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Alla conquista di un impero

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10. Alla corte del rajah

Sei ore dopo la carovana, che era accompagnata da un gran numero di curiosi accorsi da tutti i quartieri della città, per vedere la terribile belva e per lanciare contro il cadavere insulti sanguinosi, si arrestava dinanzi al grandioso palazzo del rajah.

I ministri, già avvertiti da due scikari che avevano preceduti gli elefanti, aspettavano il famoso cacciatore inglese alla base della gradinata marmorea, con una grossa scorta di seikki in alta tenuta e di eunuchi che indossavano dei costumi sfarzosi e molto appariscenti.

– Yanez, – disse Sandokan, fermandolo nel momento in cui stava per scendere dall’elefante. – Non occuparti di me, né di Tremal-Naik.

Il palazzo reale non è fatto per noi. Sai dove trovarci.

– Tengo con me i malesi.

– Formano la tua guardia e quale guardia! Con loro non avrai nulla da temere.

Noi approfittiamo di questa confusione per eclissarci.

– Riceverete presto mie nuove. —

Scese a terra e mosse incontro ai ministri seguìto da otto scikari che portavano la mostruosa belva.

– Dire a S. A. che io avere mantenuta mia promessa, – disse loro.

– S. A. ti aspetta, mylord – risposero ad una voce i ministri, curvandosi fino quasi al suolo.

Yanez, ridiventato l’eccentrico inglese, salì lo scalone fiancheggiato da due file di seikki che lo guardavano con profonda ammirazione e preceduto da quattro eunuchi, fece la sua solenne entrata nell’immensa sala del trono, la quale rigurgitava di alti dignitari, di capi d’esercito, di suonatori, e di can-ceni, ossia di danzatrici che indossavano dei bellissimi costumi poco dissimili da quelli che portano le bajadere bengalesi e dell’India centrale.

S. A. stava sdraiato sul suo trono-letto chiacchierando con alcuni favoriti. Quando però vide entrare il portoghese, seguìto dagli scikari che portavano la kala-bâgh, si alzò prontamente e, favore insigne, scese i tre gradini della piattaforma, stendendo la destra.

– Tu, mylord, sei un valoroso, – gli disse.

– Io non avere fatto altro che sparare mia carabina – rispose Yanez.

– Nessuno dei miei sudditi, per quanto coraggiosi, sarebbe stato capace di affrontare e di uccidere una simile belva. Ora puoi domandare quello che vuoi.

– A me bastare essere tuo grande cacciatore ed essere ospite tuo.

– Darò delle grandi feste in tuo onore.

– No, baccano, farmi troppo male testa. Io non voler vedere che teatro indiano.

– Ho una compagnia stabile qui ed è la più rinomata di quante se ne trovano nel mio regno.

– Aho! Io essere soddisfatto vedere tuoi commedianti.

– Sarai stanco.

– Pochino.

– Il tuo appartamento è pronto e metto a tua disposizione quanti servi vorrai.

– Bastare a me, Altezza, mia scorta e un tuo chitmudgar.

– Lo troverai dinanzi alla tua porta, mylord. Quando vorrai assistere alla rappresentazione?

– Questa sera se non dispiacere a te.

– Ogni tuo desiderio è per me un comando, mylord – rispose cortesemente il rajah.

S’accostò alla tigre e la guardò a lungo.

– Questa pelle farà una bella figura nella tua stanza, – disse poi. – Essa ti ricorderà sempre la grande impresa che tu hai compiuta.

Va’ a riposarti, mylord e questa sera pranzeremo insieme e ti presenterò un altro uomo bianco, che spero diverrà tuo amico.

– Io vederlo con piacere, – rispose Yanez.

Il ricevimento era finito.

Il portoghese chiamò i suoi malesi e lasciò la sala che lentamente si sfollava, preceduto da due eunuchi.

Il rajah era tornato a sedersi o meglio a sdraiarsi sul suo trono, dopo d’aver fatto colla mano un gesto imperioso che voleva significare:

– Lasciatemi solo. —

L’ultimo ministro e l’ultima guardia erano appena usciti, quando la doppia cortina di seta che pendeva dietro al trono si aprì ed un uomo comparve.

