle calme del Tropico e lo trascinava non più verso le regioni ardenti dell’equatore, ma verso climi più freschi, essendo cambiata la sua direzione.

Ora filava con una rapidità di 42 chilometri all’ora, tendendo ad avvicinarsi alle coste settentrionali dell’Africa e più precisamente a quelle dell’Impero marocchino o del gran deserto del Sahara. È vero che la distanza da superare era immensa poiché, secondo l’ultimo calcolo fatto dall’ingegnere avevano raggiunto appena il 21° meridiano, ma con l’aerostato si possono superare in sole dodici ore parecchie centinaia di miglia, anche con vento moderato.

“Se continuiamo così,” disse l’ingegnere all’irlandese, che aveva finito di mangiare e che ora fumava un’eccellente sigaretta, comodamente sdraiato a prua, “vi prometto di farvi vedere ben presto terra.”

“La costa africana?”

“Non ho questa pretesa, O’Donnell, ma se il vento si mantiene stabile, noi avvisteremo domani sera o dopodomani, le prime Canarie.”

“Siamo spinti verso quelle isole?”

“Sì.”

“Bella occasione per andare a vuotare una bottiglia di eccellente Madera.”

“Beone!”

“Quanto distiamo dal continente africano?”

“Circa 1400 miglia in linea retta, ma noi seguiamo ora una linea obliqua che raddoppierà la distanza”.

“Una miseria per il nostro pallone. Per Giove e Saturno, è stata una grande e meravigliosa invenzione quella dei palloni, Mister Kelly.”

“Lo credo, O’Donnell.”

“È ai fratelli Montgolfier che si deve il merito della scoperta?”

“Spetta a loro il merito di aver fatto librare il primo pallone, ma prima di essi altri valenti uomini avevano cercato di innalzarsi nelle alte regioni dell’aria, e forse non sono riusciti per il poco sviluppo raggiunto ai loro tempi dalla fisica e dalla meccanica. Come sempre, gli italiani, che furono alla testa di ogni scoperta, figurano tra i primi ed è uno dei loro grandi uomini, Leonardo da Vinci, che espresse la possibilità di mantenersi in aria. Francesco Lana, anche questi italiano, nel 1670, in una sua memoria pubblicata nella città di Brera, proponeva di fare il vuoto entro due solidissime lastre di rame assicurando che si sarebbero innalzate. Poi vengono gli inglesi, Cavendish nel 1766 dimostra che l’aria infiammabile è più leggera dell’atmosfera; Black nel 1767 asserisce che un pallone si sarebbe innalzato. L’onore di lanciare il primo spetta a un italiano, Cavalli, nel 1782, ma la sua scoperta viene soffocata dall’entusiasmo suscitata dai fratelli Giacomo e Giuseppe Montgolfìer i quali, il 5 giugno 1783, cioè un anno dopo, lanciano la prima mongolfiera ad aria calda.”

 

“Ma allora il merito di aver innalzato il primo pallone spetta a Cavalli e non ai fratelli Montgolfìer?”

‘’Sì O’Donnell, ma gli italiani hanno sempre avuto la disgrazia di non far valere i meriti delle loro invenzioni e di lasciarsele poi rubare dagli stranieri. Ai francesi spetta invece il merito di aver dato una grande spinta alla meravigliosa scoperta, e primi fra tutti figurano Blanchard e Pilâtre. Questo Blanchard, un astuto e audace normanno, pretendeva anzi di aver trovato il modo di dirigere i palloni.”

“Ma se questo modo non si è trovato nemmeno oggi!” esclamò O’Donnell.