Non era un indiano, bensì un europeo di alta statura, dalla pelle bianchissima, che risaltava doppiamente in causa d’una lunga barba nerissima che gli incorniciava il volto.

Aveva i lineamenti regolarissimi, il naso aquilino, gli occhi neri e ardenti, ma che avevano tuttavia un non so che di falso che produceva una cattiva impressione, almeno di primo acchito.

Come tutti gli europei che soggiornano nell’India, era vestito di leggerissima flanella bianca. Solo in testa portava una calotta rossa con grosso fiocco, simile a quelle che usano portare i greci ed i levantini.

– Che cosa ne dici Teotokris? – gli chiese il rajah. – Dall’espressione del tuo viso si direbbe che tu non sia soddisfatto del felice esito dell’impresa compiuta da quell’inglese.

– T’inganni, Altezza: i greci ammirano le prove di coraggio.

– Eppure io scorgo una profonda ruga sulla tua fronte e sembri preoccupato.

– Lo sono infatti, Altezza – rispose il greco.

– Per quale motivo?

– Sei tu proprio certo che egli sia veramente un mylord?

– E perché dovrei dubitarne?

– Sai da dove venga?

– Dal Bengala, mi ha detto.

– E che cosa sia venuto a fare qui?

– A cacciare. —

Il greco fece una smorfia.

– Uhm! – fece poi.

– Sai tu qualche cosa sul suo conto?

– So solo che egli di quando in quando va a trovare una bellissima fanciulla indiana che deve appartenere alle alte caste e che sembra sia ricchissima, abitando in un bellissimo palazzo ed avendo molti servi e molte donne.

– Fin qui non ci trovo nulla di straordinario, – disse il rajah. – Molte delle nostre donne hanno sposato degli inglesi.

– E se quel signore fosse una spia mandata qui dal governatore del Bengala per sorvegliare i tuoi atti? —

Udendo quelle parole la faccia del principe aveva assunto un aspetto quasi feroce.

– Hai qualche prova tu, Teotokris? – chiese coi denti stretti.

– Finora no.

– È una tua supposizione, dunque.

– Per ora sì.

– Si vede però che hai qualche sospetto. —

Il greco fece un gesto vago, poi aggiunse con una certa malignità.

– Vorrei vedere i titoli di nobiltà di quel mylord.

– Tu hai una polizia a tua disposizione: adoperala dunque. Finché non avrai però una prova in contrario quell’inglese sarà mio ospite.

Egli ha ricuperata la pietra di Salagraman e non ha voluto nulla, anzi mi ha reso un altro importante servigio, liberando i miei buoni sudditi di Kamarpur dalla kala-bâgh.

Tu non sei mai stato capace di fare tanto in sole quarant’otto ore. —

Il greco si morse le labbra.

– Io non contesto che egli sia un coraggioso e che la fortuna lo abbia favorito – disse poi. – Ma appunto perché è un coraggioso può essere anche pericoloso. —

Il rajah fece un gesto di noia e s’alzò dicendo:

– Lasciami in pace quell’inglese, Teotokris. Fa’ invece avvertire i miei attori di preparare questa sera, nel grande cortile, uno spettacolo emozionante.

– Farò come tu vuoi, Altezza, – rispose il greco.

Yanez, soddisfattissimo della buona piega che prendevano i suoi affari, aveva preso possesso dell’appartamento destinatogli dal munifico rajah.

Si componeva di quattro bellissime stanze, d’un salotto elegantissimo e d’un gabinetto pel bagno, tutte ammobigliate con molto sfarzo e fornite di punka, che sono grandi tavole coperte di stoffa, attaccate al soffitto e che un servo fa girare continuamente, mediante un giuoco di corde, onde mantenere nell’interno una deliziosa frescura.

Il chitmudgar, che il principe aveva destinato al famoso cacciatore, aveva subito fatto portare un lauto pranzo con molte bottiglie di birra e di liquori, destinato parte al primo e parte ai sei malesi che avevano preso posto in una delle quattro stanze tramutandola in una specie di caserma.

– Fammi compagnia, – aveva detto Yanez al maggiordomo, sedendosi.

– Io!… Con voi, mylord! – aveva esclamato l’indiano, facendo un gesto di stupore.

– Taci e dividi con me. Ho molte cose da chiederti e anche delle rupie da regalarti se mi sarai fedele. —

Le rupie fecero maggior effetto dell’invito, poiché il chitmudgar, venale come la maggior parte dei suoi compatriotti, obbedì prontamente senza più protestare contro un così grande onore.

– È vero che i commedianti sono qui, nel palazzo? – chiese Yanez assaggiando le vivande.

– Sì, mylord.

– Conosci il capo della compagnia?

– È mio amico anzi, mylord.

– Benissimo, – disse Yanez versandosi un bicchiere di birra e tracannandola d’un colpo solo. – Desidero vederlo.

– Io ho avuto l’ordine di soddisfare qualunque tuo desiderio. Il rajah così vuole.

– Ed io invece desidero che il principe non sappia affatto che io voglio vedere il capo della compagnia. Compero il tuo silenzio per cinquanta rupie. —

Il chitmudgar fece un soprassalto e sgranò gli occhi. In un anno di servizio forse non aveva guadagnato la metà di quella somma, che rappresentava per lui una piccola fortuna.

– Che cosa devo fare?

– Te l’ho detto: desidero che venga qui il capo dei commedianti e possibilmente senza che sia veduto.

Dove si terrà lo spettacolo?

– Nel cortile interno. —

Yanez si rovesciò nella poltroncina di bambù e guardò per qualche po’ il chitmudgar.

– È quello stesso dove il rajah uccise suo fratello?

– Sì, mylord.

– Me l’ero immaginato. Vi è ancora quella famosa balconata da dove il fratello di Sindhia sparò sui suoi parenti?

– Si trova anzi precisamente sopra il palcoscenico.

– Per Giove! – esclamò Yanez. – Ciò si chiama avere una prodigiosa fortuna.

Va’ a chiamarmi quell’uomo. —

Il chitmudgar non si fece ripetere l’ordine due volte, quantunque il pranzo non fosse stato ancora terminato. Si alzò precipitosamente e scomparve.

– Ah! Ah! – fece Yanez ridendo. – Mio caro rajah voglio prepararti un tiro birbone e metterti nel cuore un sospetto che non ti lascerà più dormire. —

 

Chiamò il capo dei sei malesi il quale, pranzando nella stanza vicina coi compagni fu pronto ad accorrere.

– Che cosa desideri capitano Yanez? – gli chiese il selvaggio figlio della Malesia.

– Quante rupie vi ha affidate Sandokan? – chiese il portoghese.

– Seimila.

– Che siano pronte. —

Un momento dopo il maggiordomo entrava accompagnato da un indiano piuttosto attempato, dagli occhi intelligentissimi, dai lineamenti ancora belli, dalla carnagione piuttosto oscura essendo gli attori indiani quasi sempre tamuli o malabari, che sono i popoli più appassionati per le rappresentazioni drammatiche.

– Ecco il calicaren (attore), – disse il maggiordomo.

L’indiano fece un profondo inchino e attese di essere interrogato.

– Sei tu che scegli le commedie o le tragedie che si rappresentano od il rajah? – gli chiese Yanez.

– No, io, sahib, – rispose il calicaren.

– Che cosa avevi intenzione di rappresentare questa sera?

– Il Pramayana, una tragedia scritta dal nostro grande poeta Valmiki, che è il più celebre che sia conosciuto nell’India.

– Di che cosa tratta?

– Delle imprese e delle conquiste fatte dal dio Rama a Ceylan.

– Rama non m’interessa, – rispose Yanez. – Il soggetto voglio dartelo io.

Vieni ed ascoltami attentamente. —

Si alzò e lo condusse nel suo salotto. Il colloquio durò una buona mezz’ora e terminò con una chiamata di Yanez del capo della scorta malese.

– Da’ a quest’uomo cinquecento rupie, – disse il portoghese. – Questo è il regalo di mylord. —

Il calicaren si era precipitato ai piedi del generoso inglese; ma questi con un rapido gesto lo aveva trattenuto dicendo:

– Non occorre. Intasca e fa’ quanto ti ho detto.

Ora puoi andartene e sopratutto silenzio.

– Sarò muto come una statua di bronzo, sahib – rispose il calicaren.