“Eppure Blanchard diceva di averlo trovato e per dimostrarlo intraprese la traversata della Manica. Dotato di una certa immaginazione, munisce il suo pallone di una specie di parapioggia, la sua navicella di un timone e di remi che erano mossi da una manovella di sua invenzione, e fa le prime ascensioni, le quali naturalmente lo persuadono dell’inutilità dei suoi oggetti. Nondimeno assicura di aver ottenuto dei brillanti successi e il 7 gennaio 1785 s’innalza sulla roccia di Shakespeare, sulle rive inglesi della Manica, in compagnia del dottor Jeffrey, prendendo con sé un sacco di dispacci. Quella volta però al suo parapioggia aveva sostituito una specie di ventilatore, ripromettendosi di operare meraviglie. Il vento li spinge sopra la Manica, ma per errore di equilibrio, gli aeronauti sono costretti a gettare subito dieci sacchi di zavorra, poi gettano i viveri, le tappezzerie di seta della navicella, i loro mantelli e finalmente anche quel famoso ventilatore, i remi e il timone che essi sapevano essere di nessuna utilità, e discendono a Calais, dopo aver seguito semplicemente il filo del vento. Blanchard proclamò sfrontatamente di aver scoperto il modo di dirigere gli aerostati e il pubblico ebbe il torto di credergli. Gli abitanti di Calais gli conferirono la cittadinanza, quel Consiglio municipale acquistò ad alto prezzo il pallone che si conserva tuttora nel Museo di quella città, fu eretta una colonna in memoria di quella traversata e il re di Francia assegnò al furbo aeronauta una pensione annua di mille scudi. Quella semplice traversata bastò per rendere Blanchard celebre e in seguito milionario.”

“Che cosa saremmo diventati noi se avessimo annunciato ed eseguito, a quei tempi, la traversata dell’Atlantico?”

“Uomini immortali, O’Donnell,” disse l’ingegnere ridendo.

“E invece ci prendono a cannonate!”

“L’italiano Zambeccari, lo sventurato aeronauta che morì bruciato, un uomo intelligente e ardito, tiene uno dei primi posti tra i primi navigatori dell’aria, per le sue innumerevoli ascensioni e le sue scoperte. Egli diede ai palloni e alle mongolfiere esatte proporzioni, regolando la forza ascensionale degli uni e delle altre, e modificò notevolmente il sistema adottato da Pilâtre, sostituendo alla paglia, che questi bruciava nel camino per dilatare il gas, una lampada ad olio minerale, ed eliminando il tubo conduttore, avendo constatato la sua assoluta inutilità. Poi viene Robert, poi altri italiani, i Lunardi, gli Andreoli e tanti altri, che apportarono dei miglioramenti negli aerostati e si studiarono di cercarne, ma senza soddisfacenti risultati finora, la direzione.”

“Una domanda. Mister Kelly.”

“Parlate.”

“Se si costruisse un pallone immenso, di una forza ascensionale enorme, potrebbe giungere fino alla luna?”

“Avete intenzione di andarvi a stabilire sulla luna, O’Donnell?” chiese l’ingegnere, schiattando in una fragorosa risata. “Il vostro progetto sarebbe inattuabile, amico mio, perché pare che a una certa altezza l’idrogeno si tramuti in aria calda.”

“Per quale motivo?”

“I fisici non sono ancora riusciti a spiegare questo strano fenomeno. Io so che fu lanciato un pallone dotato di una certa forza ascensionale, privo della navicella e di aeronauti ma munito di strumenti atti a precisare e a conservare le altezze che doveva toccare. Quell’aerostato raggiunse i 20.000 metri, poi cadde precipitosamente, e quando fu ripreso si trovò che conteneva aria calda.”

“Allora rinuncio al mio progetto, Mister Kelly,” disse O’Donnell.

“Vi credo, tanto più che a 20.000 metri sareste morto congelato e asfissiato, senza vedere la luna ingrandita di un millimetro.”