Quando fu solo Yanez si gettò sul magnifico letto, tutto dorato con intarsi di madreperla e coperto da una superba stoffa di seta damascata, dicendo:

– Ed ora possiamo riposare finché verrà quell’europeo misterioso se si degnerà di venirmi a salutare. —

Invitato dal silenzio profondo che regnava nel palazzo, essendo l’ora del riposo diurno che dura da dopo il mezzodì fino alle quattro, durante il cui tempo tutti gli affari sono sospesi, e dalla dolce frescura prodotta dalla punka che un servo, situato sulla terrazza, manovrava energicamente, non tardò a chiudere gli occhi.

Una discreta battuta alla porta lo svegliò dopo un paio d’ore.

– Sei tu, chitmudgar? – chiese Yanez balzando giù dal letto.

– Sì, mylord.

– Che cosa si vuole da me?

– Vi è, sahib, Teotokris che desiderava vederti.

– Teotokris! – esclamò il portoghese. – Chi è costui? Questo è un nome greco, se non m’inganno.

Ah! Deve essere l’europeo di cui mi hanno parlato.

Andiamo a fare la conoscenza di quel misterioso personaggio. —

Si rassettò le vesti, si mise per precauzione una pistola in tasca sapendo, per istinto, d’aver a che fare con un avversario forse pericolosissimo ed entrò nel salotto.

Il greco era là, in piedi, con una mano appoggiata al tavolo, un po’ meditabondo.

Vedendo entrare Yanez si rizzò di colpo squadrandolo rapidamente, poi fece un legger inchino, dicendo in perfetto inglese:

– Ben felice di salutarvi, mylord e di vedere qui, alla corte di S. A. il rajah dell’Assam, un altro europeo. —

Quelle parole però erano state pronunciate con una certa ironia stizzosa, che non era sfuggita al furbo portoghese.

Tuttavia questi fu pronto a rispondere amabilmente.

– Io lo avevo saputo, signore, che vi era qui un europeo e nessuno è più felice di me di potergli stringere la mano.

Fuori del nostro continente a qualunque nazione apparteniamo siamo sempre fratelli, perché siamo tutti figli della grande famiglia degli uomini bianchi.

Sedetevi signor…

– Teotokris.

– Un greco?

– Sì, dell’Arcipelago.

– Come mai vi trovate qui? La vostra nazione non ha interessi nell’India.

– È una lunga istoria che vi racconterò un’altra volta. Non sono venuto per questo, mylord.

– Ditemi che cosa desiderate da me.

– Chiedervi, da parte del rajah, una spiegazione. —

Yanez aggrottò impercettibilmente la fronte e guardò attentamente il greco, come se cercasse di scrutare i suoi pensieri.

– Parlate, – disse poi.

– Voi non siete giunto solo qui?

– No, ho condotto con me sei cacciatori malesi che mi hanno dato molte prove di fedeltà quando cacciavo le tigri bornesi.

– Ah! Siete stato al Borneo?

– Ho visitato tutte le isole malesi facendo delle vere stragi d’animali feroci.

– Eppure noi abbiamo saputo che un’altra persona vi ha accompagnato.

– Chi?

– Una bellissima giovane indiana che ha preso in affitto un palazzo.

– E così? – chiese Yanez, freddamente.

– Il rajah desidererebbe sapere se è qualche principessa indiana.

– E perché?

– Per invitarla a corte.

– Ah! – fece Yanez, respirando un po’ più liberamente di prima, poiché aveva provato, non ostante il suo meraviglioso coraggio e sangue freddo, una certa apprensione. – Dite a S. A. che io lo ringrazio, ma che quella giovane non ama che la tranquillità della sua casa.

– È però una principessa.

– Sì, del Mysore, – rispose Yanez. – Volete saper altro? —

Il greco non rispose: pareva che fosse imbarazzato o che volesse fare qualche altra domanda e non osasse.

– Parlate, – disse Yanez.

– Vi fermerete molto qui, mylord?

– Non lo so, dipendendo dal minor o maggior numero di tigri che infestano l’Assam.

– Lasciate che divorino, – disse il greco, alzando le spalle. – Che cosa importa a voi se si mangiano alcune centinaia d’assamesi? Il rajah ne avrà sempre abbastanza da governare.

– Non siete troppo gentile verso chi vi ospita.

– Sono ospite del rajah e non di loro.

– Spiegatevi meglio.

– Che cosa vorreste per tornarvene nel Bengala? Là vi sono più tigri che qui e nelle Sunderbunds potrete sfogarvi finché vorrete.

– Io andarmene! – esclamò Yanez.

Teotokris rimase silenzioso, guardando però con un certo stupore Yanez.

– Un mio compatriotta mi avrebbe a quest’ora compreso, – disse poi con mal celata collera.

– Può darsi, signore, – rispose pacatamente Yanez; – siccome però noi inglesi non siamo così svegliati come i greci dell’Arcipelago, abbiamo l’abitudine di aspettare sempre maggiori spiegazioni.

– Cinquemila rupie vi basterebbero? – chiese il greco.

– Per…

– Andarvene?

– Aho!

– Ottomila. —

Yanez lo guardò senza rispondere.

– Diecimila, – disse il greco coi denti stretti.

Nuovo silenzio da parte del portoghese.

– Quindicimila?

– E trentamila invece a voi se fra ventiquattro ore avrete varcato la frontiera dell’Assam, – disse Yanez, alzandosi.

Il greco era diventato pallidissimo, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso.

– A me! – gridò.

– Sì, a voi le offre mylord Moreland, che non è mai stato un greco dell’Arcipelago, né un pescatore di spugne o di sogliole.

– Avete detto? – gridò Teotokris stringendo le pugna.

– Vi occorrerebbe per caso un medico per farvi qualche operazione agli orecchi? Uno dei miei malesi è abilissimo in tali faccende.

Ha curato perfino una giovane tigre che io avevo fatta prigioniera. —

Il greco aveva fatto due passi indietro saettando su Yanez, che conservava la sua calma ammirabile, due occhi di fuoco.

– Mi avete offeso, mi pare? – disse con voce arrangolata.

– Parrebbe anche a me.

– E allora?

– Ma! Da noi, quando si crede di aver ricevuto un insulto, si usa chiedere una riparazione colle armi. —

Il greco rimase interdetto.

Yanez dal canto suo levò una sigaretta da una tasca e l’accese tranquillamente, soffiando in aria una nuvoletta di fumo profumato.

– Se ne volete una anche voi, signore, ve la offro di tutto cuore.

– Voi volete burlarvi di me!

– Io! Dio me ne guardi! Io non amo burlarmi che delle tigri, e quelle sono più pericolose degli uomini. Vi pare, signor Teotokris?

– Sicché voi non volete andarvene?

– Non sono già venuto qui per uccidere una miserabile kala-bâgh – rispose Yanez. – Voglio tornarmene al Bengala con un bel numero di pelli.

E poi ho trovato che si sta benissimo qui nel palazzo reale.

– Voi non conoscete ancora quanto sia capriccioso il rajah. Egli sarebbe capace di ordinarvi domani di portargli una tigre ogni giorno.

– Ed io andrò a cercarla e ucciderla. Non mi ha nominato forse il suo cacciatore?

– E potrebbe anche chiedervi di mostrare i vostri documenti per accertarsi se siete veramente un mylord od un volgare avventuriero. —

Questa volta fu Yanez che impallidì. La sua destra piombò sulla spalla sinistra del greco con tale violenza da costringerlo a piegarsi, quantunque fosse più alto d’almeno un palmo.

– Siete voi ora, signor Teotokris, che mi avete offeso: vi sembra?

– Può darsi.

– Ora siccome un mylord non lascia mai impunito un insulto, vi chiedo di rendermi stretto conto di quel titolo di avventuriero.

– Quando lo vorrete, se mi concederete la scelta delle armi e che il duello sia pubblico.

– Fate, – rispose semplicemente Yanez.

– Per domani.

– Sia.

– Il rajah e la sua corte saranno i nostri testimoni.

– Benissimo.

– Addio, signore.

– Mylord vi saluta, greco dell’Arcipelago. —

11. Il veleno del greco

Gli indiani, al pari di noi europei e di molti altri popoli asiatici, hanno una vera passione pel teatro; i migliori attori sono sempre i malabari ed i tamuli, i quali vengono specialmente assoldati dai rajah che li retribuiscono non meno dei lottatori.