Mentre così discorrevano, la notte era calata e l’aerostato aveva ripreso la sua discesa con una certa rapidità, trovandosi nel mezzo di una corrente di aria piuttosto fredda, quantunque non avesse abbandonato gli ardenti paraggi del tropico. Alle nove aveva già toccato i mille metri e non accennava ad arrestarsi; alle dieci, solo seicento metri lo dividevano dall’oceano. O’Donnell, che era assai stanco si coricò a poppa, mentre l’ingegnere si sedeva a prua fumando una sigaretta, in attesa che trascorresse il suo quarto di guardia. Il vento si manteneva sempre fresco, trasportando il Washington con la velocità di sedici miglia all’ora, ma aveva subito una notevole modificazione nella direzione poiché ora soffiava verso il nord.

Mister Kelly non si inquietava però, anzi si rallegrava quantunque non si avvicinasse alle coste africane. Egli sperava di raggiungere i paralleli europei e di trovare, più tardi, una corrente che lo spingesse verso la Spaglia o il Portogallo.

Verso le undici, volendo guardare i suoi strumenti per accertarsi dell’altitudine e della velocità del vento, accese una candela. Si era appena alzato per accostarsi alla murata di babordo, alla quale erano appesi gli strumenti, quando gli parve di udire echeggiare un grido. Sorpreso al massimo grado, guardò in alto, credendo che lo avesse emesso qualche grosso uccello marino, ma non vide nulla traversare il cielo stellato: guardò giù, ma nulla distinse sulla nera superficie dell’oceano.

“È strano,” esclamò. “Che qualche nave passi sotto di noi? Una nave! Ma si vedrebbero i fanali di posizione, mentre sull’oceano non scorgo alcun punto luminoso.”

Ascoltò alcuni minuti, tendendo gli orecchi e questa volta udì distintamente una voce umana che sbalzava dall’oceano.

“O’Donnell!” gridò.

L’irlandese che aveva il sonno leggero si svegliò bruscamente.

“Tocca il quarto?” chiese.

“Non ancora, ma volevo chiedervi se avete udito un grido.”

“No, Mister Kelly: dormivo come un ghiro.”

“Udite…”

Un grido come una chiamata disperata, era giunto ai loro orecchi. Pareva che venisse dal nord, cioè nella direzione in cui l’aerostato veniva spinto.

O’Donnell benché non fosse superstizioso mormorò:

“Che sia la voce del negro?… Si dice che i morti sull’oceano riappaiono.”

“Fole di marinai,” disse l’ingegnere.

“Ma chi supponete che sia? Qualche grosso pesce forse?”

“No: era un grido umano.”

“Zitto…”

“Ancora?”

Nelle tenebre si udì distintamente una voce argentina, una voce quasi da fanciullo, a gridare: “Help!… Help!”

Kelly e l’irlandese si curvarono sul bordo della scialuppa e scrutarono avidamente la nera distesa dell’Atlantico, sperando di scorgere qualche cosa, ma l’oscurità era troppo intensa.

“È un inglese!” esclamò O’Donnell.

“O un americano,” disse l’ingegnere.

“E mi parve la voce di un fanciullo.”

“Forse è un naufrago.”

“E lo lasceremo perire, Mister Kelly?”

“Ah no!” Fece con le mani una specie di portavoce e gridò con voce tonante: “Chi siete?”

“Un naufrago,” rispose la voce di prima.

“Siete solo?”

“Solo.”

“Potete mantenervi a galla fino all’alba?”

“Monto un canotto.”

“Siete un ragazzo?”

“Un mozzo.”

“Vi salveremo.”

“Grazie, buon signore!”

“Non perdiamo tempo, O’Donnell,” disse l’ingegnere. “Il vento ci trasporta con notevole difficoltà e non bisogna scendere fuori di vista.”

“Sacrificheremo dell’altro gas?”

“È necessario, O’Donnell. Fortunatamente l’idrogeno è condensato, e non ne perderemo molto per abbassarci di cinque o di seicento metri.”

Impugnò le due funicelle che pendevano dai due fusi e con uno strappo aprì le due valvole di sfogo. Tosto in alto udirono dei leggeri scoppiettii e si sparse intorno alla navicella un acuto odore d’idrogeno.