Le commedie che rappresentano sempre, sono tratte dalle antiche leggende indiane ed a base di soggetto religioso, perciò si vedono sempre apparire divinità, giganti e malvagi che si danno busse finché sono esausti.

Quasi sempre vi figurano il dio Rama, il conquistatore di Ceylan, che decanta il valore dei suoi guerrieri; Krisna che ha compiuto imprese straordinarie tratte dal yudkishtira vigea, uno dei più grandiosi poemi epici, e Pandu, il famoso re dell’India, della razza dei re provenienti dal sole.

I loro teatri, al pari di quelli siamesi, annamiti e cinesi, sono di una semplicità straordinaria.

Una piattaforma con qualche vaso contenente una pianta, tre o quattro stanzette ai lati per gli attori onde possano cambiarsi senza essere veduti dal pubblico e molti lumi ad olio, sospesi a qualche filo di ferro.

Gli spettatori siedono per terra, su stuoie, e all’oscuro, così è permesso loro di fumare, di mangiare e anche di bere: dobbiamo dire però che non disturbano mai gli attori. Tutt’al più si rizza un piccolo padiglione quando assiste alla rappresentazione qualche personaggio importante.

Gli attori sono sempre numerosissimi ed i loro abbigliamenti molto splendidi e molto ricchi ed all’eroica indiana, cioè simili a quelli che si vedono in certe statue antiche dei loro numi e dei loro eroi.

Gli attori, come in Cina, sono tutti uomini e giovanotti. Questi ultimi fungono da donne e sanno truccarsi così da rendere l’illusione quasi perfetta.

Le rappresentazioni finiscono quasi sempre con una pantomima, la quale però è difficile a essere compresa da chi non ne ha fatto uno studio particolare. L’europeo non ci capisce affatto nulla per quanta attenzione vi presti.

Essi pretendono di esprimere in essa non solamente le azioni e le passioni, bensì anche gli oggetti esterni ed assenti, come per esempio una montagna, un cavallo, una nave, un albero ecc. per mezzo di gesti, ciascuno dei quali è fisso a determinare e significare il tale e tal altro di quei medesimi oggetti.

Invece le passioni sono in quelle pantomime assai bene rappresentate.

Per esprimere l’amore, gli attori menano dolcemente in giro la testa rivolgendo, nel medesimo tempo, in una maniera leggiadra e tenera gli occhi e sospirando teneramente.

Per esprimere invece l’ira, mettono in convulsione, in un modo assai espressivo i muscoli delle labbra, del naso, degli occhi, della fronte e così del resto…

Il sole era scomparso da qualche ora, quando Yanez fu avvertito dal chitmudgar che la rappresentazione stava per cominciare e che il rajah lo aspettava nel padiglione che era stato eretto in mezzo allo spazioso cortile del palazzo, di fronte alla piattaforma che doveva servire da teatro.

– Andiamo a vedere che faccia farà S. A., – mormorò il portoghese, sorridendo ironicamente. – Scommetto che questa notte non dormirà tranquillo.

 

Il colpo sarà forse troppo audace, ma bah! Non sono solo e Sandokan è capace, con un pugno d’uomini, di spazzar via anche la guardia del principe.

Checché accada andiamo a vedere come lavorano questi attori indiani. —

Sempre prudente, potendo aspettarsi qualunque sorpresa in quella corte dove era straniero e dove sapeva ormai d’avere un nemico mortale in quel greco dell’Arcipelago, si nascose sotto la fascia le pistole ed il kriss, diede ordine ai suoi malesi di fare altrettanto, poi scese nel cortile cercando di affettare la massima tranquillità.

Tutto era pronto per la rappresentazione. Il palcoscenico, una semplice piattaforma adorna solamente di pochi vasi di porcellana, che contenevano dei colossali mazzi di fiori, ed illuminata da una trentina di lumi di vetro variopinto, non aspettava altro che gli attori.

Ai lati soldati, servi e serve, seduti su dei tappeti, chiacchieravano sommessamente. Di fronte, sotto un ampio padiglione formato da tende seriche a colori smaglianti, stavano il rajah col greco, i suoi ministri e gli alti dignitari dello stato. Fumavano, bevevano liquori o masticavano il betel in attesa che la rappresentazione cominciasse.

Il principe che sembrava di molto buon umore e anche un po’ alticcio, fece sedere Yanez alla sua destra, dicendogli:

– Spero mylord, che sarete contento dei miei attori. Sono quasi tutti malabari e li ho fatti scegliere con cura.

– Io essere contentissimo, – rispose Yanez. – Amare molto teatro io, anche indiano.

– Bevete mylord, – disse il rajah porgendogli una tazza. – Questo è vero gin inglese.

– Più tardi, Altezza – rispose il portoghese che aveva notato come quel liquore lo avesse versato il greco. – Non avere sete ora. —

Depose la tazza accanto a sé, su una scranna, ben deciso di non vuotarla. Non si fidava troppo del signor Teotokris.

Il rajah batté le mani e tosto comparvero sulla scena una cinquantina di attori. Alcuni erano truccati da vecchi ed indossavano dei costumi principeschi, altri da donne e non mancavano i fanciulli e le fanciulle.

Spiccava soprattutto, per la ricchezza delle sue vesti, una ragazzina d’una diecina d’anni, che si teneva accanto ad un vecchio guerriero che aveva una lunga barba bianca.

Fra tutta quella gente vi era un rajah d’aspetto sinistro, accompagnato da un giovane principe che rassomigliava stranamente a Sindhia.

Nel vedere quei due personaggi il portoghese non aveva potuto trattenere un sorriso.

– Questi indiani sanno camuffarsi meravigliosamente, – aveva mormorato. – Credo di non avere spese male le mie cinquecento rupie. —

Dopo una lunga serie di complimenti fra il rajah e tutta quella gente, una immensa tavola era stata portata sul palcoscenico, carica di piatti e di cibi e tutti si erano messi a mangiare, mentre una turba di bajadere e di suonatori intrecciavano danze e facevano squillare rumorosamente gong, sitar e saranguy accompagnati da gran colpi di tumburà, magnifico istrumento, caricato di dorature, di pitture, di nastri e di preziosi ornamenti che i ricchi indiani tengono esposto agli occhi dei forestieri nella loro migliore stanza, siccome una delle più belle suppellettili.

Mangiavano frattanto gli attori, con un appetito invidiabile e non già dei pesci di cartapesta o delle salse false, tracannando dei fiaschi pieni di toddy, ridendo e chiacchierando rumorosamente.

Ad un tratto, verso la fine del banchetto, si vide il rajah a scomparire, per mostrarsi poco dopo, accompagnato da alcuni ministri, sulla balconata che sovrastava il palcoscenico.

Teneva in mano una carabina ed i suoi compagni portavano invece delle bottiglie e dei bicchieri.

Tosto echeggiò un colpo di fuoco ed uno dei convitati, il vecchio guerriero dalla barba bianca, cadde mentre la bambina che gli sedeva accanto, fuggiva urlando.

Altro colpo di fuoco ed un altro cadde dibattendosi disperatamente. Il rajah, che sembrava in preda ad una furiosa pazzia, vuota una tazza di liquore che un ministro gli porge, poi prende un’altra carabina e torna a sparare.

I convitati fuggono disperatamente aggirandosi, come lupi in trappola, intorno alla tavola, rovesciando sedie e tondi, urlando spaventosamente e tendendo le braccia verso il rajah che continuava a sparare.

Stramazzano i vecchi, poi le donne, poi i fanciulli, ma il sanguinario principe, come invasato dal demonio della distruzione, sordo ai lamenti strazianti delle vittime, continua a sparare, finché non rimangono che il giovane che gli rassomiglia e la bambina che piange sul cadavere del vecchio guerriero.

Yanez guarda il rajah. Il principe è pallidissimo, la sua fronte è aggrottata, le sue labbra fremono. Si ricorda bene di quel terribile dramma che lo ha portato sul trono dell’Assam.

– È più commosso di quello che credeva, – mormora il portoghese. – Aspetta la fine, mio caro. Questo è ancora nulla. —

Il rajah beve un’altra tazza e guarda le vittime, contandole cogli occhi.

Il giovane principe, che è ritto in mezzo ai cadaveri tende, con atto disperato, le braccia verso il rajah che barcolla come un ubriaco fradicio e urla ripetutamente, simulando a meraviglia uno spavento indicibile:

– Lasciami la vita! Sono tuo fratello! Abbiamo nelle vene il medesimo sangue! —

Il rajah sembra esitare, poi il suo sguardo ardente e feroce si spegne lentamente. Getta sul palcoscenico una delle sue carabine e dice:

– Io ti risparmio purché tu colpisca la rupia che io getterò in aria. —

Il principe raccoglie l’arma e spara sul rajah che stramazza fulminato sul terrazzino.

I ministri del defunto tiranno si affrettano a discendere nel cortile ed a gettarsi ai piedi del giovane principe, ma questi invece si getta sulla bambina che piange sempre sul cadavere del padre, gridando con un gesto tragico:

– Portatela via, anch’io non voglio più parenti! Vendetela schiava a qualcuno! —

Sulla scena compariscono alcuni indiani, miseramente vestiti, dai lineamenti feroci, che portano dipinto sul petto un serpente azzurro colla testa d’una donna e che hanno ai fianchi dei fazzoletti di seta nera e dei lacci.

Sono i thugs, gli adoratori della sanguinaria Kalì, i terribili strangolatori.

Afferrano brutalmente la bambina, la cacciano entro una specie di sacco e la portano via malgrado le sue grida.

Yanez torna a guardare il rajah e lo vede livido. Grosse gocce di sudore gl’imperlano la fronte e le sue labbra si agitano come se un grido dovesse uscirgli: però non riesce a pronunciare nemmeno una sillaba.

– Non osa, – mormora il portoghese.

Tutti gli attori in quel momento scompariscono, i gongs, i sitar ed il tumburà intonano una marcia trionfale che assorda gli spettatori.

Tosto venti uomini che indossano dei costumi guerreschi e che tengono in mano delle scimitarre, invadono la scena mandando clamori altissimi; poi comparisce un palanchino sorretto da otto hamali splendidamente vestiti, sul quale sta assisa una giovane principessa che porta sulla fronte una corona reale.

Il rajah manda in quell’istante un urlo di belva feroce, seguìto tosto da un altro straziante.

Tutti gli spettatori balzano in piedi. Anche il rajah si è alzato guardando, con smarrimento, i suoi ministri che reggono un alto dignitario che barcolla e che ha le labbra imbrattate di una schiuma sanguigna.

– Che cosa succede qui? – urla Sindhia.

– Signore… Muoio!… – risponde il dignitario con voce fioca.

Yanez che non capisce nulla di quel colpo di scena, getta uno sguardo presso di sé ed impallidisce a sua volta.

Il bicchiere colmo di liquore, che si era messo presso la sedia, era stato vuotato da qualcuno.

Un lampo gli attraversa il cervello.

– Sono sfuggito alla morte per un vero miracolo. Se l’avessi vuotato io, a quest’ora mi troverei nei panni di quel disgraziato.

Cane d’un greco! Mi pagherai questo tiro birbone. Fortunatamente sono più astuto e più prudente di quello che credi. —

Nel padiglione la confusione era al colmo. Tutti gridavano e s’affannavano dietro al disgraziato, il quale vomitava sangue insieme a certe materie verdastre e filamentose.

Il medico di corte finalmente giunse. Con un solo sguardo capì subito che la sua opera sarebbe stata assolutamente inutile..

– Quest’uomo ha bevuto qualche potente veleno, – disse.

Il rajah era diventato livido. I suoi occhi ardenti come carboni, si fissarono ora sugli uni ed ora sugli altri dignitari che occupavano il padiglione e che tremavano come se fossero stati colti da un accesso di febbre.

– Qui vi è un colpevole! – gridò il principe. – O lo troverete o vi farò decapitare tutti! Mi avete udito?

Probabilmente quel veleno era destinato a me!

– O a me, Altezza? – disse Yanez.

Il rajah lo guardò con stupore.

– Tu credi, mylord?…

– Io non credere niente, però fare notare a S. A. che mio bicchiere non averlo vuotato io. Io averlo trovato senza goccia liquore dentro.